Il Ponte https://www.ilponterivista.com/ Rivista di politica economia e cultura fondata da Piero Calamandrei Sat, 10 Feb 2024 16:15:17 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.3 https://www.ilponterivista.com/wp-content/uploads/Senzanome-1-100x100.jpg Il Ponte https://www.ilponterivista.com/ 32 32 Un programma per il programma https://www.ilponterivista.com/blog/2024/02/10/un-programma-per-il-programma/ Sat, 10 Feb 2024 16:15:17 +0000 https://www.ilponterivista.com/?p=4060 Leggi tutto "Un programma per il programma"]]> Il crollo della globalizzazione finanziaria occidentale, statunitense ed europea, annunciato dalla crisi economica del 2008 e accelerato dalla crisi pandemica del 2019-2020, si sta oggi trasformando in una conclamata crisi politica mondiale; e, sullo sfondo, una crisi climatica inarrestabile, non contrastata per non rinunciare alle antiche predazioni di un capitalismo estrattivo e colonialista, in armi contro il mondo. I vecchi e nuovi strumenti di guerra, dalle cannoniere alle piattaforme digitali, con tutti i loro corollari di propaganda mediatica e di esercizio autoritario dei poteri, stanno registrando arresti e sconfitte in ogni scenario. L’estensione di una guerra globale occidentale contro il “sud” del mondo in una visione di resa dei conti militare con la Russia e la Cina per il dominio dei mercati e delle materie prime del pianeta sta mettendo a nudo una realtà profondamente diversa dalle fantasiose narrazioni dell’unipolarismo statunitense e dei suoi gregari europei, mentre si rafforza una tendenza al multipolarismo orientata dal cartello dei Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) a cui si sono aggregati nell’ultimo anno sempre più numerosi Stati del pianeta, e le adesioni si vanno moltiplicando. La crisi è occidentale, e il cuore della crisi è costituito dalla situazione interna agli Stati Uniti, alla vigilia di una drammatica guerra civile e interetnica che già sta determinando conseguenze prevedibili nell’intera area di influenza atlantica.

La guerra statunitense ed europea in Ucraina, per spezzare le reni alla Russia, è perduta; il taglio dei finanziamenti statunitensi al governo vassallo di Kiev e la conseguente riduzione degli aiuti militari europei costringeranno a una soluzione negoziale sulla base degli accordi di Minsk del 2015, in un paese desertificato da nove anni di guerra del tutto inutili nel cuore dell’Europa; l’unico risultato strategico del massacro resterà un precario dominio statunitense sull’Unione Europea, e qualche profitto momentaneo nel commercio delle armi e del gas liquefatto. La strategia dell’ampliamento della Nato a est, in funzione antirussa, è compromessa.

Con i risultati delle recenti elezioni politiche a Taiwan, che determinano una situazione di necessaria coesistenza pacifica tra il governo dell’isola e la Repubblica popolare cinese, è compromesso il ruolo di Taiwan come testa di ponte militare in funzione anticinese. La visione strategica lungimirante del Partito comunista cinese, qui come altrove, governerà la situazione.

