Che cosa sarebbe una politica di pace

terrorismodi Rino Genovese

Si può dire ciò che si vuole sull’orrore del terrorismo jihadista, ma resta il fatto che si tratta di un terrorismo come un altro – la cui essenza non sta nella pura e semplice violenza, ma nel messaggio che si intende trasmettere attraverso il dispiegamento della violenza. Questo è anzitutto rivolto a  galvanizzare il proprio campo: e nel caso specifico vuol dire dimostrare che, nonostante tutta la potenza dell’Occidente, la partita non è chiusa, che si può mettere in scacco una delle sue capitali, facendosi beffe di qualsiasi controllo e diffondendo il panico. Questo tipo di violenza, per l’organizzazione che dispiega (e che può essere anche “fatta in casa”, come oggi appare chiaro per quanto riguarda l’attacco parigino del gennaio scorso contro la sede di un giornale satirico e contro un supermercato), è diverso da quello della sommossa. Rispetto alla rivolta delle banlieues – di dieci anni fa, esattamente, con le auto in fiamme nelle notti francesi – c’è un salto di qualità. Se quella violenza restava apparentemente muta (nessuno infatti rivendicava alcunché), nel caso del terrorismo si assiste al passaggio a una vera e propria politica, con tanto di rivendicazione da parte del jihadismo internazionale e della sua centrale autodenominatasi Stato islamico. Si tratta quindi di un problema politico interno con un suo retroterra sociale, se si pensa alla rabbia giovanile delle periferie, ma con risvolti internazionali importanti.

Rispondere a un problema politico con i bombardamenti spacciati come “guerra al terrorismo” significa inviare un messaggio alla propria “gente” (cioè ai francesi da parte di un presidente debolissimo, che solo presentandosi come il garante della nazione può oggi competere elettoralmente con la soluzione di destra neoperonista proposta da Marine Le Pen), ma non significa affrontare la questione. “Guerra al terrorismo” è un’espressione insensata – come di chi volesse difendersi dalle zanzare agitando una spada. Il terrorismo è un fenomeno che può essere contenuto solo con l’intelligence, seguendo i movimenti dei sospetti, controllando il giro dei soldi e soprattutto il traffico d’armi, e che può essere sconfitto solo con la politica e, perfino, con la diplomazia.

Ma – si dice – c’è una guerra civile, tra Siria e Iraq, che costituisce la base ideologica e, in una certa misura, anche militare del terrorismo che si scatena in Europa… E allora? Come s’interviene in una guerra civile in una zona tradizionalmente esplosiva, dopo un processo di decolonizzazione mai del tutto riuscito e andato a male? L’abbiamo visto: quando i neoconservatori americani, una quindicina di anni fa, hanno preteso di mettere ordine in quella regione con una guerra vera e propria, con l’occupazione dell’Iraq, si sono poste le premesse della situazione che ci troviamo a vivere oggi. Certo, avremmo sperato che la rivolta anti-Assad, e in genere quelle della “primavera araba”, avessero dato risultati migliori – nel senso della democrazia e della pace. Ma così non è andata, e in quella tormentata area del mondo divampa la guerra civile su base confessionale (non si ripeterà mai abbastanza che sciiti e sunniti se le danno di santa ragione, appena possibile, da secoli) con l’interesse – per interposti combattenti – delle due potenze regionali maggiori, cioè dell’Arabia Saudita da una parte, e dell’Iran dall’altra. Per chi non lo avesse ancora capito, infatti, il dittatore siriano Assad è l’uomo di Teheran, oltre che di Mosca, in quanto facente parte di un clan di confessione sciita; d’altro canto, gli oppositori di Assad – compreso il cosiddetto Stato islamico – sono armati dall’Arabia Saudita (sunnita). Ancora: la Turchia, sotto la direzione di un suo molto poco rassicurante presidente, è interessata a far fuori Assad e, ancor più, i curdi che premono da sempre per la costituzione di uno Stato indipendente nella regione.

In questa situazione – come si vede, a dir poco, complessa – gli Stati Uniti e l’Europa dovrebbero anzitutto individuare quali siano i veri alleati (la Turchia e l’Arabia Saudita evidentemente non possono esserlo), e poi, mediante instancabili tentativi diplomatici, dovrebbero perseguire l’obiettivo di una conferenza di pace. Il cosiddetto Stato islamico – ammesso e non concesso che sia l’unica centrale del terrore – andrebbe battuto con un’iniziativa politica. Del resto, anche da un punto di vista militare, è sicuro che senza soldati sul terreno non si riesce neppure a contenere l’organizzazione fanatico-jihadista. Alla fine, gli unici che ci siano riusciti finora sono i combattenti curdi e, in misura minore, l’esercito iracheno. Bombardare indiscriminatamente è inutile o controproducente (perché si colpiscono le popolazioni, fissandole così nella loro tendenziale avversione all’Occidente); può avere un senso nel quadro di una copertura aerea offerta ai combattenti al suolo. Ma bisognerebbe avere una preliminare chiarezza su quali siano i belligeranti che s’intende appoggiare – nel caso dei curdi dando loro un sostegno all’antica aspirazione nazionale.

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