Tredici novembre: allarmato affresco distopico

il-fondamentalista-riluttante di Antonio Tricomi

Romanzo celebre anche perché Mira Nair ne ha tratto un film che ha riscosso un discreto successo, Il fondamentalista riluttante di Mohsin Hamid (Einaudi, Torino 2007) rievoca in flashback, e per bocca del protagonista, la vicenda di un giovane pakistano di buona ma ormai impoverita famiglia che, laureatosi a Princeton, diventa un valido analista finanziario presso un’influente società di consulenza newyorkese, per poi cambiare totalmente vita dopo l’Undici Settembre 2001. In particolare, dopo l’incontro, in Cile, con un uomo che gli parla degli antichi giannizzeri, descrivendoglieli non solo come ragazzi o bambini di fede cristiana «catturati dagli ottomani e addestrati per essere soldati in un esercito musulmano, a quel tempo il più potente esercito del mondo», ma anche al pari di individui che, appena divenuti adulti, si rivelano «feroci ed estremamente leali», giacché essi «avevano lottato per cancellare dentro di sé la propria cultura, perciò non avevano più nient’altro a cui rivolgersi».

Così – mentre gli Stati Uniti, pretendendo in tal maniera di combattere il terrorismo internazionale di matrice islamica, entrano con le armi in Afghanistan e alimentano la tensione tra India e Pakistan, che quindi vengono d’un tratto a trovarsi sull’orlo del conflitto atomico –, il protagonista del libro di Hamid giunge infine a confessare a se stesso la verità d’improvviso scoperta: «ero un moderno giannizzero, un servitore dell’impero americano in un momento in cui stava invadendo un Paese consanguineo al mio, e forse stava addirittura complottando perché anche il mio si trovasse di fronte alla minaccia della guerra». Né al giovane appariva in quei giorni meno evidente che l’America si stava «lasciando andare a una pericolosa nostalgia», giacché «c’era qualcosa di innegabilmente rétro in tutte quelle bandiere e quelle uniformi, nei generali che si rivolgevano alle telecamere in gabinetti di guerra e nei titoli di giornale che contenevano parole come dovere e onore». Di riflesso, chi aveva sempre pensato agli Stati Uniti «come a una nazione che guardava avanti», restava di colpo basito, invece, da una loro inedita «determinazione a guardare indietro», tanto pronunciata da far sì che, ormai, «vivere a New York era diventato come vivere in un film sulla seconda guerra mondiale». Il tutto benché all’io narrante del romanzo non risultasse per nulla comprensibile cosa gli americani di fatto rimpiangessero: «un periodo di predominio indiscusso? di sicurezza? di certezza morale?». Indubbio era semplicemente, ai suoi occhi, che, intorno a lui, più o meno tutti «si stavano dando da fare per indossare i costumi di un’altra epoca», senza chiedersi se una simile era fosse davvero esistita o se, viceversa, «non fosse soltanto un’invenzione», e anzi giudicando un intollerabile «tradimento» il porsi domande del genere.

Difatti, insiste ancora il protagonista del libro, se avessero sollevato a se stessi interrogativi scomodi tipo questo, gli Stati Uniti avrebbero dovuto smettere all’istante di «affettare una posa» e di trincerarsi «nel mito» della propria «differenza» o nella «presunzione» della loro «superiorità», nonché di ostentare «tali convinzioni sul palcoscenico del mondo, così che l’intero pianeta fosse scosso dalle ripercussioni» dell’implacabile «collera» che li muoveva, e si sarebbero invece costretti, come società, «a riflettere sul dolore condiviso» che segretamente li «univa» a quanti li avevano attaccati. Soprattutto, ogni cittadino americano si sarebbe obbligato a non approvare una controffensiva militare che chiaramente si rivelava «il mascheramento degli interessi di una piccola consorteria di suoi compatrioti sotto le spoglie della guerra al terrorismo». Piaga, quest’ultima, senz’altro oscena, ma solo strumentalmente definita «come uccisione organizzata e politicamente motivata di civili da parte di assassini non in uniforme», e quindi equiparata a un’orribile sciagura che si giudicava ipocritamente lecito debellare con ogni mezzo: persino spingendosi a considerare un semplice e umanamente sopportabile «danno collaterale» l’indiscriminata strage di quanti «abitavano le terre in cui vivevano» anche gli autori degli attentati dell’Undici Settembre. Tornarsene in patria: a un certo punto, al narratore e personaggio principale del Fondamentalista riluttante non era perciò rimasto altro da fare che questo, accettando «un posto di insegnante all’università» e assegnandosi «la missione di sostenere un disimpegno» del proprio Paese nei confronti degli Stati Uniti.

