25 Aprile: che cos’è una liberazione?

25-apriledi Luca Baiada

A settant’anni dalla Liberazione e a cento dall’entrata dell’Italia nella Grande guerra, la Germania è forte e detta legge a un continente. E poi dice che il crimine non paga.

«Sulle rive dei fiumi di Babilonia ci siamo seduti / e abbiamo pianto al ricordo di Sion». Cosí comincia il Salmo 137, uno dei piú celebri.

Ha perso la moglie e i figli, Giuseppe Verdi, ed è allo stremo delle forze. Ai moti rivoluzionari è seguita la repressione, è povero e solo, medita il suicidio. Il libretto del Nabucco, che gli hanno proposto di musicare, è aperto alla pagina di un coro ispirato a quel Salmo: «Va pensiero sull’ali dorate …». Con il cuore in subbuglio scrive e scrive, e presto l’opera è compiuta: la sua vita è salva, il Nabucco infiammerà i teatri e sarà monito. Non solo le bombe di Felice Orsini, anche quelle parole, «o mia patria sí bella e perduta», diranno all’Europa l’urgenza della questione italiana. Anche dopo l’8 settembre 1943 qualcuno giurerà di aver sentito quel coro: dalle voci dei soldati, chiusi nei carri in corsa verso il Brennero. A immaginare quei treni che salgono da Verona, quei serpenti di ferro che si arrampicano sulle Alpi pieni di uomini, vengono i brividi. Seicentomila, deportati come schiavi in Germania. Davvero cantavano quel coro, passando il confine? È nobilmente reale che sia stato udito, ma se i suoi rintocchi avessero abitato piú le orecchie di chi lo sentiva, che le bocche affamate di chi era trascinato via, sarebbe un cortocircuito percettivo formidabile.

«E come potevamo noi cantare / con il piede straniero sopra il cuore. […] Alle fronde dei salici per voto, / anche le nostre cetre erano appese / oscillavano lievi al triste vento». È Salvatore Quasimodo, in una delle piú belle poesie sulla guerra di Liberazione. Il riferimento è allo stesso Salmo, con quel sussulto di fermezza, di dolore e di orgoglio. In quei versi è l’eco dei morti di piazzale Loreto, quelli innocenti del 10 agosto 1944, e delle stragi sulla Linea gotica.

Il piede straniero. Dopo il primo conflitto mondiale, l’Italia fascista si lega alla Germania con patti scellerati, che per primi i tedeschi non rispetteranno. Con l’attivismo politico, manovriero e spionistico nazista, l’Italia diventa da allora, già prima della Seconda guerra, un paese a sovranità minacciata. Grazie a quella presenza, alle informazioni e alla pianificazione, in vista del cedimento bellico, il paese sarà occupato in poche ore, dopo l’8 settembre 1943, malgrado la resistenza di militari e gruppi spontanei, mentre gli alti comandi e la monarchia fuggiranno. Anni di sangue, e per cacciare i tedeschi ci vorranno gli angloamericani, che dopo il 1945 non andranno piú via. Quando la Germania si riunifica, caduto il Muro nel 1989, qualcosa torna indietro, nell’ingranaggio della storia, ma solo a danno del popolo italiano. Negli anni novanta ci pensa lo spettro dei nuovi conflitti, a convincere l’Europa ad accettare l’integrazione e la valuta unica. La Germania sarà unificata, non pagherà i danni di guerra, ma avrà le mani legate da vincoli economici. Le cose sono andate diversamente: la Germania i danni di guerra non li ha pagati, è sempre piú forte, i paesi deboli sono indebitati e l’euro è germanocentrico, piú bismarckiano che carolingio.

Defilata dalle nuove direttrici dell’economia finanziaria, dissanguata da una classe dirigente vile e ignorante, deindustrializzata dai trasferimenti all’estero degli impianti, l’Italia reagisce con opere pubbliche a sfondo criminale, precarizzazione del lavoro, disinvolti stravolgimenti istituzionali, consumismo gastrico, superstizione.