Ma il dato nuovo, del tutto imprevisto nello scenario internazionale della crisi occidentale, viene dal Medio Oriente. L’azione militare della resistenza palestinese, il 7 ottobre, per rompere l’assedio israeliano di Gaza e riaprire clamorosamente una questione palestinese data per sepolta dall’occupazione israeliana, ha messo a nudo la strategia sionista del “colonialismo di insediamento” (l’eliminazione della presenza palestinese da Gaza e dalla Cisgiordania, iniziata con la Naqba del 1948 e perseguita sistematicamente da allora a oggi, di guerra in guerra, moltiplicando gli insediamenti coloniali, rendendo impraticabile uno Stato palestinese), provocando reazioni nell’intero mondo arabo e islamico che hanno fatto fallire il disegno di normalizzazione delle relazioni tra lo Stato ebraico e gli Stati arabi. A quale prezzo? L’azione militare del 7 ottobre che è stata considerata da Israele “il nostro 11 settembre”; è molto di più. L’attentato alle Torri gemelle, sulla cui natura ci si sta ancora interrogando, fu un’azione priva di visioni strategiche in chi la realizzò, e soprattutto alimentò le politiche di guerra dell’impero statunitense (in Afghanistan e altrove). L’azione del 7 ottobre rientra invece in una precisa strategia della resistenza palestinese che, sviluppando processi unitari tra le diverse organizzazioni, da Hamas al Jihad islamico, a Fatah, alla sinistra del movimento di resistenza (Fronte popolare, Fronte popolare democratico, comitati popolari in Cisgiordania, ecc.), ha avuto l’obiettivo di riaffermare la centralità della lotta di liberazione palestinese. Sulla dinamica dell’azione del 7 ottobre non sappiamo se il governo israeliano sia stato preventivamente informato dai suoi servizi su quanto stava per accadere, e lo abbia lasciato accadere per rispondere con una dura rappresaglia nell’interesse personale di Netanyahu e delle strategie dei partiti più oltranzisti del suo governo (espulsione dei palestinesi, ricolonizzazione di Gaza, pulizia etnica in Cisgiordania), ma è certo che l’eliminazione di numerose basi e postazioni militari israeliane e la cattura di centinaia di ostaggi da scambiare con le migliaia di prigionieri politici palestinesi nelle carceri israeliane, hanno rappresentato per Israele una dura sconfitta tattica, e per la resistenza palestinese la riapertura di un processo di liberazione. Non all’attentato dell’11 settembre è paragonabile l’azione del 7 ottobre, quanto piuttosto all’offensiva del Têt con cui, nel gennaio 1968, nel Vietnam del sud, i vietcong, sbucando del tutto imprevisti dalle loro reti sotterranee di rifugi e tunnel, invertirono le sorti della guerra statunitense, a prezzo di sanguinose rappresaglie contro i civili ma infliggendo agli occupanti una dura sconfitta strategica, all’origine dello stesso movimento contro la guerra americana in tutto il mondo.

Le conseguenze del 7 ottobre sono sotto gli occhi di tutti: una feroce rappresaglia contro i civili palestinesi di Gaza (25.000 morti, di cui 16.000 donne e bambini – un vero investimento produttivo, demografico –, decine di migliaia di feriti e dispersi, un centinaio di giornalisti assassinati), la deportazione a colpi di bombardamenti dell’intera popolazione di Gaza per spingerla verso il deserto del Sinai, lo stillicidio di attacchi militari dei coloni israeliani in Cisgiordania, armati e protetti dall’esercito. Una nuova Naqba, una “soluzione finale” nelle intenzioni dello Stato ebraico. Per le popolazioni del mondo arabo e islamico, per i movimenti di solidarietà con la resistenza palestinese anche in Occidente, un genocidio nella peggiore tradizione del “colonialismo di insediamento” sionista. Gli “accordi di Abramo” (escludendo i palestinesi) di normalizzazione delle relazioni con l’Arabia saudita e gli altri Stati arabi sono saltati; gli Stati Uniti, il grande protettore e complice di Israele in funzione anti-iraniana, costretti a inventarsi un ruolo improbabile di “mediatori di pace”. Israele ha ridotto Gaza in macerie (e a Tel Aviv le agenzie immobiliari raccolgono prenotazioni per alberghi e stazioni balneari nella striscia), ma ha diminuito solo parzialmente la forza militare di Hamas e delle altre formazioni palestinesi, e l’esercito rischia di dover affrontare una guerriglia di lunga durata a Gaza e in Cisgiordania, mentre a fianco dei combattenti palestinesi si sono schierati gli Hezbollah in Libano, gli Huthi in Yemen, e cominciano a formarsi in tutto il mondo arabo gruppi di sostegno attivo, anche militare, alla resistenza palestinese. Il canale di Suez è di nuovo uno scenario di guerra.