Penso non si sia troppo in errore se si giudicano anche gli autori dei brutali attentati terroristici che hanno avuto luogo a Parigi lo scorso Tredici Novembre – individui che, vale la pena ripeterlo una volta di più, erano o sono cittadini francesi o belgi a tutti gli effetti – giannizzeri al contrario. I quali, già alla nascita, hanno ricevuto dai processi di decolonizzazione in atto la garanzia di una completa, pacifica, gratificante assimilazione a un’identità occidentale che però non si rappresenta più principalmente come fedeltà, magari solo ideale, alla retorica e al mito di un progresso socioculturale in prima battuta capace di implicare la secolarizzazione effettiva della sfera pubblica, la parità di diritti e doveri fra gli individui tutti, la tutela democratica dei vari percorsi di soggettivazione, ma che ormai si pensa essenzialmente alla stregua di una radicale, ineludibile giustificazione di idee di civiltà che un tempo si sarebbero forse definite, con una punta di disprezzo, piccolo-borghesi, ossia fondate sulla sollecitazione e, parimenti, sulla legittimazione (non già laiche e razionalistiche, bensì morbose, triviali, neopagane) delle ambizioni proprietarie, delle pretese consumistiche, delle spinte superomistiche e al godimento coltivate, in forma egotistica e in spregio di qualsiasi orizzonte comunitario, da ciascun uomo, da qualsiasi donna. Quanti hanno scatenato l’inferno nelle vie e nei locali della capitale transalpina appaiono dunque giannizzeri alla rovescia in ultimo pentitisi, o meglio mortalmente risentiti con un Occidente che, non avendo concesso loro le regalie promesse, essi intenderebbero schiantare mercé la propria autodistruzione. Innalzata al rango simbolico di gesto estremo e irrevocabile di cieca ubbidienza a Dio non in ossequio a un credo religioso di per sé fondamentalista o esasperato per essere vissuto sia quale autonomo, incorruttibile percorso di fede, sia come opportunità psicologicamente concreta di riscatto almeno etico in risposta alla propria insanabile emarginazione civile, ma in conseguenza della soltanto strumentale, moralmente neutra genuflessione al cospetto di dogmi, a loro volta artatamente fanatizzati, il cui automatico rispetto consenta di sfogare macchinalmente, cioè in maniera bestialmente assoluta ed emotivamente impersonale, un’ormai incontenibile rabbia sociale e di convertirla apoditticamente, o meglio con intenzione apocalittica giacché omicida e del pari suicida, in vendicativa catastrofe di un Occidente percepito neo-schiavista.