Ed ecco le liquidazioni di tessuto produttivo, con le imprese che si indebitano protette dalla politica e poi sputano gli indesiderati accaparrando il new e vomitando il bad, con operazioni senza costrutto e senza memoria, come è accaduto all’Alitalia e come può accadere ovunque. Ecco la Costituzione strapazzata da modifiche che accentrano il potere e sviliscono la cittadinanza. Ecco i bar tabacchi affollati di poveri con le scarpe rotte, che smaniano sulle lotterie istantanee, che chiedono alle slot quello che il lavoro, le istituzioni e la società non danno piú. Chi si fabbrica degli idoli, finirà per avere bocca senza voce e occhi senza vista, proprio come gli idoli. Ed ecco le sale giochi, dove i deboli resi sempre piú deboli trascinano l’oppressione sociale trasformata in colpa e malattia, cupe larve del paese di Acchiappacitrulli, quello dove «in mezzo a una folla di accattoni e di poveri vergognosi, passavano di tanto in tanto alcune carrozze signorili con dentro o qualche volpe, o qualche gazza ladra, o qualche uccellaccio di rapina». Ecco notabili che hanno perso ogni faccia, perché un freno alla voracità non c’è piú.

Ed ecco le illusioni. Raccoglitori zelanti di questo e quello, difensori dei piccioni e dei roditori, mangiatori di becchime o di polpette di verdure o di germogli crudi, tutti profeti del messia che hanno intravisto nel loro ombelico. Ed ecco l’ultimo delirio di un paese che si aggrappa alle sue budella: i cuochi sono divi, il fornello è un tempio. Libri di cucina, trasmissioni, con ogni variazione, dall’Expo che nutre il pianeta alle gare, nell’illusione che una produzione a basso valore aggiunto, esportabile in settori limitati e legata a una vaga immagine di buon vivere, possa sostituire le manifatture, trasferite all’estero o arrugginite, anzi defiscalizzate purché si tolga il tetto, per popolare le campagne di scheletri. Bella e perduta, cosí Lucio Villari ha intitolato un libro sul Risorgimento; ma andrebbe bene anche per gli opifici nella crisi, con le filande e le tabaccaie e i mulini che diventano alberghi, e con gli stabilimenti novecenteschi che si sbriciolano in attesa di cambi di destinazione.

«Coloro che ci avevano deportati ci hanno chiesto canti, i nostri oppressori, canzoni di gioia». È sempre il Salmo 137: al padrone piace divertirsi, niente musi lunghi, e se lo schiavo è di cattivo umore, meglio che si sfoghi a cantare. Lo sapevano già i dominatori a Babilonia, e il XIX secolo chiamò drapetomania il morbo dello schiavo malinconico. All’italiano non si chiede di cantare, come agli ebrei in Mesopotamia. Via i mandolini, è tempo di padelle. Adesso mangiare e far mangiare, insaporire e servire, ingozzarsi e stuzzicare l’appetito, con una spensieratezza da ultimi giorni di Pompei. Un notiziario nazionale ha dato clamore alla diatriba di un cuoco: l’aglio nell’amatriciana, sí o no? Quel giorno, in Libia e in Ucraina scorreva sangue, non sugo. Ma gli italiani non scrivono salmi, piuttosto bisticciano sul salmí, non si interrogano «come potevamo noi mangiare?», cantano poco Verdi e non hanno un Quasimodo.

Però. Insieme alla nostalgia e all’orgoglio, il Salmo 137 dice altro. I deportati fremono, le cetre tacciono, il padrone è arrogante. E il balsamo finale è questo: «O figlia di Babilonia destinata allo sterminio, / beato chi ti ricambierà il male che ci hai fatto. / Beato chi prenderà i tuoi bambini / e li sbatterà contro la pietra». Parole censurate sia nel coro del Nabucco, che si spegne invocando dolcemente la virtú, sia in Quasimodo, che non mostra cedimenti, ma neppure propone violenza. E niente infanticidio neppure nella versione rastafari del Salmo, quella degli anni settanta, prima cantata in Giamaica e poi rilanciata, guarda un po’, in Germania: «By the rivers of Babylon / there we sat down / ye-eah we wept / when we remembered Zion …». Musica conciliante, ottima per un falò sulla spiaggia, con le chitarre. Qui non ci si sbilancia troppo: c’è il rifiuto di cantare a comando e ci si consola con amore e «meditazione dei cuori». Anche nelle liturgie cristiane, il Salmo 137 è poco frequentato, quel finale pesa: è fra i pochi Salmi in cui pietra non è una metafora, del genere «il Signore è la mia roccia», ma proprio una pietra, di quelle dure. Il sangue macchierebbe il candido abito del perdono.