Lo Stato ebraico è isolato. Ed è stato un paese dei Brics, il Sudafrica, a trascinarlo l’11 gennaio davanti alla Corte internazionale di giustizia dell’Aja, tribunale dell’Onu, con l’accusa di genocidio. La patetica autodifesa di Israele (il genocidio è quello del 7 ottobre nei nostri confronti; e poi non siamo processabili avendo subito il genocidio nazista) non ha scalfito l’accusa di perseguire dal 1948 politiche di espulsione e apartheid della popolazione palestinese nei territori occupati della Cisgiordania, e di sterminio oggi a Gaza; il 20 gennaio, in Uganda, il “Movimento dei paesi non allineati”, riunito nel suo 19° summit, si è concluso con una Dichiarazione di Kampala nella quale 120 paesi che rappresentano il 55% della popolazione mondiale hanno condannato il genocidio del popolo palestinese, rilanciando l’iniziativa del Sudafrica presso la Corte di giustizia dell’Aja; nella stessa occasione il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, ricordando i 152 impiegati dell’Onu morti sotto le bombe a Gaza, ha intimato ancora una volta a Israele di interrompere il massacro.

Intanto cominciano a farsi sentire in Israele le conseguenze della guerra: troppi i riservisti impegnati sui diversi fronti e sottratti al mercato del lavoro, forte riduzione di lavoratori palestinesi, pesante contrazione di commesse industriali e commerciali dall’estero. Ed è auspicabile che nei prossimi mesi le proteste della maggioranza della popolazione ebraica contro il corrotto Netanyau che usa la guerra per difendersi dai suoi processi, lasciando al loro destino gli ostaggi del 7 ottobre, escano dal recinto militarizzato di cui sono prigionieri, più o meno volontari.

E l’Europa? I costi della fallimentare guerra ucraina, scaricati dagli Stati Uniti sull’Unione Europea, stanno danneggiando l’economia europea. Privati del gas russo, sostituito dal gas statunitense molto più caro, gli Stati nazionali sono alla ricerca di fonti (fossili) in Africa e in alcuni paesi dell’est europeo, mentre la transizione ecologica dal fossile alle fonti rinnovabili non è perseguita con la necessaria determinazione nonostante la propaganda green, e il nucleare, a parte le centrali esistenti, generalmente obsolete, richiede tempi lunghi di realizzazione. Svuotati gli arsenali militari per rifornire l’avamposto ucraino, in tutti i paesi aumentano le spese militari, in una situazione economica di decrescita infelice. La Germania socialdemocratica si riarma, ed è in recessione. L’altro paese guida dell’Unione Europea, la Francia, espulsa dall’Africa in ragione del suo inveterato colonialismo, è costretta ad appellarsi alle vetuste glorie di una grandeur d’antan, in nome di un pragmatico «bon sens» (Macron, 17 gennaio) in un paese percorso da conflitti sociali endemici e irrisolti. Nell’Unione Europea si vanno accentuando le differenze tra gli interessi nazionali, tra nord e sud, e il fragile collante dell’unione economica si va sgretolando, alla vigilia di elezioni che non parleranno di politiche europee e non usciranno dalle dimensioni nazionali degli Stati; una parvenza di unione politica, mai perseguita se non attraverso la propaganda dei media, si è dissolta con la sconfitta della guerra in Ucraina. Quale ruolo per l’Europa in un mondo multipolare? Quale ruolo nella crisi del capitalismo finanziario? Nella crisi climatica? Molte le domande, confusi balbettii le risposte.

