Appena fuori. Diario cinematografico

Diario cinematograficodi Antonio Tricomi

 Nanni Moretti, Mia madre (25 aprile 2015)

Chi lo ha lungamente amato molto, e in nome di ciò ha scelto di perdonargli tanti eccessi ed errori, non si meritava da lui tutto questo: oltre vent’anni di niente. Perché, dopo Caro diario, Moretti ha cessato letteralmente di esistere, tanto come cineasta quanto come intellettuale, riservandosi tuttavia di offrirci periodicamente, cioè con ogni opera successiva, un’ulteriore segnale di questa sua fragorosa inesistenza cinematografica e culturale. Chi magari pensava che con Habemus papam egli avesse raggiunto l’apice di tale inutilità, è forse bene non veda Mia madre e conservi in sé questa sua generosa illusione. Perché qui il nostro si spinge addirittura oltre la retorica: arriva al più gretto, ipocrita, patologico sentimentalismo a buon mercato; conquista l’estremo, assolutorio, nazionalpopolare patetismo conciliante. E peraltro non esita a farlo – perché anche nel giocare al ribasso si rivela comunque l’autocompiaciuto snob di sempre – svendendo alle ragioni della più stucchevole oleografia il pur irritante punto di forza che un tempo, piacesse oppure no, ne caratterizzava proficuamente la riflessione sulla società in special modo italiana: l’intrinseco, e inevitabilmente classista, complesso di superiorità su un’anonima plebe considerata di per sé belluina o, nella migliore delle ipotesi, indecente. Pregiudizio innato che gli deriva dall’appartenenza a un’alta o ripulita borghesia per di più particolare, quella romana, dalle posticce maniere spesso raffinate solo perché in verità nichilista, preoccupata in genere di apparire moralmente ineccepibile solo perché al fondo papalina. Così, in questa sua ultima inconsistente fatica, Moretti beatifica la madre, celebrandone la morte gloriosa, quasi a dirci: stupite per l’eccezionale santità di una donna a tal punto straordinaria da aver generato quell’inimitabile individuo che son io, il più sensibile, intelligente e garbato di tutti.

Matteo Garrone, Il racconto dei racconti – Tale of Tales (17 maggio 2015)

Sembra quasi che Garrone abbia voluto scontentare tutti, perché il suo film non ha nulla o ha davvero poco a che vedere con la Trilogia della vita di Pasolini, né precipita sino al puro fantasy: alle Cronache di Narnia, per esempio. Con la consueta maestria pittorica, egli continua però il discorso sul nostro tempo iniziato con L’imbalsamatore, del quale Il racconto dei racconti appare un lucido sprofondamento nella favola granguignolesca magari preventivabile e tuttavia necessario, perché solo la rappresentazione di primo acchito deformante, ma in verità iperrealistica, della fiaba nera può rendere esasperatamente credibile, ossia concettualmente verificabile, l’opinione che il cineasta dimostra da sempre di avere dell’odierna società occidentale. In altre parole, Garrone non poteva che scegliere un simile registro sia narrativo sia stilistico per farci intendere sino a che punto ci considera regrediti a uno stadio di incontenibile ferinità, posseduti da belluine pulsioni primarie, agiti da sanguinari istinti animaleschi. Il limite principale del film è forse che tutto ciò risulta troppo didascalicamente affermato: i riferimenti a ossessioni e abitudini contemporanee, come per esempio la feticizzazione della giovinezza e della corporeità o la pratica – da molti giudicata salvifica – della chirurgia estetica, non si rivelano eccessivamente scoperti? E, a nuocere al Racconto dei racconti, è anche una sorta di ostinata ricorsività della materia e del messaggio: proprio perché altro non fanno che ribadire l’assunto teorico e reiterare l’impianto formale immediatamente resi chiari dal regista, le singole storie narrate tendono a ridursi a semplici variazioni sul tema, senza riuscire a guadagnarsi qualcosa che almeno somigli a una specie di peculiarità allegorica. Difetto che, per così dire, ne duplica uno di natura prettamente stilistica: benché con indubbia abilità nel ricavare una propria cifra personale dalla sistematica valorizzazione di un bulimico e tuttavia maturo talento manieristico, Garrone si appoggia, per rivisitarli liberamente, a troppi modelli pittorici e, ancor più, cinematografici. Il film ne soffre, perché, almeno a tratti, sembra non saper trovare il proprio fulcro espressivo, rischiando di ridursi a una carrellata di sia pur raffinate citazioni. Si riconoscono facilmente omaggi a Bava e, non meno, all’Armata Brancaleone, è vero. Continua però ad apparire Fellini, come del resto già in Reality, la principale fonte d’ispirazione del cineasta. Unitamente a un altro modello parimenti, e tuttavia con solo parziale coerenza, riattraversato in quel lungometraggio: Pinocchio, in questo caso ripensato alla luce delle favole dei fratelli Grimm e dunque tradotto in chiave addirittura pulp. Si potrebbe anzi sostenere che i riferimenti al capolavoro di Collodi contenuti in quel film sembrano persino preannunciare Il racconto dei racconti, quasi che Garrone abbia inteso segnalarci e sigillare nel nome di siffatto romanzo di formazione e sull’Italia l’interna unitarietà del proprio discorso autoriale sempre orientato – quali che siano i gusci narrativi da cui esso emerge – a ritrarre dal vero un presente considerato ormai ineducabile e una civiltà occidentale supposta irrimediabilmente imbestialitasi. In estrema sintesi, potrebbe allora essere questa l’obiezione essenziale da muovere al Racconto dei racconti: se l’obiettivo era in effetti quello di confrontarsi con l’attuale società dello spettacolo, avrebbe magari giovato al film un diverso trattamento della fonte letteraria, giacché un’attualizzazione tanto esplicita quanto allusiva dell’opera di Basile, invece che una trasposizione legittimamente libera ma comunque troppo palesemente estrinseca di essa, avrebbe forse di per sé contribuito ad attutire la complessiva sensazione di gratuità narrativa, o meglio di pretestuosità formale, che il lungometraggio inclina a generare nello spettatore. Anche in quello che – pur trovandolo talora troppo oleograficamente artefatto e ipotizzando ch’esso ci avrebbe guadagnato a risultare in una qualche misura più sporco, meno leccato – non lo ritiene uno sterile esercizio di stile, bensì un tentativo finanche coraggioso di decostruire impetuosamente le retoriche dell’oggi consegnandone il nichilistico, sguaiato, bestiale senso profondo, l’intrinseca antropologia negativa, a una ferale, catastrofica, grottesca mitologia nera. In cui a spiccare è anzitutto un’inselvatichita, strutturalmente criminale controfigura di Medea, fosco emblema – con ogni probabilità consapevole – di un’epoca segnata anche da una sorta di castrante maternage che, per certi versi, può essere ricondotto, almeno dal punto di vista psicologico, al grembo immaginariamente protettivo offerto a ciascuno da un ormai selvaggio consumismo di massa.

