Libero mercato e nazione: sull’esito delle elezioni politiche

Elezionidi Luca Michelini

L’elettorato italiano ha premiato quelle forze politiche, M5S e Lega, che hanno capito che il libero mercato, concatenato a un processo di impressionante allargamento dei mercati, destabilizza in modo radicale la società. Il capitalismo “puro” caro ai liberisti va governato con determinazione: non solo va limitata la libera circolazione delle merci, della forza-lavoro e dei capitali, ma si deve governare la domanda effettiva e l’entità e la direzione degli investimenti pubblici e privati, nonché la roulette della finanza, che va arginata in modo radicale. Lungi dal costituire un ostacolo alla crescita e allo sviluppo, il governo del mercato consente di amplificare entrambe, come insegna la storia. Una società che si affida alla sola logica del profitto non può che implodere. Se si pone come obiettivo il benessere e la felicità dell’intero suo corpo, la società non può che addomesticare quella logica, per altro senza mortificarla nello spazio che gli è proprio e nel quale può dare i frutti migliori.

I grillini trionfano al Sud, chiedendo lavoro; i leghisti al Nord, chiedono che il lavoro si liberi dalle pastoie di un miope liberismo e di un ottuso fiscalismo. Entrambi gli schieramenti, comunque, hanno solide propaggini nazionali. Le ricette che propongono i due schieramenti possono sembrare utopistiche, e forse lo sono: ma segnano una traiettoria inevitabile, cioè un bisogno sociale ed economico ineludibile, che in qualche modo – con tanti compromessi e mille cautele, onde non finire gambe all’aria e preda di nazionalismi di vicinato (Francia e Germania, nell’ordine) – va appagato.

Sul piano politico entrambi gli schieramenti hanno immense possibilità di manovra: e dunque anche di errore. Il trionfo elettorale si può tramutare in trionfo politico o in sconfitta o addirittura in morte politica. Una società stremata è volubile nelle espressioni di voto: la parabola del Pd renziano dovrebbe essere di monito.

Gli schieramenti sconfitti sono quelli che probabilmente avrebbero voluto, e si aspettavano, una legislatura all’insegna di un’alleanza. Il Pd non poteva che perdere perché è stata la forma politica che il liberismo ultrà ha assunto nel nostro paese; e non potevano che perdere, meglio: scomparire – anche coloro che, solo all’ultimo minuto e solo in vista di una resa dei conti tutta politica e del tutto giustificata su questo piano, hanno frettolosamente riscoperto le ragioni – udite udite! – della classica “socialdemocrazia”. Forza Italia ha perso perché nella povertà, come lasciava intendere Adam Smith, la sovrapposizione tra interesse individuale e interesse pubblico, dove è sempre il primo a fagocitare il secondo per la forza della specializzazione, diventa insopportabile anche sul piano economico.

Sarà legittimo aspettarsi che i vincitori elettorali di queste elezioni tentino di diventare gli unici partiti del paese. La logica delle cose spinge in questa direzione e dunque rende molto complicata l’alleanza tra gialli e verdi. Questa logica, d’altra parte, non faciliterà nemmeno il compito degli sconfitti: costretti in certo modo a immolarsi, forse a scomparire, comunque a piegarsi a una logica politica che contrasta con la loro ragione sociale.

In ogni caso, il nazionalismo economico non ha avuto soltanto un volto reazionario, e comunque non necessariamente deve assumerlo: se moderato, può essere ostacolo (lo notò Keynes), in quanto stabilizza le società, al bellicismo tra Stati, sempre più evidente anche nel vecchio continente. Una società più stabile, del resto, tende a stemperare gli estremismi in politica interna (xenofobia, razzismo, classismo, ecc.). Gli sconfitti, dunque, hanno il compito di indirizzare il nascente nazionalismo economico in senso progressista, sia che governino i gialli, sia che governino i verdi. Gialli e verdi, d’altra parte, non sono autosufficienti e se lo diventassero perché alleati hanno al loro stesso interno una evidente dialettica tra progresso e reazione e dunque ancora ampi sono i margini di manovra politica perché prevalga la civiltà. Su tutto dominerà, almeno questo è l’auspicio, una forza dirompente e granitica come quella della “continuità dello Stato” che indurrà il presidente della Repubblica a richiamare all’ordine i recalcitranti. Sol che il cattolicesimo democratico ricordi le proprie matrici e smetta di imporsi di essere soltanto un fatto di coscienza, un sermone domenicale, un fatto di privata carità.

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