Ancora sull’Europa

brexitdi Rino Genovese

Marcello Rossi, nella sua risposta del 23 agosto su questo sito, m’invita a “fare le pulci” all’articolo Fuori dall’Europa, apparso con la firma Il Ponte, sul numero di luglio della rivista cartacea. È quanto mi accingo a fare, non senza avere prima confermato al nostro direttore stima e affetto, accogliendo la proposta di un ritorno alla sua direzione unica. Del resto Il Ponte è una proprietà – nominale e di fatto – di Marcello: è bene che sia lui solo a prendersi la responsabilità di quanto si sostiene, e si potrà ancora sostenere in futuro, negli articoli cucinati in redazione.

Ciò che contesto in maniera radicale nel testo in questione è il trionfalismo riguardo alla cosiddetta Brexit – una valutazione errata di ciò che è accaduto e sta accadendo in Gran Bretagna – e il compiacimento per una prospettiva (d’altronde irrealistica nell’immediato) di disgregazione dell’Unione europea. Sul primo punto, c’è da registrare oggi, con il nuovo governo conservatore di Theresa May, una completa incertezza riguardo al prossimo futuro: ci sono ministri che vorrebbero davvero una rottura con l’Europa – cioè l’uscita dal mercato unico, che implicherebbe, nell’ipotesi di un nuovo trattato, anche la libera circolazione delle persone (da notare questo, perché è proprio da un riflesso anti-immigrati che nasce in gran parte il voto favorevole all’out) – e ci sono altri ministri che invece vorrebbero dire: “Abbiamo scherzato: rifacciamo un trattato con l’Europa molto simile al precedente” (che di fatto già concedeva una certa autonomia alla Gran Bretagna, paese, ricordiamolo, mai entrato nella moneta unica).

Il governo di sua maestà non ha ancora attivato la clausola di uscita dall’Unione e, dal momento in cui lo farà, ci vorranno due anni di trattative: c’è tutto il tempo perché la “oligarchia” britannica (come la definisce, con termine classicamente peronista, l’articolo del Ponte) trovi un accordo che andrà molto probabilmente nella direzione di un exit morbido, cosicché alla fine non ce ne accorgeremo nemmeno. Ci sono però, soprattutto nella sinistra laburista, i cocci da raccogliere e da ricomporre. Corbyn, il beniamino della sinistra Labour, è il vero sconfitto della Brexit (a parte il conservatore Cameron, che ha giocato rischiando, e si è dovuto dimettere).

Il leader laburista ha sbagliato nel non prendere una posizione chiara. La tradizionale tendenza insulare della sinistra britannica sarebbe stata la sua vocazione autentica: ne parlavano già i nostri “maggiori” in un numero della rivista del 1950, dedicato a un giro di opinioni sul federalismo europeo: l’insularismo laburista era dato per scontato, e la federazione sarebbe dovuta partire (pensate un po’) da un accordo con la Francia. Il punto, però, non è soltanto che Corbyn aveva e ha contro la destra del suo partito; è che, nel frattempo (dovrebbero metterselo bene in testa tutti nella redazione della rivista), le possibilità di attuare politiche di welfare nazionale sono ridotte pressoché a zero. Gli Stati nazionali europei sono residui del passato in un’economia integrata come quella odierna, piccoli e mediocri vascelli in balia delle onde di un capitalismo finanziarizzato. Corbyn sembra saperlo e non saperlo al tempo stesso. Risultato, è rimasto a metà strada, non impegnandosi veramente per lo in (che era la posizione ufficiale del suo partito), ma senza sostenere neppure la scelta dell’out.