Che è poi come dire: chi a Parigi ha fatto mostruosamente rogo di innocenti nel nome di Allah è molto più un emarginato un tempo smanioso di ottenere una piena inclusione nel primo mondo, e però ormai convintosi di non poterla conseguire, che non un belluino apologeta armato di forme di vita non occidentalizzate. È molto più un cane furiosamente bastonato dalla anche per lui seducente modernità europea o statunitense – e quindi a tal punto risentito con essa da volerle rendere con gli interessi pan per focaccia, riscoprendo in maniera del tutto insincera opzioni vandeane non fino in fondo introiettate –, che non un figlio realmente devoto a fondamentalismi di natura tradizionalistica. È prima un povero al quale nessuno offre più proposte utopistiche di emancipazione socioculturale, e perciò desideroso di annientare sia se stesso sia gli aguzzini, che non un musulmano sospinto dalla propria fede a sterminare quanti credono in un dio differente dal suo o non credono in alcun dio. Combatte – in modo oltre ogni misura spregevole e da punire senza eccezioni: penso non occorra precisarlo – una guerra prima civile – la guerra degli scarti del sistema produttivo, convinti che mai otterranno giustizia – che non religiosa. Lo dimostra il fatto che lo scorso Tredici Novembre, ma anche, in precedenza, il 7 gennaio di questo stesso 2015, gli attentati terroristici verificatisi a Parigi non hanno avuto come bersagli prioritari luoghi o simboli scopertamente legati a confessioni di fede diverse da quella islamica. Invece, sono stati colpiti anzitutto luoghi di aggregazione, piccoli bazar per l’approvvigionamento di modesti beni primari o di minime occasioni di consumo, centri di elaborazione di una laicizzata cultura in senso ampio libertaria tutti simbolicamente allusivi di quella prosaica normalità di vita occidentale giustiziata dagli assassini non perché antropologicamente respinta, ma perché tanto agognata da volere che essa non si conceda più a nessuno, se si rifiuta di offrirsi anche a loro. Difatti – dettaglio che in troppi si rifiutano indecentemente di ricordare, almeno in Europa – i kamikaze non hanno minimamente esitato, sparando nel mucchio, ad aprire il fuoco persino contro sorelle e fratelli musulmani, colpevoli assai più di godere di benefici tipicamente occidentali e di livelli di integrazione nel primo mondo a loro negati (e dunque individui da punire perché invidiati), che non di sottrarsi alla causa, considerata comune, della guerra santa (e quindi uomini e donne da condannare a morte giacché traditori).

Per un laico, tanto più di sinistra, è ulteriore motivo di immedicabile sconforto che, in Occidente, sia papa Bergoglio il solo capo di stato capace di individuare l’autentico detonatore dei conflitti cui stiamo assistendo non nelle rivalità religiose di per sé e in quanto tali, ma nella vieppiù diffusa povertà generata dalle fanatiche dottrine neoliberiste che, non da oggi, strutturano le post-democrazie nelle quali, forse in ogni angolo del mondo, da tempo viviamo. Già prima degli ultimi attentati terroristici subiti, la Francia, in compagnia quasi dell’intera Europa, si era chiusa in una “determinazione a guardare indietro” che ricordava, e ancora ricorda, quella attribuita agli Stati Uniti, come reazione ai tragici eventi dell’Undici Settembre, dal romanzo di Hamid più sopra citato. Con una differenza. Se al protagonista di quel libro non risultava evidente quale epoca gli americani allora rimpiangessero, a noi è vietato affermare, in tutta onestà, di non intendere a quale passato guardassero – e ancora guardino – con inalterato atteggiamento nostalgico sia Hollande, sia la gran parte dei leader europei quando, ben prima del Tredici Novembre, hanno deciso di bombardare in Siria o hanno lasciato che migliaia di individui in fuga da quei teatri di guerra che sono il Medio Oriente e il Nord dell’Africa affogassero, anno dopo anno, nelle acque del Mediterraneo. Come pure quando, in risposta agli ultimi attentati, hanno intensificato, o convenuto di doversi comunque preparare ad infittire, i raid militari contro non è ancora del tutto comprensibile chi, nei fatti accettando, innanzi all’opinione pubblica internazionale, di situare la loro reazione nell’abusato ambito dialettico di un conflitto di civiltà, se non di religione, tra un primo mondo anche cristiano, ma soprattutto alfiere della moderna democrazia, e un terzo mondo forse accidentalmente islamico, e però, persino a prescindere da questo, per sua stessa struttura liberticida, invariabilmente pericoloso, sempre aggressivo perché passatista. Ebbene, la trascorsa era implicitamente rimpianta e, per così dire, riattivata in maniera ovviamente tacita da tali scelte o retoriche altro non è che l’epoca coloniale europea.