Il pensiero violento – va detto – tanti secoli fa rimase irrealizzato: gli ebrei lasciarono Babilonia con il consenso del re Ciro, e se qualcun altro uccise bambini babilonesi, questo forse accadde dopo, con la conquista della Mesopotamia da parte di Alessandro Magno. Fu beato, quel discepolo di Aristotele? Chissà, forse, ma brevemente: qualche anno dopo essere entrato a Babilonia, morí a Persepoli. Le promesse della storia, sono appunto promesse, i fatti non vanno dritti come ci si aspetta. I conti non tornano, meno male, cosí siamo ancora vivi per rifarli.

È escluso, che nel XXI secolo si possa raccomandare di sbattere bambini tedeschi sulla pietra. Anzi, nell’anniversario del bombardamento di Dresda si sono riaperte vecchie polemiche. A Dresda e a Berlino morirono bambini, ma i bombardieri avevano poche possibilità selettive, davvero meno di quante ne avessero i tedeschi a Marzabotto, a Sant’Anna di Stazzema o al Padule di Fucecchio, quando uccisero bambini guardandoli negli occhi. A Fucecchio, Antonio Mazzei aveva due anni, e al cadavere di sua madre mitragliata ripeteva sbigottito «mamma bua, mamma bua …», cosí un tedesco gli fracassò la testa.

Sui bombardamenti delle città tedesche non si attendono desecretazioni di atti, come sulle stragi nazifasciste: la commissione parlamentare sull’armadio della vergogna – 695 fascicoli nascosti dopo la guerra e rimessi in moto nel 1994 – ha lavorato dal 2003 al 2006, ma non c’è stata una discussione in aula, e l’interpellanza alla Camera che nel 2014, d’aprile, ha chiesto al governo di muoversi per l’esecuzione in Germania delle sentenze italiane, e per eliminare ogni segretazione, non è ancora stata trattata. Magari lo fosse quest’anno, per il settantesimo della Liberazione. Ma nel 2011, per l’introduzione del pareggio di bilancio, la Costituzione figlia della Liberazione è stata trattata da figliastra: sono venuti apposta a Roma, in Parlamento, Christian Kastrop e Elke Baumann, alti burocrati economici tedeschi, e la modifica è passata senza un solo voto contrario. E la Germania rispetta davvero i vincoli di bilancio che vuole per gli altri? Chissà se vale per i vincoli quel che lo storico Erich Kuby scrive sugli impegni di Hitler: Verrat auf Deutsch, cioè Il tradimento tedesco. E chissà cosa direbbe Piero Calamandrei, lui che nel 1947 osservava:

il popolo tedesco ha ripetutamente dimostrato, e in maniera spaventevole nella crisi dell’ultimo decennio, di possedere nel fondo della sua psicologia, in misura piú alta di ogni altro popolo europeo, certi istinti bestiali di ferocia ragionante e di sanguinario delirio di grandezza, che rappresentano per la comunità europea una perenne ricorrente minaccia di dissolvimento. […] Ognuno di noi, per uno o per altro episodio, porta nella memoria, intravista per un attimo e compressa per tutta la vita, una faccia di carnefice: la fronte sfuggente sotto quell’elmo calcato, il naso disegnato tra gli zigomi sporgenti, la mandibola prominente: e quegli occhi smorti ed acquosi, senza risposta di umanità. Come sottrarsi al sospetto che nell’untuoso commesso viaggiatore che domani, colla ripresa del commercio internazionale, di nuovo incontreremo in treno vestito in goffi abiti civili, ci tocchi riconoscere con raccapriccio proprio quella faccia di carnefice di cui portiamo nel cuore la immagine come una cicatrice?[1]

