La morte di Eco

Ecodi Rino Genovese

Le prime prove sì, la fenomenologia di Mike Bongiorno, gli interventi sulla cultura di massa alla maniera del Barthes di Miti d’oggi, e sì, certo, a libri come Opera aperta e a quelli che introducevano in Italia il difficile e strano termine di “strutturalismo” (in un’Italia in larga parte ancora crociana), sì all’estetica di Tommaso d’Aquino (indagato con spirito illuministico) e fino al Trattato di semiotica generale del 1975 (che però appare più un manuale universitario che un trattato vero e proprio, dotato di un pensiero autonomo). Ma poi no, no, no… No a una letteratura intesa come una sorta d’ininterrotto cruciverba (per cui schiaffeggiare una persona che dinanzi a noi in treno si affanna sulla Settimana enigmistica o schiaffeggiarne una che ha in mano Il nome della rosa può risultare meritorio allo stesso titolo), e no al barzellettaro che, passato dai corsivi di Dedalus sul Manifesto – in cui, tra l’altro, polemizzava con il partito preso di Pasolini sull’aborto – all’antiberlusconismo in salsa debenedettiana, di Berlusconi sembrava il semplice rovescio.

Il problema Eco – in realtà molto italiano, a dispetto della fama mondiale paragonabile solo a quella a suo tempo conquistata  da Cesare Lombroso – nasce dalla scuola torinese di filosofia di Luigi Pareyson, serissimo studioso, per carità, ma già votato, per via della sua ermeneutica, a non arrivare a nessuna posizione non diciamo politica ma nemmeno teorica, posto che l’interpretazione è sostanzialmente infinita (nonostante Eco abbia poi inteso fissarne i “limiti” nella cooperazione tra autore e lettore di un testo: qualcosa che, ancora una volta, ricorda la predefinizione del gioco che si ritrova nello scoprire una figura unendo i punti prenumerati con dei tratti di penna). È il problema di una filosofia, quella italiana, che nel secondo Novecento ha preferito trastullarsi con i classici e le rivisitazioni – o, peggio, con le traduzioni da Heidegger e dagli heideggeriani –, anziché tentare la strada di una qualche elaborazione originale. In questo, storicismo ed ermeneutica sono tra loro molto simili.

Il giovane Eco aveva intrapreso, su un’onda soprattutto francese, una via indubbiamente diversa. Ma la fine della moda strutturalista, nel triste spegnersi degli anni settanta, aveva finito col lasciarlo come un pesce boccheggiante sulla spiaggia. Dopo di allora, come si dice, si era dato. A suo riguardo non parlerei di nichilismo (sempre in agguato nel pensiero ermeneutico) ma di una sapiente – tenacemente intelligente, anche quando indirizzata alla costruzione di oggetti del tutto stupidi – strategia di monetizzazione dell’impegno. E con ciò si è detto tutto sui destini di una certa intellettualità italiana.

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