Taluni dicono che i referendum (i cui parenti stretti sono i plebisciti) non sono uno strumento adatto a opzioni su materie complesse, perché riducono la decisione degli elettori a un o a un no, mentre, nel caso di un Corbyn, a prevalere sarebbe stato il ni. Certo è che, nell’articolo da me contestato, un problema del genere non si pone proprio: con grande leggerezza, si apre alla possibilità di una modifica dell’articolo della Costituzione italiana che impedisce i referendum sui trattati internazionali. L’iter per cambiare questo articolo della Carta, comunque, l’abbiamo a portata di mano, si dischiude mirabilmente davanti ai nostri occhi: votate sì al prossimo referendum che abolisce il bicameralismo perfetto, eleggete alla Camera dei deputati (unica a dare la fiducia al governo) un bel numero di “nominati”, scelti magari con il metodo furbissimo delle primarie in rete, naturalmente al ballottaggio votate Di Maio, così in parlamento potrete avere una maggioranza con i lepenisti Salvini e Meloni per cambiare la Costituzione su questo punto; poi sottoponete il cambiamento a un referendum che non potrà che risultare vincente, perché è noto come siano solo gli interessi e la propaganda dell’ “oligarchia” a tenere insieme questa Unione europea che non va, e infine, ancora con un referendum, potrete uscire dalla moneta unica o dall’Europa a piacere.

La strategia qui rapidamente disegnata è quella che si ricava, in controluce, dall’articolo a firma del Ponte. Nemmeno di fronte a una possibile vittoria di Marine Le Pen alle presidenziali francesi ci si tira indietro: si sa, infatti, che lei sostiene nel suo paese il referendum sull’Europa. E ci sono sì gli strali contro il liberalismo e il capitalismo, e anche un pudico richiamo alla tradizione europeista della rivista, ma la sostanza del pezzo sta nell’augurarsi una disgregazione dell’Europa purchessia. Perfino sul liberalismo si possono leggere tra le righe delle amenità: non si distingue tra un liberalismo politico e uno economico (che in Italia, da Croce in avanti, si chiama liberismo). Come se il capitalismo fosse in se stesso liberalismo, e non eventualmente fascismo, dittatura militare, o “comunismo” come nella Cina odierna: non si distingue la nozione di capitalismo dai capitalismi, in senso storico e direi antropologico-culturale, così come si manifestano e si sono manifestati nel tempo. Sembra quindi che non ci sia un “peggio” rispetto all’Europa, ahinoi, liberale e neoliberista in cui ci troviamo a vivere. Invece questo “peggio” c’è, lo si vede addirittura come una possibilità: il ritorno – lo dicevo già nel precedente intervento su questo sito – ai nazionalismi che sono oggi nazional-populismi o localismi estremizzati in senso xenofobo.

Che cosa fare, allora, per riavviare un processo d’integrazione europea da troppo tempo inceppato? Bisognerebbe puntare alto, puntare a un federalismo europeo pienamente realizzato. Alla chimera di un ritorno indietro agli Stati nazionali, o anche soltanto alle monete dei singoli paesi che permettono la svalutazione ma fanno crescere senza controllo l’inflazione – la più odiosa tassa per i poveri –, va opposta l’utopia concreta del federalismo europeo. Non sarà la panacea di tutti i mali, ma sarebbe almeno una costruzione sovranazionale logica e razionale in confronto al paradosso di Stati che hanno un’unica moneta e, al tempo stesso, hanno ministri degli esteri distinti, legislazioni fiscali diverse e così via. Un’Europa federale non sarebbero gli Stati Uniti socialisti d’Europa che possiamo vagheggiare, ma sarebbe un passo avanti in una direzione che, strada facendo, potrebbe diventare più utopica ancora.

Purtroppo non s’intravede nulla di simile – nemmeno un Cavour o un Bismarck europei che intendano fare, da moderati e da conservatori, un passo verso l’unificazione. Una prima parola d’ordine da lanciare consisterebbe, allora, non nel chiedere maggiore “flessibilità” ma nell’impugnare il “patto di stabilità”, vera e propria palla al piede dell’austerità neoliberista. È quanto ci saremmo aspettati da Hollande, che in campagna elettorale l’aveva promesso – ma stendiamo un velo pietoso. Non possiamo attenderci più nulla da partiti socialisti votati all’estinzione, com’è accaduto in Grecia. Restano in gioco, però, i movimenti sociali, sia pure ad intermittenza, e le formazioni politiche uscite dalle esperienze di movimento come in Spagna, o rifondate come in Grecia. In Italia, una volta di più, ci è andata e ci sta andando male, perché ad affermarsi è una nebulosa neoqualunquistica. Non è una ragione per cederle il minimo terreno.

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