Far crepare, invece di accoglierli, uomini e donne talora in fuga dai territori devastati da quello stesso Is il cui disegno militare la comunità occidentale ha di recente paragonato ai progetti espansionistici di Hitler, significava cioè, e significa tuttora, ribadire che l’Europa, nel suo complesso, è la rediviva madre patria libera di decidere quali individui accogliere dalle rinate colonie e quali no, e altresì di scegliere in maniera del tutto arbitraria come regolarsi con quei territori: che tipo di interessi economici, politici e persino militari univocamente difendere nei suoi rapporti, sempre asimmetrici e tutti di forza, con essi e quando smettere di coltivarli. Atteggiamento sia pur debolmente imperialista che, da un lato, ha anche finito col produrre l’Is e, dall’altro, rende complicato combattere tale formazione giacché ogni potenza occidentale ha in quell’area, come propri interlocutori precipui, stati o gruppi identitari diversi, nonché mire e vantaggi spesso confliggenti da tutelare. E non meno – sia detto solo per inciso – atteggiamento al quale, nonostante i crescenti umori razzistici pericolosamente riscontrabili nel Paese e in parlamento, i governi italiani si sono – per una volta meritoriamente – fin qui sottratti, benché forse in ragione non di un’autentica diversità culturale rispetto alle politiche di altri stati europei, ma – paradossalmente e tuttavia logicamente – proprio in conseguenza dei mancati, o perlomeno incompiuti, trascorsi coloniali della nazione.

In pari grado, che un presidente della repubblica francese, per di più socialista, abbia sollecitato i connazionali, a poche ore dagli agguati terroristici del Tredici Novembre, e poi li abbia ulteriormente chiamati, nei giorni successivi, a una risposta di tipo identitario, badando bene a non rimarcare troppo, nei vari interventi ufficiali, che gli esecutori materiali di siffatte stragi erano o sono cittadini transalpini o belgi, cioè europei in piena regola, ha voluto dire e ancora vuol dire cavalcare la consueta retorica alla quale si è già accennato, quella dello scontro di culture tra un “noi” che sta per l’Occidente, la libertà, i valori del moderno e un “gli altri” che indica gli stranieri, la barbarie, il fanatismo religioso, anzitutto per evitarsi di notare che, però, gli specifici “altri” autori dei massacri in questione appartenevano o appartengono inequivocabilmente – ossia per nascita o per adozione, e comunque di diritto – al “noi”. Significa, in poche parole, negare anche solo l’eventualità che il nemico sia stato reso tale dal mancato o ambiguo completamento dei processi di decolonizzazione, per tornare ad attenersi a una logica, tanto culturale quanto politica, di derivazione neppure troppo tacitamente colonialista. E implica, non meno, rifiutarsi di interpretare la scelta dei giovani musulmani d’Europa che accettano di combattere contro le società in cui sono cresciuti anche come una sorta di inaugurale – e auspicabilmente ultimo – episodio di una potenziale – e sperabilmente null’altro – guerra civile occidentale oggi riassorbita, e risemantizzata, dal più ampio conflitto tra primo e terzo mondo. Lo scontro, cioè, tra le masse di autentici disperati – di ogni etnia, fede, livello culturale – prodotte a velocità sempre crescente dalle nostre democrazie in dismissione e i gruppi di privilegiati – almeno agli occhi di quei diseredati, ed essi pure riconducibili alle identità o alle appartenenze più disparate – che di tali società costituiscono le classi dirigenti o il vero, non impoverito ceto medio. Un conflitto per arginare sul nascere il quale – in caso lo si continuasse a ricondurre esclusivamente all’offensiva islamica contro l’intero Occidente – o in seguito all’escrescenza del quale – nell’eventualità che esso fosse invece frattanto deflagrato come non governabile instabilità sociale e cronica tendenza al disordine pubblico – altro non resterebbe, domani, alla maggioranza dei cittadini almeno delle principali nazioni europee, che avallare la rapida riconversione di queste ultime in populistici stati di polizia non già fedeli alle leggi del Corano – secondo l’ormai nota profezia formulata da Michel Houellebecq nel suo romanzo più strumentalmente celebrato, il debole Sottomissione –, bensì verticisticamente arroccati a difesa di un paranoico, perché a quel punto fascistico, connubio valoriale: nell’esaltazione neo-classista, neo-corporativa di una modernità esclusivamente ridotta all’imperio di totalitarie logiche capitalistiche e nella rivendicazione irrazionalistica, medievaleggiante di un’identità cristiana equiparata in tutto alla rilegittimazione di uno spirito da caccia alle streghe.

