La critica letteraria oggi e l‘Asor Rosa di cinquant’anni fa

Alberto Asor Rosadi Marco Gatto

1. Grazie a Cesare Segre, e persino al di là delle sue intenzioni, ci eravamo chiesti dove andasse a parare la critica letteraria, che per questo studioso, è bene ricordarlo, più che un discorso sull’esistente a partire dai testi, era semplicemente un sinonimo di indagine filologica e stilistica1. Il termine “crisi” – ben prima che venisse investito, in anni recentissimi, di significati più strettamente economici o finanz-capitalistici – funzionava già da passepartout per definire una situazione di irreversibile atrofia del discorso critico: gli intellettuali non avevano più una funzione civile, erano privi di pubblico e di destinatario; l’interrogazione del mondo attraverso i testi aveva subito contraccolpi laceranti; il dibattito languiva, anche a causa degli scontri tra interpreti e analisti, impegnati e tecnici, insomma, tra chi intendeva la letteratura come occasione di intervento sociale o politico e chi la intendeva come corpo autonomo di regole, meccanismi, strutture, come scrigno di una qualche essenza irriducibile.

A un quarto di secolo di distanza – dopo tutti i “finismi” debolisti e necrofili del caso (fine delle grandi narrazioni, fine del marxismo, fine della psicoanalisi, fine della modernità, fine dell’umanesimo, morte dell’autore, morte della testualità, e via discorrendo), e dopo la proliferazione incontrollata di studi di area e di nuove specializzazioni – possiamo guardare con una certa nostalgia ai cahiers de doléances di quella stagione, nella quale il lamento e il piagnisteo, a ben vedere, potevano avere ancora un senso. L’impotenza della critica letteraria è oggi un dato di fatto, pacificamente accettato dai maestri, dai critici in carriera e dai giovani esordienti: fuori da ogni entusiasmo puerile, chi si muove sullo scacchiere sempre più ristretto della cosiddetta militanza culturale sa bene di dover accettare, a volte senza molti rimpianti, una totale inefficacia del proprio discorso, una generale manomissione del proprio decoroso statuto. Non è più questione di autoreferenzialità o di snobismo intellettuale; non è più il tempo della rivendicazione sacerdotale o di casta: anche il critico meno avvezzo al lessico per iniziati, meno imbevuto di teorie francesi, meno sensibile al gioco deleuziano della mitopoiesi categoriale, sa bene oggi di parlare anzitutto a se stesso, di comunicare le sue idee a una supposta società della lettere che non esiste e non ha ragione d’essere, se non nelle stanze di sparute conventicole o di ciniche consorterie; sa bene, insomma, di ricamarsi addosso una finzione discorsiva che gli permette di stare al mondo (o di partecipare ai concorsi), non certo in virtù di un qualche riconoscimento proveniente da altri (salotti reali o virtuali esclusi) o di un rispetto esibito per le proprie competenze o abilità (per usare il lessico degli attuali tecnocrati dell’istruzione). Sicché sarebbe lecito chiedersi se ormai il dato di fatto non abbia ceduto il passo a un’abitudine indotta, a una posa intellettuale che descrive in pieno l’attività del critico oggi. Penso ai più giovani, ai nati – come lo scrivente – negli anni Ottanta, nel decennio peggiore della storia italiana, o a quelli che verranno, e che adesso frequentano le università dei crediti formativi e dei settori disciplinari: a coloro che si sono formati nel momento massimo di lagnanza e hanno sperimentato sulla pelle l’assenza di maestri, di un dibattito decoroso sui metodi e sui testi, e la destituzione della politica, di un mondo culturale che avesse una qualche ragione d’essere.

Eppure, una novità, rispetto all’immediato passato, va profilandosi nell’ormai ristretto ambito della critica letteraria e merita di essere indagata. Essa ha una doppia valenza. In un caso, si tratta di un’accettazione consapevole – anche e soprattutto generazionale – della propria inefficacia o della propria scomparsa sociale, che viene però (qui sta il punto di forza) esibita come problema di fondo. Questa forma mentale coinvolge solitamente i critici tra i trenta e i quarant’anni, ovvero coloro che hanno subito e continuano a subire l’esperienza del precariato o dell’ingresso traumatico nel mondo del lavoro flessibile, e che tuttavia si sforzano di attribuire un peso non solo individuale alla propria condizione di esuli.