E in Italia? L’attuale governo di destra, espressione minoritaria della crisi del sistema politico italiano e della tradizione fascista e neofascista, nel contesto della crisi profonda di una sinistra perduta, è un governo da tempo di guerra. Atlantista e bellicista, gregario della geopolitica statunitense e della Nato, in prima linea nel sostegno politico-militare all’Ucraina e a Israele, ha il compito di fare il lavoro sporco che il governo “progressista” di Draghi, espressione del neoliberismo della finanza internazionale, non era opportuno che svolgesse. È impiegato come carta di riserva provvisoria per lavorare “ai fianchi” lo Stato di diritto costituzionale: l’Italia non ripudia la guerra anzi la promuove, il mercato delle armi è un ottimo investimento produttivo, la militarizzazione del controllo sociale, l’occupazione autoritaria delle catene di comando, l’incremento del precariato giovanile contrabbandato come nuova occupazione, la svendita di asset strategici a fondi finanziari dell’area atlantica, la liberalizzazione dell’evasione fiscale e delle rendite, l’attacco al controllo della magistratura, alla sanità e alla scuola pubblica, la guerra ai poveri e agli immigrati, la divisione del paese attraverso progetti di autonomia differenziata, l’assenza di politiche industriali e di contrasto ai cambiamenti climatici, il campo libero ai traffici dei lobbisti in ogni settore. La sintesi della torta è la concentrazione dei poteri nel capo del governo. Insomma, sfiancare l’assetto costituzionale del paese, deformando la stessa Costituzione del 1948 per contrapporle una pretesa costituzione materiale di tradizione autoritaria e fascista. Il controllo dei media permette di spacciare uno stillicidio di decreti legislativi settoriali come “riforme” innovative, e la sottocultura di destra come nuova egemonia. L’opposizione parlamentare? È il governo a dettare l’agenda. Mentre nell’area di governo, in una situazione di premierato di fatto, si moltiplicano gli episodi e le tensioni di una guerra per bande.

Per i meccanismi di uno sciagurato sistema elettorale, questo governo “di guerra” è maggioritario nel Parlamento e minoritario nel paese, in un paese in cui la crisi della politica (parafrasando Tacito sulla pace e la guerra, hanno fatto un deserto e l’hanno chiamato politica) ha prodotto un astensionismo crescente: metà del paese non vota, e in gran parte si tratta di astensionismo attivo, di non collaborazione con un sistema di profittatori (la politica come questione privata, occupazione personale di ruoli nel sistema) e ladri di futuro. Quanto potrà andare avanti questa farsa di fascisti sedicenti democratici, pessimi gestori dell’economia e dello Stato, alla vigilia di prevedibili disastri politici ed economici nella gestione delle immense risorse del Pnrr e della vita quotidiana della popolazione (lavoro, occupazione, fiscalità, servizi pubblici)? I vincoli di un commissariamento “alla greca” (patto di stabilità) e i sovradeterminati poteri della finanza internazionale renderanno vane le fantasie retoriche sull’esercizio emergenziale del comando. I disastri delle guerre in Ucraina e in Medio Oriente accelereranno processi implosivi e reazioni sociali.