Altro che commessi viaggiatori, i burocrati tedeschi vengono a Roma a riscrivere la Costituzione. Ma la Germania non ci chiede di cantare, semmai di cucinare, di ospitare Seniorenreisen a buon prezzo e di svendere i bei cascinali, quelle case animate di cui Pasolini scriveva: «c’era una volta un popolo / abitava in casali tagliati come chiese …». E ancora, la Germania non ci deporta, semmai esporta quello che prima fabbricavamo noi, e si prende con un po’ di soldi le intelligenze che non trovano lavoro qui. Fughe di cuori, oltre che di cervelli: come si dice, o il vassoio o la valigia. Quelli della valigia non si sentono costretti, non vivono la lacerazione di coscienza degli Imi, gli internati militari nel Terzo Reich, non si chiede loro un giuramento a Mussolini. A questi si chiederà di lasciarsi assorbire: se staranno buoni, diventeranno tedeschi come le persone perbene. Non sono Gastarbeiter con le borse di cartone. Una canzoncina tedesca del 1962 li vedeva tutti napoletani struggini, gli emigranti: «Zwei kleine Italiener, die träumen von Napoli, von Tina und Marina …». Il seguito era peggiore, un Salmo rovesciato, un Antisalmo: «due piccoli italiani non dimenticano mai la casa, le palme e le ragazze sulle spiagge di Napoli». Nella lingua del padrone, i fiumi di Babilonia sono un lungomare, o una pensilina: «due piccoli italiani, alla stazione si riconoscono: ci vanno ogni sera, al treno espresso per Napoli». Mentre in Germania si cantava questa porcheria, a Roma i 695 fascicoli erano stati da poco archiviati con un provvedimento schifoso, e a Berlino si era appena costruito il Muro. Archivio e Muro, destinati a durare un trentennio, con la benedizione della fragile socialdemocrazia europea, al nord esplicita come Lutero, e di qua dalle Alpi tartufesca come un confessionale.

Nel settantesimo anniversario della Liberazione, con la Germania che si riprende economicamente quello che ha perso due volte militarmente, è piú importante chiedersi cos’è una Liberazione, che celebrare un anniversario. E il problema resta: come si conserva l’anima, il piccolo violino che il protagonista dell’Histoire du soldat di Stravinskij si fa rubare dal Diavolo in cambio di denaro stregato? Il bene piú profondo che l’impero del debito sottrae, quello piú difficile da recuperare, è fatto di autostima, di senso e di punti di riferimento, ed è per questo che dall’impero, con la sua cappa di colpa, di castigo e di furto del futuro, è difficile evadere anche se non puzza di vagone piombato. Dei due estremi del Salmo, di quel Salmo 137 fluente e duro, che inizia col fiume e finisce con la pietra, è piú facile tenersi all’acqua fresca, che assumersi la responsabilità di un sasso insanguinato. Eppure è chiaro che sono anche i bambini, oggi, a risentire di un regolamento di conti epocale, in cui l’infanzia tedesca è fortunata, a paragone con quella dell’Europa meridionale: nasce vincendo la lotteria geopolitica. E nei migliori propositi, come quelli del nazionalismo di sinistra che il fascismo rese impraticabile, che il quadro politico ciellenista proclamò senza andare sino in fondo, che il Partito d’Azione propose alle elezioni nel dopoguerra incassando un fiasco, e che i socialisti si fecero rubare da Craxi, abitano anche l’odio e il sangue, sentimenti difficili da esprimere. C’è di mezzo la vergogna, una cosa in cui gli italiani sguazzano come porci in brago, ma cui non permettono di bagnare i loro difetti.

Faccenda delicata, la vergogna. Tanti secoli fa, il babilonese si vergognò di deportare l’ebreo? L’ebreo avrebbe dovuto vergognarsi, di desiderare lo spappolamento dei bambini del deportatore? E quale vergogna doveva arrossire per prima? Nel Purgatorio, lasciando gli iracondi, un mover d’ala venta nel viso a Dante: «Beati pacifici, che son sanz’ira mala!». Solo se è mala, appunto, l’ira è male. Altrimenti, no.

[1] Piero Calamandrei, recensione a Vincenzo Chianini, Gli Unni in Toscana, Firenze, Vallecchi, 1946, in «Il Ponte», nn. 8-9, agosto-settembre 1947.

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