Uno spunto ricavabile dal pamphlet pubblicato da Slavoj Žižek un mese dopo gli attentati terroristici che hanno sconvolto Parigi lo scorso 7 gennaio può forse aiutarci a inquadrare meglio la questione alla quale si è appena fatto riferimento. Il libro, come tutti i lavori dell’intellettuale sloveno, risulta – per così dire – ostaggio della contesa, più che della convivenza armoniosa, tra l’indubbia intelligenza e il non sempre disciplinato gusto della provocazione parimenti dimostrati dal proprio autore, e dunque si rivela non già fino in fondo convincente e, tuttavia, stimolante in molte sue pagine. Appunto per questo, limitarci al confronto critico con un paio di idee rintracciabili in L’Islam e la modernità. Riflessioni blasfeme (Ponte alle Grazie, Milano 2015) – questo il titolo del volume – può tornarci particolarmente utile.

Quando nota che «il fondamentalismo è una reazione – una reazione falsa e mistificante, ovviamente – a un difetto reale del liberalismo, ed è per questo che il primo è sempre, di nuovo, generato dal secondo», come pure quando ribadisce che, se non si è disposti «a criticare la democrazia liberale», si «dovrebbe anche tacere sul fondamentalismo religioso», mi sembra che Žižek voglia affermare qualcosa di simile a quanto ripetuto fin qui. Ossia che, in Occidente, il terrorismo di matrice islamica è il sintomo parossistico della profonda crisi di una modernità intesa come secolarizzazione capace di assicurare la salvaguardia della canonica triade valoriale illuministica: uguaglianza, libertà, fratellanza. Ragion per cui, conclude il filosofo, visto che, «abbandonato al proprio destino, il liberalismo va incontro alla propria distruzione», esso può sopravvivere solo se ammette di avere «bisogno dell’aiuto fraterno della sinistra radicale»: convincimento che tra le righe, cioè conservandosi sempre implicito, ha guidato, non meno, l’analisi più sopra tentata.

E Žižek, sia pure impostando il ragionamento in termini anzitutto psicologici, e non principalmente politici o sociologici, mi pare condivida i cardini di siffatta esegesi anche quando scrive che «l’intensità passionale dei terroristi testimonia della mancanza di una vera convinzione» di matrice «“razzista”» e realmente fondata sulla «certezza della propria superiorità». In pratica, egli spiega, «il problema non è la differenza culturale (lo sforzo di preservare la propria identità), ma, all’opposto, il fatto che i fondamentalisti sono già come noi». Detto ancora altrimenti, il fatto che, «segretamente, hanno già interiorizzato i nostri valori, e giudicano se stessi a partire da questi stessi valori», così finendo «loro stessi, per primi», con il «considerarsi inferiori a noi», vergognandosene, aspirando a cancellare i presupposti di tale frustrazione che li assilla e dunque scegliendo di attaccarci in una maniera tanto oltranzistica da implicare la nostra e, parimenti, la loro distruzione.

Dinamica che dovrebbe peraltro spingerci a leggere l’Is in generale, aggiunge Žižek, non «come un caso estremo di resistenza alla modernizzazione», bensì «come un caso di modernizzazione perversa», cioè da inquadrare «nella serie di modernizzazioni conservative inaugurata dalla Restaurazione Meiji in Giappone» e che sempre prevede disegni i quali hanno in comune un «contenuto» chiaramente «antico», ma una «forma» addirittura «ultramoderna». Non per nulla, «mentre l’ideologia ufficiale dello Stato Islamico fustiga il permissivismo occidentale», i vari reparti dell’Is, «nella loro prassi quotidiana», si dedicano a «vere e proprie orge carnevalesche (stupri di gruppo, torture e uccisioni, rapine ai danni degli infedeli)», perché «la radicalità senza precedenti» della formazione alla quale appartengono riposa in una solo estrinsecamente moderna, del tutto estetizzata e quindi, per comprensibile paradosso, arcaizzante «brutalità ostentata», sconciamente fatta – ad esempio – di «decapitazioni trasmesse ai media, schiavitù sessuale ufficialmente ammessa e giustificata».