L’unica alternativa è il socialismo. La pace non è soltanto l’assenza di guerra, è giustizia sociale, egualitarismo, liberazione dalla preistoria del capitalismo, liberazione delle potenzialità umane in una società di tutti in cui il potere sia di tutti e la “democrazia” sia reale. La democrazia come “potere di tutti” è un processo rivoluzionario di esperienze e situazioni di contropotere, dal basso, preparando le soggettività del cambiamento all’esercizio di un nuovo potere fondato sulla democrazia diretta e delegata con controlli dal basso. Non si tratta di sostituire una classe dirigente “democratica” a una classe dirigente oligarchica lasciando intatta l’organizzazione della società, i suoi attuali rapporti di produzione e di proprietà. Si tratta di rovesciare dal basso la piramide sociale, forti delle esperienze storiche dell’anarchismo, del socialismo e del comunismo critico, costruendo reti sociali di progettazione e di azione politica in una prospettiva di massimo socialismo e massima libertà, costruendo potere di resistenza e opposizione per poi esercitare la liberazione del “potere di tutti”. In molti casi si tratta di riprendere cammini interrotti e rimossi dalla sinistra di sistema, quella “sinistra” di cui Luigi Pintor aveva decretato la morte già negli anni novanta e che si è fatta destra, ruota di scorta di un sistema politico ed economico irriformabile. È questo il terreno fecondo di tante esperienze in corso: dalle reti sociali sulle tematiche dei “beni comuni”, ai comitati di cittadinanza attiva sulle tematiche ambientali, alle esperienze di cooperazione tra associazionismo ed enti locali, alle reti di insegnanti e studenti impegnati nella difesa della scuola pubblica, al sindacalismo attivo nei luoghi di lavoro, alle pratiche interculturali e di accoglienza degli immigrati, e il quadro, nelle sue positive diversità, è aperto e in divenire. La creazione di relazioni sociali di tipo nuovo, orizzontali e partendo dal basso, dalle periferie, fondate sulle persone attive come “centri” di un potere di tutti costruito nelle situazioni concrete, sulla conoscenza, la critica e l’informazione, sul controllo e la disarticolazione delle catene di comando oligarchiche, libera straordinarie potenzialità di uomini e di donne e prepara la libera autonomia di tutti, per una realtà che è comunque e sempre di tutti.

Questa la risposta alle guerre delle oligarchie: creare, organizzare società di persone consapevoli e attive, moltiplicando esperienze e situazioni di autonomia e di potere dal basso. In questo momento, in Italia, si vanno costruendo esperienze di radicale estraneità ai riti di un sistema politico sempre più concentrato, isolato e screditato; il fallimento del neoliberismo di una sinistra perduta, alla vigilia di bombardamenti economici senza precedenti, ha prodotto guasti profondi, politici e culturali, in un’opinione pubblica sempre più disorientata e disinformata dai media, e il governo di destra commissariato da un’Unione Europea (che non è l’Europa, di cui fa storicamente parte anche la Russia) al servizio delle strategie di guerra economica e militare degli Stati Uniti e di una Nato che non dovrebbe neppure esistere dopo l’implosione dell’Unione Sovietica, tenterà invano di “governare” processi ingovernabili se non con i soliti mezzi di distrazione di massa affidati a una politica tutta televisiva. La nuova composizione di classe di una società sempre più impoverita e in declino demografico, il nuovo proletariato precarizzato e implementato da settori estesi di ceto medio, favoriscono la ripresa di lotte sociali radicali e una necessaria ricerca di nuove soluzioni progettuali e di visione. L’esperienza della lotta in corso del collettivo della ex Gkn di Campi Bisenzio, dalla fabbrica al territorio, alla costruzione di una rete nazionale di esperienze di autorecupero di fabbriche in crisi, alla cooperazione con i giovanissimi di Fridays for Future e ai movimenti contro la guerra, è un esempio significativo di questa fase della lotta di classe in Italia.

Si stanno moltiplicando le occasioni di confronto politico e culturale sulle questioni fondamentali: quale società, quale pace, quale socialismo. È il momento di attivare collegamenti, confronti, progettazioni e iniziative. La questione fondamentale è un socialismo senza aggettivi, in tempi di guerra e di catastrofe climatica a minaccia di estinzione della specie umana.