Generalizzando, ne riscontro due specie. Alcuni, spesso con intelligente furbizia, scelgono l’arma dell’ironia, dietro cui si cela una possibile riattualizzazione dei repertori letterari più fossilizzati, una manovra di svecchiamento della tradizione, un tentativo di riportare all’attenzione del lettore odierno motivi e occasioni offerti dalla letteratura di ieri e di oggi, magari con un linguaggio e una retorica che risultino adatti all’orizzonte dispersivo della comunicazione culturale: penso a un critico acutissimo e prolifico, talora persino eccessivamente mordace, come Matteo Marchesini e ai suoi scritti d’occasione, che però troppo spesso giocano a esibire idiosincrasie o a replicare certe pose nichilistiche di ascendenza berardinelliana2. Su altri versanti, i meno propensi a vedere estinta la possibilità di una militanza si vedono costretti a convivere con un’angoscia epocale che ne influenza il discorso, anche quando esso voglia ripararsi da esiti pessimistici o solipsistici e dirsi costruttivo e socialmente spendibile: è il caso di Antonio Tricomi, uno dei pochi per cui valga la pena di rispolverare l’etichetta di “critico della cultura”, il cui ultimo lavoro – dietro cui mi piace scorgere una “tragicità” argomentativa che ricorda il grande saggismo moderno e richiama alla mente due maestri del passato, tanto simili quanto diversi: Pasolini e Fortini – offre un esempio lucidissimo di come militare alla fine della militanza, di come fare critica di fronte alle apocalissi culturali dei nostri tempi, nello sforzo di rimettere assieme un alfabeto comune o di allestire mappe per l’orientamento collettivo3.

Ovviamente, sarebbero da considerare anche i casi di supposti critici trentenni o quarantenni in cui la riflessione sullo statuto della critica e del proprio “mestiere” non si dà o rimane sullo sfondo di un narcisistico riconoscersi nella società spettacolarizzata e giornalistica della buona cultura italiana. Ancora oggi circola qua e là l’idea di una letteratura che sia quasi esclusivamente discorso emozionale sulla vita o ci si attarda in quello sterile biografismo mitizzante che produce libri-intervista, elogi spropositati di romanzetti da facile trasposizione cinematografica, esaltazioni della bellezza estetica e dello scrivere con gusto. Malattia congenita della cultura italiana, il dannunzianesimo di questi critici è sempre dietro l’angolo. Basti sfogliare le pagine culturali dei quotidiani mainstream per averne qualche esempio.

Tuttavia, a interessare qui è la seconda versione dell’accettazione definitiva di uno stato di impotenza. E, in tal caso, il carattere generazionale si muta in inter-generazionale, e coinvolge sia i critici più in là con l’età, sia i critici nati, cresciuti e formatisi nell’ultimo cinquantennio di storia italiana. Tale versione implica una sospensione del giudizio sulla propria epoca, una rinuncia definitiva alla ricerca di senso, l’accettazione passiva di un dato di fatto, il completo asservimento a logiche di dominio fondate sulla negazione dell’analisi. Questi critici – spesso provenienti da stagioni di aspra lotta culturale o da dirette e indirette affiliazioni materialistiche o marxiste, più intellettualmente costruite che concretamente sentite – rappresentano oggi un tipo nuovo, o forse semplicemente l’incarnazione definitiva della cultura postmoderna: senza rinunciare a modalità d’espressione tradizionali come il saggio o la polemica, o senza rinunciare a un’idea di critica come discorso culturale che metta insieme possibili micronarrazioni e percorsi di senso, il critico è qui mosso da una consapevole astensione, sembra militare per un generico contenitore di segnacoli culturali, non desidera agire perché la verifica del suo lavoro si staglia su dimensioni immateriali, su evanescenze astratte o su fumisterie idiosincratiche e personalissime, appare solo interessato a lasciare un traccia di se stesso, a costruirsi un riconoscibile profilo culturale. Il critico consapevolmente postmoderno – che ama rappresentarsi come l’ultimo degli umanisti, come una sorta di Auerbach appartato che rimugina sulla fine della cultura – sospende il giudizio non perché convinto che questa possa essere una strategia di comprensione, ma perché la sua stessa attività si fonda sull’inazione, sull’inutilità del lavoro culturale: come nel caso di Guido Mazzoni, e del suo ultimo (già fin troppo criticato) libretto dal magniloquente titolo fortiniano (inversamente proporzionale al fine scientemente sterile delle sue argomentazioni), I destini generali, in cui al ragionamento contrastivo si preferisce l’esternazione di un sentimento o di un’emozione, di un “disagio” di fronte all’evaporarsi della cultura umanistica, a cui è difficile accostare un’espressione di politicità4.