Ed è anche di Žižek il timore che l’Europa riscopra, in funzione anti-islamica, un improvviso amore per le società ben disciplinate. Paura che egli spiega di aver maturato dopo aver scorto – nelle numerose manifestazioni succedutesi a Parigi in risposta alla strage compiuta lo scorso 7 gennaio nella sede della rivista «Charlie Hebdo» da un commando di franco-algerini – uomini e donne propensi a far propri e a mostrare adesivi o poster in gran parte «con lo slogan Je suis Charlie», ma altri «recanti la scritta Je suis flic (sono uno sbirro!)». Agli occhi dell’opinion-maker sloveno, «la minaccia terrorista» era insomma riuscita già allora ad ottenere – e, verrebbe da aggiungere, potrà dunque tanto più continuare oggi a conseguire – «ciò che sembrava impossibile», ossia «riconciliare la generazione dei rivoluzionari sessantottini con il suo arci-nemico, in una versione francese del Patriot Act promulgata con l’acclamazione popolare, in modo tale che le persone si offrano spontaneamente al controllo poliziesco».

Eccoci così tornati al nodo per provare a sciogliere il quale si era deciso di misurarci con L’Islam e la modernità. E, precisiamo ora, con una considerazione che Žižek fa, ma da cui non sembra voler dedurre poi l’argomento essenziale per chiarire cosa possa alimentare il desiderio degli europei, o magari degli occidentali tutti, di riconsegnarsi a redivivi stati di polizia. Il filosofo vede cioè giusto allorquando, con categorie nicciane, ritrae lo scenario attuale come il teatro del classico «antagonismo» tra un «nichilismo “attivo”» incarnato – non dovrebbe ormai risultare incomprensibile in che senso e tantomeno perché – dal terrorismo di matrice islamica e un «nichilismo “passivo”» che appare invece la cifra etico-culturale dell’Occidente nel suo insieme. Il punto è proprio questo. Se più sopra si è paventato il rischio di una futura guerra civile occidentale, da intendersi come impazzita catena di disordinate insurrezioni luddiste ad opera dei disperati, e se è altrettanto lecito intravedere il pericolo della prossima costituzione, almeno in Europa, di regimi polizieschi legittimati dalla diffusa volontà di impedire o di sedare tali sommosse – una volontà per di più condivisa, in maniera niente affatto paradossale, da questo gruppo di potenziali o autentici sovversivi per proteggersi dalle rimostranze e dalla azioni di quella diversa schiera di eventuali o effettivi ribelli –, è proprio perché sia l’uno sia l’altro esito si rivelano molto spesso sbocchi addirittura fisiologici, e in genere connessi, di quel nichilismo passivo cui abbiamo fatto riferimento.

Da una parte, i giovani o meno giovani disillusi – senza lavoro, senza diritti, senza futuro – ridotti a scarti sociali e, confusi tra questi, anche i musulmani adolescenti o ventenni o trentenni che scelgono di diventare soldati dell’Is. Il nichilismo attivo dei secondi potrebbe non certo saldarsi e, però, fungere da modello al nichilismo passivo dei primi, suggerendo a questi ultimi che, se la propria sorte è segnata, più giusto e più sensato diventerebbe dunque renderla il destino di un’intera comunità e, di riflesso, lasciarsi morire in maniera differente, ossia fracassandosi contro il mondo con tutta la loro frustrazione e con il manifesto desiderio, pur percepito impotente, di ottenerne lo schianto. Da questo punto di vista, rischia di irrobustirsi sempre più il forse non soltanto metaforico filo ancora sottile che tuttavia già unisce un kamikaze jihadista nato nel primo mondo, e addestratosi per uccidere qui indiscriminatamente, a un anonimo sociopatico che, negli Stati Uniti o in una qualsiasi nazione europea, si barrica in una scuola o in una clinica per il controllo delle nascite e massacra schiere di innocenti. In fondo, parlano entrambi la stessa lingua, che pretendono anche diventi quella di tutti: la lingua di Armageddon.

