Appena fuori. Diario cinematografico (V)

Patersondi Antonio Tricomi

Jim Jarmusch, Paterson (16 gennaio 2017)

Il bersaglio è chiaro: il sogno americano. Per colpirlo, Jarmusch è anzitutto dell’epopea statunitense che intende dunque offrirci una colta demistificazione. Ecco allora la scelta di celebrare allusivamente la modernistica epica minimalista di William Carlos Williams (autore dell’opera in versi che ha lo stesso titolo e trasfigura liricamente i medesimi ambienti del film) in opposizione a quelli che sembrano perciò essere, fin dal principio, gli effettivi idoli polemici di Paterson: Herman Melville, Moby Dick. Ironicamente aggirati, più che aggrediti frontalmente, con un apologo contraddistinto sì da un elegante pittoricismo surrealista e un’educata vena elegiaca (ispirazioni che a tratti lo rendono un’autentica meraviglia per gli occhi ed il cuore), ma che rischia, a gioco lungo, di avvitarsi troppo su stesso e sul pur non fastidioso misticismo che garbatamente lo sorregge. Di mutarsi, detto altrimenti, in un meccanicamente ipnotico ed eccessivamente prezioso congegno espressivo, oltre che narrativo, alla fine dei conti intrinsecamente autoreferenziale, sempre in bilico, come vuol rimanere, tra autosufficiente cifra visionaria e calcolato progetto allegorico di ogni suo fotogramma. Tra il piacere dell’intuizione o dello sguardo frammentari che ciascuna sequenza ambisce novecentescamente a generare negli spettatori e la pur non estremistica certezza, dichiaratamente ricalcata sulla lezione dantesca e parimenti suggerita dai lacerti tutti del film, che nelle insindacabili pieghe delle vite intime degli individui, e nelle differenti sorti che a questi ultimi toccano, sia comunque possibile scorgere, pressoché sempre, i tenui riflessi di un però decifrabile senso complessivo dell’esistente.

Asghar Farhadi, Il cliente (23 gennaio 2017)

Non può ritenersi un traguardo presto o tardi interamente raggiungibile: alla fine (del tutto presunta) della corsa, scadrebbe infatti a conservazione, rinnegando la propria identità. Deve invece giudicarsi un progetto giocoforza inesauribile, ogni volta da compiersi e, tuttavia, mai integralmente realizzabile: solo così, nel tempo, saprà mantenersi davvero fedele a se stessa. Ciò significa che la modernità deve sempre accettare il conflitto con una tradizione immancabilmente da reinventare o concettualmente da superare perché inestinguibile dal punto di vista sia teorico sia sociale, evitando di crederla quel che mai essa può diventare: un corpo indubitabilmente morto, un detrito esclusivamente del passato, una logica culturale in ultimo estintasi. Quando la concepisce sconfitta piuttosto che domata, esaurita invece che dormiente, cancellabile e non semplicemente oltrepassabile, la modernità si sta solo intestardendo patologicamente nel rimuovere una verità che sempre, e troppo, essa fatica ad accettare: che, cioè, la tradizione è il suo inconfessabile, insanabile trauma originario. E allora invariabilmente accade, ogniqualvolta la modernità si sia psicoticamente persuasa di aver azzerato la tradizione, che questa, di colpo, ferocemente riemerga in forme indomabilmente estremistiche e ne sancisca il collasso etico, la bancarotta conoscitiva. In altre parole, niente di meno che la catastrofe. Ed è così sempre e dovunque, non solo nell’Iran di oggi quale Farhadi, con incontestabile maestria, allusivamente ce lo restituisce.