Il problema del critico rinunciatario non risiede solo nel suo asservimento al nichilismo di un’epoca che fa della critica un’articolazione del network culturale di matrice capitalistica. Il problema del critico rinunciatario risiede, semmai, nella sua ormai raggiunta occupazione all’interno di tale rete, in cui il valore assoluto è rappresentato dall’idea pervasiva e illimitata di “Cultura” come espressione libera e fluttuante di significati. E ciò lo rende artefice – qui il paradosso – di una costruzione sociale, alfiere di un nuovo modello di socializzazione che interessa l’edificarsi di un amministrato analfabetismo collettivo, in cui l’investimento culturale sull’interezza della persona, mediante strategie di estetizzazione del Sé, produce continuo disorientamento, permanente inebriarsi in un universo di segni, che il critico non intende certo decodificare, ma finisce per fare proprio, perché rappresenta il corredo in cui la sua occupazione si riconosce e giustifica. Come rilevava Antonio Gramsci – con un quanto di paradossalità enorme: alla scomparsa del critico si sostituisce una forma socializzata di critica che vive della sua stessa inefficacia –, gli intellettuali che non riconoscono fra le proprie funzioni la necessità di porre ordine al caos sono sensibili semplicemente al loro auto-collocarsi nelle teche della cultura riconosciuta5.

2. E allora getta sconforto – ma, in fondo, rende valido quanto appena detto – leggere che un critico per sua stessa definizione “ruggente” e militante come Alberto Asor Rosa, nel tentativo di celebrare i cinquant’anni di un testo importante per la critica letteraria del nostro paese come Scrittori e popolo, decida di esternare al lettore d’oggi la propria raggiunta sfiducia nei confronti del giudizio critico o persino di teorizzare la giustezza di una posa nichilistica. Nel saggio appena licenziato per Einaudi, dal titolo certamente fascinoso di Scrittori e massa, l’ex operaista dà conto di svariati fenomeni – la fine della società letteraria, il tramonto della modernità, il mancato rapporto con l’idea di tradizione – e ammette che, di fronte all’implosione dei discorsi collettivi che avevano animato le stagioni precedenti del dibattito culturale, oggi ci si possa regolare soltanto attenendosi «ai dati di fatto, relegando i criteri valutativi sullo sfondo, per non interferire con una prospettiva del passato, che oggi è pressoché unanimemente rifiutata dalle forme attuali della ricerca»6. Sono righe che fanno trasalire e che producono smarrimento: dietro di esse, a stento ci si sforza di non vedere la peggior forma del nichilismo culturale contemporaneo.

Non solo Asor Rosa qui destituisce il giudizio di valore, ma pone un’obiezione di senso a chi volesse mai adoperare una “prospettiva del passato” (che potrebbe semplicemente essere il marxismo o un’opzione materialistica), perché una sua adozione (che Asor Rosa forse ritiene appannaggio esclusivo della sua ruggente generazione: paternalismo sessantottesco che ha fatto il suo corso…) sarebbe antinomica rispetto al presente. Quantomeno, tale presupposto filosofico andava meglio esplicitato. In realtà, esso, nella sua espressione più genuina, lascia intravedere su quale piano storico-filosofico Asor Rosa si sia sempre mosso: quello cioè di un autonomismo che non riguardava solo le classi sociali, ma anche la dialettica storica, cosicché il dipanarsi dei fenomeni è da sempre visto attraverso rotture, apocalissi definitive, spazi di reclusione, è privato di quella continuità che giustificherebbe l’impiego di categorie moderne (nella loro perenne attualizzazione e modificazione) per comprendere i nostri tempi.