Dall’altra parte, una diversa genia di nichilisti passivi, perlopiù efficacemente ritratti dal succitato Houellebecq, benché spesso con fastidioso compiacimento, in ciascun suo libro, compresa la raccolta di versi, Configurazioni dell’ultima riva (Bompiani, Milano 2015), pubblicata in traduzione italiana poco prima degli attentati terroristici del Tredici Novembre. È vero: i testi poetici dello scrittore francese non si rivelano mai granché persuasivi. Ma ciò si deve proprio alla ragione che li rende tanto più interessanti nell’economia del discorso che si sta cercando di abbozzare. In definitiva, perché appaiono l’estenuata, irrefrenabile, a suo modo persino sentimentalistica, e quindi non occasionalmente kitsch, riconversione lirica, o talvolta narcisisticamente satirica, di quell’afflato giustappunto nichilistico che, più accortamente disciplinato e meglio tradotto in palese o implicito discorso culturale nella struttura del romanzo-saggio in genere scelta dall’autore nei lavori di fiction, è solito contraddistinguere sia le maschere infedelmente autobiografiche, sia gli altri personaggi di primo piano cui Houellebecq dà vita nelle proprie narrazioni. Ebbene, sono questi figli dell’Occidente non ancora o non del tutto declassati socialmente, dei quali l’io lirico che ci parla in Configurazioni dell’ultima riva si offre come emblema, gli uomini (in special modo) e le donne (forse in quota minore) che, per non veder pregiudicato ciascuno il proprio atomistico orizzonte nevroticamente speculativo e la propria al fondo cinica pretesa di desistenza civile, potrebbero invocare, sostenere o addirittura incarnare principi e regimi autoritari. In diversi hanno del resto già provveduto a spiegarcelo, e in particolare Ernst Jünger quando, in Oltre la linea (Adelphi, Milano 1989), chiariva come il nazismo fosse riuscito a ridurre a sé l’intera società tedesca: «il nichilismo può senz’altro combinarsi armonicamente con sistemi d’ordine di grandi dimensioni», ed è anzi persino «la regola che esso sia attivo e dispieghi la sua forza in tali sistemi».

Stiano però tranquilli Houellebecq e, insieme con lui, i Salvini o i Sallusti di turno. Se gli occidentali, per come l’autore francese ce li ha implicitamente descritti nel suo ultimo volume di poesie – individui sfiancati da un futile cerebralismo grottescamente ridottosi a ossessione sensualistica oltre misura sterile perché impregnata di insaziabile mitologia pornografica; orfani di qualsiasi «credenza» e quindi persuasi di poter abitare esclusivamente «l’assenza»; atterriti dalla percezione di non avere un «fondo interiore» e neppure «passione o calore»; certi di rassomigliare a «pulci d’acqua» destinate ad affogare «nel fango» in un’interminabile «notte grama»; arresi all’idea che tutto si dimostri «scialbo» in confronto all’affascinante «gioco di morte» che, per mantenersi fedeli al loro lugubre edonismo impotente, essi vogliono ritenersi costretti ad affrontare –, se occidentali siffatti, si diceva, desidereranno sottomettersi a nuovi fascismi, non sarà – vale la pena ripeterlo – innanzi al dio di Maometto che chineranno la testa, ma – disinibiti atei devoti – in ossequio al sovrano celeste dei crociati, degli speculatori finanziari.

È forse questo, allora, il persino più agghiacciante scenario – in parte già riconoscibile, in parte solo futuribile – che, in Europa e non soltanto, si è scelto di occultare dietro la facciata di una battaglia tra Bene – noi occidentali – e Male – l’Islam – che riteniamo di dover combattere per la sopravvivenza non già esclusivamente nostra, ma del mondo intero. Una lotta sorretta da una retorica identica a quella che ci ha guidato contro Osama bin Laden, benché non solo metaforicamente diversa fosse la sfida lanciata all’Occidente da al-Qaida sotto il suo comando. In quel caso, un prodotto della strategia egemonica americana in Medio Oriente sembrò voler dichiarare anzitutto guerra al neoimperialismo capitalistico in sé, processo globalmente occidentale, ma che trovava negli Stati Uniti il suo attore precipuo. Non a caso, gli obiettivi scelti dagli attentati terroristici dell’Undici Settembre rimandavano simbolicamente tanto al centro direttivo della politica occidentale o addirittura mondiale (Washington), quanto al vero cuore pulsante dell’intero sistema capitalistico (le Twin Towers). Invece, la partita apertasi con l’Is parrebbe affondare le sue radici in una vicenda che riguarda anzitutto, benché non in via esclusiva, i trascorsi imperialistici dell’Europa: sembrerebbe insomma chiamare tragicamente in causa una sorta di reale tradimento storico che potremmo definire l’inopinata interruzione, o persino il mancato innesco effettivo, di autentici percorsi di decolonizzazione.