Danny Boyle, T2: Trainspotting (25 febbraio 2017)

Tra i film più vuoti, sgangherati e inutili in cui possa capitare di imbattersi. Proprio in quanto segnate da un vitalismo così oltranzisticamente sulfureo da tradursi in smania come che fosse autodistruttiva, le storie dei giovani protagonisti dell’originario Trainspotting mal si conciliavano, d’altro canto, con l’idea stessa d’immaginare, per tali personaggi, un qualche futuro, vent’anni prima del tutto impronosticabile, che valesse dunque la pena raccontare vent’anni più tardi, invece che una morte, anche solo simbolica e comunque precoce, narrativamente insignificante perché indotta da fattori già ampiamente sondati dal regista: i loro tratti identitari, le loro interazioni con l’oppresso, col degradato ambiente socioculturale di cui essi appaiono, fin dal principio, l’ormai nichilistico portato.

Boyle deve averlo capito. Ha perciò costruito un secondo Trainspotting che, col primo, ha in comune i personaggi, salvo renderli, in maniera scarsamente credibile, caratteri in una qualche misura nuovi, che fanno meccanicamente il verso ai vecchi e diventano, così, semplici marionette (cioè maschere prive di ogni spessore psicologico) nelle mani di un cineasta che, muovendole a suo piacimento, vorrebbe poco plausibilmente descrivere non lo stesso mondo esaminato nel 1996, ma una qualche sopraggiunta realtà. Impossibile, tuttavia, capire esattamente quale. In astratto, il nostro tempo, l’attuale civiltà capitalistica, l’anomia che sembra contraddistinguerla. In concreto, però, il film non sa parlarci di nulla: allude, con piglio peraltro eccessivamente ruffiano, a vari temi; non ne affronta, a ben vedere, nessuno. Resta infatti ostaggio di una trama scombiccherata e inverosimile, come pure di un sotterraneo, scontato moralismo che approda a un’ambigua celebrazione elegiaca delle radici, dei legami stretti in età adolescenziale, della giovinezza stessa. Né può trovare un’autentica coerenza espressiva.

A rendere il primo Trainspotting non un capolavoro, e però un film a suo modo capace di fare epoca, segnando l’immaginario collettivo, pensava la fresca, astiosa, autoironica effervescenza irresistibilmente pop che alimentava il compiaciutissimo linguaggio messo a punto da Boyle. Il risultato era una sorta di frenetico videoclip in cui farsa e tragedia, registro comico e apologo morale, patetismo melodrammatico e spudorato nonsense, corrosiva denuncia sociale e gratuito estetismo, sovraccarichi grotteschi e inserti onirici, divertito cinismo e sbarazzina polemica antiborghese, visionarietà e calligrafica propensione al kitsch si miscidavano, in maniera iperrealistica, sino a farsi tra loro indistinguibili. Il nuovo Trainspotting tenta l’identica commistione di stili e di sguardi sul mondo, ma, non avendo appunto granché da dire, si riduce a un goffo guazzabuglio di timbri espressivi, a una rumorosa commediola senza capo né coda.
Non sempre le minestre riscaldate son buone. A volte, non sanno davvero di niente.

Pablo Larraín, Jackie (26 febbraio 2017)

Misurato e intelligente, il film non tradisce il minimo passaggio a vuoto: funziona senza mai scivolare in lungaggini, incertezze o aporie di sorta. Larraín ci ricorda che già da tempo – un po’ come all’epoca del Re Sole, ma in forme assolutamente altre, magari neopagane o laicamente blasfeme – l’ingrediente spettacolare non è un elemento solo accessorio della sovranità. La quale, viceversa, tende addirittura ad identificarsi totalmente con questo suo attributo perché sente di dovergli ormai la possibilità stessa, se non della propria genesi, almeno della propria giustificazione socioculturale, e dunque sia della propria attitudine mitografica, che le risulta indispensabile rinvigorire costantemente, sia del proprio diritto alla sopravvivenza, supposto tanto naturale quanto inalienabile. E anche lascia intendere, il cineasta, che, in Occidente, molte incarnazioni fisiologicamente mediatiche del comando, impostesi dopo quei regnanti, più di qualcosa hanno imparato, o avrebbero potuto apprendere, dalla coppia presidenziale costituita da John Fitzgerald Kennedy e dalla moglie Jacqueline, forse i primi sovrani della nostra epoca a capire che, dalla nascita della televisione in avanti, si sarebbe rivelato addirittura impossibile, per il dominio e per quanti ne detengono quote significative, non soltanto esimersi dal fondare sul pieno controllo o almeno sull’abile sfruttamento di quello strumento comunicativo la propria strategia di legittimazione pubblica, ma persino rifiutarsi di trasformare se stessi in implicite retoriche culturali o mai controversi personaggi di réclame, talkshow, sceneggiati trasmessi dal piccolo schermo. Di riflesso, in articoli di fede o icone pop a domicilio che gli spettatori possano, anzi debbano, acriticamente venerare.