Il nostro programma 2024, per un programma collettivo socialista. «Il Ponte», dal 1945 cantiere di elaborazione teorica sulla linea dell’antifascismo liberalsocialista degli anni trenta-quaranta, delle esperienze di democrazia diretta “omnicratica” e socialista libertaria sperimentate da Capitini nell’immediato dopoguerra, e negli anni sessanta sui temi della pace e della guerra, è oggi più che mai un cantiere aperto, e uno strumento di collegamenti e iniziative condivise. Nel 2024 «Il Ponte» compie 80 anni. Un lungo viaggio iniziato nel 1945 da Piero Calamandrei e dai liberalsocialisti toscani (Tristano Codignola, Enzo Enriques Agnoletti) in stretto rapporto dalla metà degli anni trenta con i liberalsocialisti umbri (Aldo Capitini, Walter Binni), proseguito dal 1956, alla morte di Calamandrei, con la direzione di Enriques Agnoletti, e dal 1986, alla morte di Enriques Agnoletti, con la direzione di Marcello Rossi. In tutti questi anni, «Il Ponte» ha svolto e continua a svolgere una funzione di cantiere di confronto ed elaborazione progettuale di un nuovo socialismo libertario, con uno sguardo sempre attento alle esperienze storiche dei socialismi nell’Ottocento e nel Novecento, in tutte le loro declinazioni, e ai processi in corso nella contemporaneità.

Siamo una rivista e una casa editrice, consapevoli dei nostri limiti di azione politica e culturale, ma decisi a promuovere le funzioni di quei Centri di orientamento sociale (Cos) sperimentati da Capitini nel 1944-48, per contribuire – in relazioni di rete – alla definizione di un programma di nuovo socialismo. La situazione italiana attuale ci impone di rafforzare la nostra rete di collaboratori per un’attività di progettazione collettiva su alcuni temi necessari e urgenti. In primo luogo le questioni del lavoro; la rivista le affronterà in una nuova rubrica gestita dalla Cgil toscana e dall’Istituto di ricerche economiche e sociali. Un’altra nuova rubrica, dedicata ai problemi della cooperazione, sarà gestita dalla Lega toscana delle Cooperative; dal 2000 «Il Ponte» è una cooperativa aderente alla Lega. Il rapporto di collaborazione con la Cgil e con la Lega permetterà di organizzare incontri e iniziative in varie situazioni territoriali, per «ascoltare e parlare» secondo il metodo capitiniano dei Cos. Due numeri speciali della rivista saranno dedicati a questi problemi. Un terzo numero speciale sarà dedicato alla questione centrale dei cambiamenti climatici, da affrontare scientificamente e politicamente; il numero sarà curato da Giuliano Pelfer. Nei tre numeri ordinari della rivista proseguiremo le nostre analisi politiche e culturali in un anno che sarà decisivo per l’assetto geopolitico del mondo, per orientarci e orientare sui processi in corso, per definire i temi essenziali di un programma socialista da costruire dal basso. In stretto rapporto con la rivista, proseguirà l’attività della casa editrice.

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Premierato e dintorni https://www.ilponterivista.com/blog/2024/01/24/premierato-e-dintorni/ Wed, 24 Jan 2024 14:43:13 +0000 https://www.ilponterivista.com/?p=4055 Leggi tutto "Premierato e dintorni"]]> Finalmente, dopo le chiacchiere della campagna elettorale (presidenzialismo, dialogo con l’opposizione, commissione bicamerale, ecc.) e dopo che la bozza Casellati aveva chiarito che l’obbiettivo della «madre di tutte le riforme» non era più la Presidenza della Repubblica, ma il premierato (concentrazione di poteri sul capo del governo eletto dal popolo col 40% dei voti o dopo il ballottaggio), il 3 novembre veniva approvato dal Cdm un articolato, che, eliminando anche quella soglia, prevedeva l’assegnazione automatica di un premio di maggioranza al vincitore e la modifica di alcuni articoli della Costituzione: l’art. 88, sul potere del capo dello Stato di scioglimento delle Camere, l’art. 92 sulla nomina del presidente del Consiglio, l’art. 94 sulla mozione di fiducia e sfiducia al governo e persino, a sorpresa, l’art. 59 sulla nomina dei senatori a vita da parte del Presidente della Repubblica (è parso dunque eccessivo, a questi sedicenti “cultori del merito”, che in Senato, accanto ai vari parlamentari scelti nei partiti per la fedeltà dimostrata ai rispettivi capi, continuino ad esservi anche «cittadini che hanno illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario»: questi dunque e non i primi, non potranno più sedere in Parlamento).