Come comportarsi? Bombardare qui? Spedire truppe invece là? Allearsi strategicamente con questo stato mediorientale? Piegare piuttosto con la forza quell’altra nazione nordafricana? Quel che è certo è che, nel solo anno in corso, gli islamici morti nei Paesi musulmani per mano di islamisti sono, ad oggi, oltre ventitremila. L’Is uccide anzitutto in quei territori perché intende, esercitando sistematicamente il terrore, in primo luogo egemonizzare il proprio mondo di riferimento. E colpisce altrove, specialmente in Europa, sia perché siffatte dimostrazioni di forza agevolino il conseguimento di un simile obiettivo, persuadendo i confratelli pakistani o siriani che non esiste alternativa plausibile o vittoriosa al jihadismo, sia perché – sempre per raggiungere quel traguardo e, non meno, per allargare il suo fronte di guerra – ha bisogno di convertire alla causa del fondamentalismo, o di ridurre a una complice passività, anche i milioni di musulmani che vivono nel Vecchio Continente in qualità di cittadini francesi o belgi o italiani. Ogni volta che una nostra bomba uccide un civile in Siria, o quando ci scordiamo di indignarci per i musulmani ammazzati in Pakistan dai fondamentalisti islamici, come pure nell’attimo in cui impediamo a profughi africani o mediorientali di trovare asilo nei nostri territori – magari invocando anche, persino per noi stessi, restrizioni alle libertà individuali sancite dai sistemi democratici, così da avere l’illusione di tutelarci dalla minaccia terroristica –, contribuiamo di fatto a rafforzare il disegno criminale dell’Is e, più in genere, di qualsivoglia formazione o proposito jihadista.

Se lotta dev’essere, non può allora che tornare a configurarsi, perlomeno entro i confini dell’Europa, come lotta tenace e paziente, ma non più rinviabile, di democrazia, cioè per la reale, laica integrazione di chicchessia in un composito, policentrico progetto comune guidato da valori quali l’equità sociale, la piena accettazione delle diverse tradizioni culturali, il completo riconoscimento dei diritti individuali. E se tanto è condannato a una sterilità civica mai in grado di rendersi provocatoria, spetterebbe anzitutto all’intellettuale, in Occidente, rifiutare le parole del senso comune, sì da pronunciarne altre con le quali – scandalosamente giacché inutilmente – esprimere il medesimo dolore per le vittime dei recenti attentati terroristici in Francia, per i poco meno di trecento passeggeri di quell’aereo russo fatto esplodere da miliziani dell’Is due settimane prima (morti che, essi pure, l’Europa si è dimenticata di piangere), per le decine di migliaia di musulmani (e per i cristiani) uccisi in Medio Oriente o altrove dal fondamentalismo islamista. E altresì, a costo di apparire insostenibilmente e senza costrutto oltraggioso, per manifestare, sia pure con indicibile difficoltà, sincero cordoglio al cospetto di quei soli kamikaze assassini che tali siano divenuti anche in folle risposta a una disperazione sociale che certo non ne giustifica in alcun modo le azioni bestiali, ma che chiama pesantemente in causa il sistema che, con impune ferocia, ha contribuito a generarla in loro. E, in ultimo, per dichiarare frastornata solidarietà a quel cittadino francese di origini algerine volato in Siria, all’incirca un anno fa, per riportare a casa il figlio ventisettenne, che aveva deciso di arruolarsi nell’esercito dell’Is; tornato alla propria quotidianità senza essere riuscito a conseguire tale obiettivo; costretto neanche lui saprebbe forse spiegarci se a maledire la carne della sua stessa carne o a piangere il decesso dell’ancor giovane erede, dopo averlo scoperto sì cadavere, ma tra i vili, forsennati esecutori materiali degli attentati terroristici del Tredici Novembre. Sarebbe degno tu potessi avvertire, da parte nostra, autentica compassione, fratello inconsolabile che somigli a un eroe tragico del teatro antico di Sofocle.

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