Raschiando il fondo, il nichilismo di Asor Rosa e del suo sodale Mario Tronti – o, se vogliamo provocare, l’esito nichilistico della sinistra operaista e post-operaista – riaffiora cinquant’anni dopo: se l’unica classe a poter beneficiare della letteratura è la borghesia, tanto vale rinunciare a qualsivoglia battaglia culturale o letteraria (questa, si ricorderà, la tesi forte di Scrittori e popolo); e oggi, se è inutile adottare un punto di vista critico o esperire un giudizio di valore, non ci resta che costruire mappe o allestire classifiche o listare i contributi del mercato editoriale (altra tesi, a un tempo massimalista e morbida, che ben rappresenta la versione postmoderna del libro festeggiato). E, in effetti, Asor Rosa – che sembra aver sposato i dettami calviniani di una letteratura superficiale, veloce e leggera – ci restituisce, alla Eco, non solo liste ed elenchi privi di valide giustificazioni, ma ci consegna perle argomentative da rotocalco, che lasciano impallidire chi, come lo scrivente, ha da sempre apprezzato (seppure senza condividerla) la sua attività di saggista militante (escluse prefazioni imbarazzanti che non è piacevole ricordare). Così, commentando la moda giornalistica delle classifiche, l’intellettuale romano può affermare che «Per fortuna in Italia assai spesso occupa il primo o uno dei primi posti una persona degna di ogni rispetto come Andrea Camilleri». E, dal momento che non esistono più criteri e tutto è lasciato al gusto personale del critico, si possono annoverare Paolo Giordano e Silvia Avallone tra gli scrittori più rappresentativi – o, quantomeno, da “mappare” – della nostra contemporaneità7.

Asor Rosa sa bene che l’impossibilità di emettere giudizi è un portato del capitalismo imperante e della logica dei consumi. Più volte evoca come causa scatenante l’«atomismo individualistico» della nostra epoca: al quale, tuttavia, non c’è scampo, e di fronte al quale «non c’è altra scelta». L’unico auspicio – e qui l’intellettuale romano è coerente col suo antico credo operaistico e nichilistico – è il recupero di una forma (antigramsciana) di autonomia, di una propria essenza espressiva al di là di ogni altra «logica comunicativa», alla quale – e scopriamo quanto emozionalmente religiosa sia la nostra epoca, in cui, guarda un po’, il post-operaismo va a braccetto con le teologie lacaniane – occorre aggiungere «vocazione» e «amore»8. In tal senso, Scrittori e massa, quanto a finali a sorpresa, non ha nulla da invidiare all’explicit francescano di Impero, o ai rimandi cristologici di uno Eagleton, con un invito fuori dalle righe che lascio ad altri commentare:

Ma come potrebbe esserci letteratura autentica e profonda senza vocazione? «Vocazione», infatti, viene dal latino vocare, ossia «chiamare». Come si può fare questa cosa fuori dal comune senza essere, almeno un poco «chiamati»? Naturalmente – me ne rendo conto – queste sono chiacchiere al di fuori del concreto operare artistico-letterario di cui stiamo parlando. Ma, in fondo, che ci vuole? Non c’è conflitto senza amore, non c’è amore senza conflitto – su questo mi pare ci sia poco da discutere. Per fare buona letteratura, anche all’altezza di questi nostri difficili tempi, non ci vorrebbe dunque nient’altro che un più di amore, ossia, come ho già detto, un po’ più di conflitto. Se ce n’è, se ce ne fosse in giro, basterebbe tirarlo fuori, tirarli fuori, e mostrarli al mondo avaro, stupito9.

3. Forse la critica letteraria italiana è stata da sempre impolitica, in un senso però diverso da quello inteso da Thomas Mann nella sua bellissima raccolta di saggi. La rilettura di Scrittori e popolo potrebbe confermare questo giudizio, se attribuissimo alla critica italiana l’incapacità di andare oltre se stessa, di restare sempre al di qua della politica. Eppure, in quel cruciale 1965, usciva Verifica dei poteri: un libro che certo non poteva dirsi estraneo alla lotta politica e che anzi voleva fortemente annullarsi in essa. Poco più di un decennio prima – vale ricordare questa esortazione – Fortini aveva congedato uno dei suoi interventi più incisivi invocando un orizzonte forse non troppo lontano: «La meta ci pare che sia quella della preparazione di un nucleo di scrittori-critici, capaci di mediare le opere letterarie fino alle più remote parti del corpo culturale della nazione e di ritrasmettere quegli impulsi che sono la replica creatrice dei pubblici». E aggiungeva: «Un tale lavoro è l’onore di una generazione. Un onore che, fino ad oggi, nonostante certi episodi regolarmente falliti nella perpetua involuzione del nostro paese, è stato rifiutato dal delirio individualistico-cosmopolita degli scrittori e degli aspiranti scrittori italiani»10.