Due sono dunque gli assi portanti di questa riforma: l’elezione diretta del premier (l’obiettivo di ogni populismo, sconosciuto al costituzionalismo europeo) e il premio del 55% dei seggi a essa connesso (spettante al vincitore, a prescindere dalla soglia di voti raggiunta). La memoria della volontà di alterare i risultati elettorati ricorre inevitabilmente ai precedenti della legge Acerbo e della “legge truffa”: la prima che, per il cedimento di liberali e cattolici, aveva aperto la strada parlamentare al fascismo, attribuiva due terzi di seggi al partito o alla coalizione che avesse raggiunto il 25% dei voti, la seconda, con cui De Gasperi intendeva supportare la “democrazia protetta”, assegnava il 65% dei seggi al vincitore, purché fosse stata, comunque, raggiunta la soglia del 50 più 1 di voti.

Questa volta la maggioranza di governo si è tenuta le mani libere, non ha fissato alcuna soglia e si è limitata a prevedere che la legge elettorale garantisca «al candidato e alle liste collegate al Presidente del Consiglio il 55% dei seggi delle Camere»; ma nel frattempo, contravvenendo alle decisioni dei Costituenti, ha inserito nella Carta rinnovata il principio maggioritario in materia elettorale, blindando in tal modo non solo questa ma anche le future norme regolatrici della materia.

Le audizioni in Senato dei maggiori costituzionalisti italiani – Cartabia, Zagrebelsky, De Siervo e Silvestri – ha già fatto giustizia della motivazione con cui questo esecutivo e i media di contorno hanno accompagnato il cammino della riforma («questa legge non intacca i poteri del capo dello Stato»), dato che, a parte la revisione degli articoli della Costituzione già richiamati che l’hanno privato di singoli poteri, la semplice elezione diretta del premier da parte dei cittadini depotenzia automaticamente, relegandolo sullo sfondo, il ruolo di un presidente della Repubblica nominato non dal “popolo”, ma “solo”, indirettamente, dal Parlamento.

Pure destituita di fondamento è l’altra asserzione, pure costantemente ribadita, secondo cui una tale riforma sarebbe necessaria per assicurare la stabilità dei governi, poiché l’esperienza di questo trentennio ha evidenziato come la maggioranza dei seggi garantisce sì la formazione di un esecutivo ma non la sua durata, che dipende invece dalla coesione o meno dei partiti raccolti nella coalizione vincente; coesione che è sempre deperita in tempi brevi in quelle di sinistra e che è stata più a lungo mantenuta in quelle di destra solo grazie allo scambio di bandierine, salvo poi franare miseramente, per comune insipienza, in quella gestita da Berlusconi sino al 2011.

Ma è la situazione attuale che rende ancor più pretestuoso tale argomento: nelle elezioni politiche del 2022 la coalizione guidata dalla Meloni, conseguendo il 43,8% dei voti validi, ha ottenuto 350 seggi su 600, con una percentuale pari al 58,3%, superiore quindi a quella prevista dalla riforma progettata. Quindi già con la normativa esistente è stato possibile dar vita ad un governo “stabile”, senza dover ricorrere a una così radicale trasformazione della Costituzione.

Se ciò invece si persegue con tanta decisione, la ragione va ricercata altrove e non attiene alla semplice salvaguardia della durata di questo o quel governo, quanto piuttosto al mirato programma di mutare in modo permanente la forma-Stato attraverso l’alterazione dei suoi equilibri interni, “adeguando” la Carta del ’48 a quella costituzione materiale che in quest’ultimo trentennio ha messo le radici nella realtà istituzionale del paese.