Il film chiarisce allora quale fosse il compito, di natura squisitamente politica, che la vedette Jackie si ritenne chiamata ad assolvere già un istante dopo l’omicidio del marito, da molti variamente idolatrato: gestire al meglio la propria immagine massmediatica di first lady ad un tratto decaduta e, soprattutto, la scenografia del funerale di Stato riservato al coniuge, come pure, in prospettiva, la memoria pubblica a costui legata. Tutto ciò nella certezza che, per trasformarsi in protagonisti indimenticabili della vicenda collettiva, neppure basti, a quanti sono riusciti a imporsi già in vita quali divi del potere e a chi ha saputo rimanere al loro fianco con identica magnificenza, un’intrinsecamente mitizzabile morte violenta e una intatta, maestosa fedeltà al culto degli eroi tragicamente caduti, perché il rapido trascorrere del tempo e l’inflazione di celebrità consustanziale al circuito spettacolare rischiano sempre di svilire, o cancellare, il ricordo di qualsivoglia parabola esistenziale creduta straordinaria.

Per consegnarla alla gloria imperitura, è di riflesso necessario costruire la leggenda di ogni supposta eccellenza attraverso la codificazione di una impeccabile, per nulla ingenua o vuotamente sentimentale ritualità, seguendo la quale, in virtù del prestigio civile in tal modo garantito al feticcio osannato, risulti anche possibile agli adepti vivere della sua luce riflessa. Già prima di JFK, altri tre presidenti americani – spiega infatti Jackie – furono assassinati. Di questi, aggiunge però la donna, uno solo è ancora ricordato dai connazionali: Abraham Lincoln. Spetta quindi a lei, almeno dal suo punto di vista, inaugurare una strategia simbolica che contribuisca a rendere altrettanto indimenticabile nei secoli il marito, perché un potente che non si sappia anche guadagnare un eterno splendore postumo sarà presto o tardi accusato di averne avuto uno solo fittizio quand’era vivo, dunque di non aver mai realmente contato nulla.

E Larraín è impeccabile nel mantenersi deliberatamente alla superficie di un mistero in larga misura davvero insolubile. Quasi scivolando da un primo piano all’altro sul viso della protagonista, l’intero film si dimostra insomma letteralmente cucito addosso allo sguardo proficuamente intenso dell’attrice che la interpreta: una magnifica Natalie Portman. Che, alternando con mai artificiosa schizofrenia espressioni o anche frasi di sincero smarrimento e lucida combattività, inconsolabile sofferenza e cinica attitudine al calcolo, autentica paura e non patologica ma solo spiazzante insensibilità, impersona con maestria una donna ormai incline a identificarsi totalmente con la propria funzione di sacerdotessa del potere e del bon ton, parimenti ridotta a questo suo ruolo dall’opinione pubblica e quindi incapace, lei per prima, di comprendere sino in fondo se stessa. Di capire, in altri termini, se ella patisce un qualche pieno, non simulato, inalienabile dolore per la scomparsa del congiunto in quanto tale, cioè di un vero, percepito, insostituibile affetto, o se invece la sua capacità di provare sentimenti e, in una parola, la sua umanità stessa sono state ormai definitivamente inibite dalla propria dunque completa, reificante riduzione a una maschera, e a un ingranaggio, del dominio.

Chi accetta di tramutarsi nel corpo della sovranità – sembra insomma chiedersi Larraín – può ancora supporre di conservare un qualcosa che possa ostinarsi a definire la propria incancellabile, intellegibile individualità?

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