Dal momento che è stato appena evocato un importante luogo gramsciano (il noto e spesso travisato concetto di “nazionale-popolare”), mi sento pertanto di azzardare un’ipotesi consapevolmente parziale, rivolta cioè a una sparuta parte della critica letteraria italiana, quella che si volle o seppe dirsi, almeno nelle intenzioni, informata a una credenza politica o a un’ideologia di sinistra, in molti casi scarsamente elaborata. Ritengo che, in grande misura, l’impoliticità della critica letteraria italiana si spieghi proprio con l’allontanamento dalla lezione (o dall’esempio) di Gramsci – e che, facilmente, un testo come Scrittori e popolo abbia avuto fortuna o abbia fondato le ragioni del suo essere, e trovi ancora oggi un riscontro favorevole, in virtù della sua accusa veemente al “gramscianesimo” populista, ossia all’idea di concepire la letteratura come strumento della lotta rivoluzionaria e di emancipazione popolare, come mezzo per penetrare negli strati più bassi della popolazione e così favorirne l’emancipazione (anche e soprattutto su basi culturali).

Com’è noto le accuse di populismo si scontravano con una contraddizione argomentativa lacerante: la letteratura è un organismo borghese, e di conseguenza una letteratura proletaria è impossibile; nessun discorso culturale può dirsi sensibile alle esigenze reali della rivoluzione; al critico non resta che l’interesse osannante dei grandi capolavori della cultura borghese. Pertanto, la lotta politica non ha bisogno degli intellettuali. Dietro questa esplorazione apocalittica della propria inefficienza si nascondeva un voluttuoso nichilismo, un’idea ontologica e classista dell’attività culturale, che se permetteva ad Asor Rosa di riconoscersi in un radicalismo rivoluzionario senza partito e di denunciare (giustamente) l’assenza di una prospettiva di classe nel marxismo italiano contemporaneo, nello stesso tempo produceva sensibili passi indietro sul piano della politica culturale, lasciando gli intellettuali – scrittori e critici – interdetti, pietrificati, rinchiusi nelle celle della propria vocazione letteraria. Nel tentativo di costruire una politica culturale di classe che prevedesse l’estinzione della cultura e la fondazione prometeica di una soggettività rivoluzionaria irrimediabilmente altra rispetto alle identità politiche esistenti, Asor Rosa non si rendeva conto di proporre un ragionamento tipico della cultura borghese: un’ostentazione – a tratti immaginifica e senza rilievi pratici – di quella volontà di potenza e di quel soggettivismo superomistico che aveva rappresentato un affluente importante del nichilismo europeo. Rimproverando agli scrittori il disinteresse per le grandi correnti culturali d’Occidente e accusandoli di provincialismo, il critico romano si muoveva su un terreno di ambiguità irrisolta: da un lato, gli scrittori cedevano il passo a facili mitologie populistiche, mostrandosi inetti di fronte a un sano marxismo di classe – e ciò autorizzava a bastonarli sul tema della prassi politica aggirata; dall’altro, gli scrittori avrebbero dovuto sterilizzare la propria attività rinunciando al rapporto con la materia vivente del popolo, ricercando nell’intellettualismo delle avanguardie più moderne un motivo di fuoriuscita da ottiche eccessivamente nazionali.

La dimensione totalizzante della classe nella proposta asorrosiana si mostrava e si mostra, pertanto, del tutto a-ideologica, un presupposto teorico che poggiava le sue basi sull’idea del letterario come sfera autonoma. D’altro canto, uno degli esiti del marxismo operaistico – in ciò affine allo strutturalismo di Althusser o ai marxismi antidialettici degli anni Sessanta e Settanta – risiede nelle destituzione dell’idea di totalità, su cui il pensiero di Gramsci (che è l’obiettivo polemico di Asor Rosa, per il semplice fatto d’essere l’icona del Pci togliattiano) si fondava. Non solo: il discorso critico e autonomistico di Asor Rosa finisce per convergere nell’impeto distruttivo e apocalittico delle avanguardie italiane del Secondo dopoguerra, la cui triste sorte – quella di un assorbimento nel network del consumismo letterario, abilmente pronosticato dallo stesso Edoardo Sanguineti – crea una linea di continuità tra il materialismo classista e l’attuale condizione capitalistica, che potrebbe spiegare la posa rassegnata emersa in Scrittori e massa. Del resto, in un libro più tardo, Asor Rosa aveva concepito la classe come «estranea ed altra rispetto al sistema», perché, pur inclusa nell’articolazione della società capitalistica, la sua esistenza pone «la presenza e l’esigenza della propria drastica e irriducibile particolarità». Il compito del critico risiederebbe, pertanto, nel «ricondurre ogni ricerca intellettuale al significato o alle funzioni della particolarità e dell’autonomia operaia», che rappresenta un universo chiuso e inaccessibile, un elemento talmente altro da risultare – come storicamente è stato – frutto dell’immaginazione teorica. La visione della lotta culturale e politica è scissa da qualsivoglia velleità relazionale con l’intero della società: il suo esito sembra convergere in un sostanziale rifiuto della politica come mediazione e della cultura come strumento di lotta («La verità è che il concetto di particolarità operaia e la negazione della cultura fanno tutt’uno»)11. E quest’ultimo aspetto risulta di impressionante attualità, dal momento che sull’aggiramento degli istituti di mediazione si fonda l’attuale condizione politica italiana (specie nel campo della cosiddetta società civile e nel campo dell’ex elettorato di sinistra).