Paolo Sorrentino, Youth – La giovinezza (24 maggio 2015)

Ora basta, però. Come adulto mediamente istruito, che quattro pensieri di senso compiuto è in grado di articolarli, che quattro libri buoni in vita sua li ha letti, che quattro classici del cinema se li è visti, che quattro capisaldi della tradizione figurativa occidentale li conosce, che insomma ha fatto un discreto liceo e ha frequentato una pur solo decente università, rivendico il diritto di considerarmi oltraggiato dal ruffiano calligrafismo, sempre più spudoratamente pop, di Sorrentino. Il cui monocorde estetismo tutto gratuitamente bulimico si compiace, stavolta, di offrirci addirittura un incastro, oltre ogni dire noioso, di patinati videoclip, continuamente interrotti dal brusio pseudofilosofico generato dalle pillole di saggezza che uno sciocchezzaio involontariamente comico non lesina di largire con crescente autoironia fasulla. Sì, perché, da una parte, in Sorrentino tutto è caricaturale, quindi non chiede di essere percepito se non come aprioristica deformazione onirica o grottesca di abusate, ridicole verità che perciò non si vogliono mai credibili e neppure ammettono, allora, di essere colte realmente in fallo. Dall’altra parte, l’indigesta ovvietà del senso comune, che dovrebbe dunque essere grottescamente derisa, finisce in tal modo con il ritrovarsi intellettualmente legittimata da un ossessivo manierista dei sentimenti e dei saperi che aspira a guadagnarsi l’impunità: il suo cinema diventa puro artificio incline a sospendere il significato, o meglio a renderlo superfluo, ingiudicabile; mera emozione che, in quanto tale, ossia concettualmente sgombra, si pretende significativa, cioè latrice di umorali gusci vuoti che ciascuno spettatore potrà arbitrariamente riempire di senso pescando a suo piacimento nel proprio ciarpame culturale, nel proprio cattivo gusto. Anche per questo l’anti-tragico, farsesco nichilismo di Sorrentino denota una sorgiva vena ridanciana, che sarebbe forse la più sincera cifra espressiva del cineasta, se egli smettesse i panni, per lui incongrui, del maître à penser. E parimenti svela il più autentico sostrato del suo vitalistico, a tratti addirittura cinico, comunque sia onnivoro, mistico-fumismo, che a un primo sguardo può sembrare neo-pagano, tanto si dimostra enfaticamente kitsch. Ebbene sì: Sorrentino, che lo voglia oppure no, che lo sappia oppure no, è profondamente, anzi cialtronescamente, cattolico.

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