4. Una simile visione del letterario sposa l’attuale momento postmoderno, se ne fa fedele alleata. Noi la rifiutiamo. Perché la chiarezza con cui oggi si esplica la dialettica che tiene unite la produzione letteraria all’apparato culturale capitalistico, anche nelle sue manifestazioni più oppositive e critiche, chiama la critica a interrogarsi nuovamente sul nesso tra letteratura e destinatario sociale, tra intervento culturale e costruzione di occasioni sociali di rinvigorimento del pensiero critico, che non può certo acquietarsi nei proclami sterili e ricorsivi di un’autonomia della propria funzione intellettuale o del proprio lavoro artistico. Convoca gli intellettuali, insomma, a una nuova forma di responsabilità, che con l’esternazione di un disagio o la rinuncia al giudizio non ha nulla a che spartire.

A tale proposito, Gramsci rimane il maestro a cui guardare. Se per Asor Rosa, la colpa del prigioniero sardo consisteva nell’aver concepito l’azione rivoluzionaria nei termini di necessaria presa di contatto con il popolo e l’azione critico-letteraria come indispensabile considerazione di tutte le pratiche culturali al fine di demistificare la presunta unità della vita intellettuale, per noi, al contrario, l’idea di una lotta culturale che metta in crisi lo statuto dell’intellettuale-letterato, si opponga, in tempi di distruzione dei fondamentali alfabeti critici, alla sterile contrapposizione tra produzione culturale elitaria e produzione di massa (un’alternativa oggi di fatto inesistente), riabiliti, insomma, una prospettiva di lavoro culturale quale tentativo di convertire le poche e minoritarie resistenze in valori socialmente spendibili, quale rinnovata esperienza di egemonia, ci sembra non solo meritevole ma urgente. L’autonomia della cultura rappresenta, per l’intellettuale che non voglia accettare questi postulati gramsciani, il modo più comodo di abitare il presente. Ma se è vero che il popolo si è mutato in massa o addirittura in sciame, vale la pena potersi rifugiare, da scrittori, critici o intellettuali, nella sicurezza dorata della propria unicità?

1 Cesare Segre, Notizie dalla crisi. Dove va la critica letteraria?, Torino, Einaudi, 1993.

2 Cfr. Matteo Marchesini, Da Pascoli a Busi. Letterati e letteratura in Italia, Macerata, Quodlibet, 2014.

3 Cfr. Antonio Tricomi, Nessuna militanza, nessun compiacimento. Poveri esercizi di critica non dovuta, Giulianova, Galaad, 2014.

4 Guido Mazzoni, I destini generali, Roma-Bari, Laterza, 2015.

5 Cfr. Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, a cura di Valentino Gerratana, Torino, Einaudi, 1975, vol. 3, pp. 1515 sgg.

6 Alberto Asor Rosa, Scrittori e popolo (1965) / Scrittori e massa (2015), Torino, Einaudi, 2015, p. 373.

7 Ivi, p. 376.

8 Ivi, pp. 420, 421-422

9 Ivi, p. 422.

10 Franco Fortini, Per una critica come servizio [1951], in Dieci inverni 1947-1957. Contributi a un discorso socialista [1957], Bari, De Donato, 1973, p. 91.

11 Alberto Asor Rosa, Intellettuali e classe operaia. Saggio sulle forme di uno storico conflitto e di una possibile alleanza, Firenze, La Nuova Italia, 1973, pp. 45 e 46.

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