Il problema, a questo punto, non è però quello di misurare la distanza che ormai separa lo Stato dei partiti previsto dalla Costituzione del ’48 da quello attualmente funzionante, tema su cui esiste ormai una vasta e ripetitiva letteratura, bensì quello di esaminare come e perché ciò sia avvenuto nel tempo e perché oggi sia divenuto urgente, per la maggioranza di governo, colmare quella distanza, sì da trasformare la Repubblica parlamentare in uno Stato decidente.

Il primo passo, sotto questo profilo, era stato compiuto già da chi, sulla spinta del maggioritario, aveva ritenuto di poter dividere l’Italia in due: «noi contro i comunisti» era stata infatti la parola d’ordine con cui Berlusconi, nel ’94, era “disceso in campo” e con la quale aveva proiettato sull’avversario politico il fantasma del nemico di sempre, con cui ci si doveva solo contrapporre, non più confrontare.

Questa costruzione ideologica aveva però bisogno di riplasmare la cronaca, reinventare il comunismo attraverso le “toghe rosse”, decise a impedire, per conto terzi, le riforme con cui il politico liberale tentava di risollevare le sorti dell’Italia, precipitate a causa dei partiti della Prima repubblica. Ma per dare una qualche consistenza a questa narrazione, è stato necessario rivedere anche la Storia, colorando negativamente la Resistenza (una superflua guerra civile, sporcata per giunta dal sangue poi sparso dai comunisti), delegittimando così la Costituzione nelle sue radici, rappresentata dai più facinorosi (Ostellino) come “sovietica” e comunque bollata dal nuovo “buon senso comune” come frutto di un clamoroso compromesso con quello storico nemico, foriero di tutti gli “inciuci” successivi.

In questo brodo di cultura è maturato, insieme alla ricercata demolizione dell’antifascismo, il contemporaneo “sdoganamento” degli eredi del Msi, dapprima tenuti in subordine al tempo di Berlusconi, quindi emersi come protagonisti al momento del suo inarrestabile declino e dopo l’esito infelice dell’esperienza di Salvini nel governo Conte. Così nel ’22, l’elettorato di destra, fedele alla solita coalizione, ha gonfiato al suo interno il terzo partito, la lista di Fratelli d’Italia, che per quanto riguardava la contrapposizione al comunismo, vero o immaginario che fosse, aveva tutte le carte in regola per guidare questa destra; la sua crescita repentina è stata poi favorita, in modo determinante, dallo scoppio dei conflitti armati in Ucraina, prima, nel Medio Oriente, poi.

Il clima di guerra fredda calato sull’Europa dopo il febbraio ’22 ha radicalizzato le contrapposizioni e ha condizionato pesantemente l’esito di quelle elezioni, poiché di fronte al tergiversare di Berlusconi con l’amico Putin e ai rapporti d’interesse coltivati da Salvini con gli emissari russi al Metropol, l’accorta Meloni, ottenuta con la spinta di Trump l’investitura europea dal partito dei conservatori polacchi, aveva subito fatto dimenticare il sostegno dato alla Federazione Russa ancora nel 2017 (con le Tesi di Trieste) e promesso per tempo fedeltà all’amministrazione Usa, diventando così la leader degli atlantisti di casa nostra.

Questa sua scelta di politica internazionale ha fatto aggio su ogni altra considerazione.

Sulla pregiudiziale antiputiniana si è incardinato il confronto delle diverse propagande elettorali, su questa scelta la Meloni ha fatto il (relativo) pieno di tanti sedicenti moderati; e questi, una volta appresi i risultati delle urne, hanno scoperto in lei una serie di qualità prima non percepite («la Repubblica», il 16.02.2023, è giunta a definirla «una fuoriclasse»). «La Stampa» e il «Corriere» – Orsina e Galli della Loggia – hanno cercato di cucire addosso a Fratelli d’Italia la veste del partito conservatore, lontano dal fascismo: ma già i suoi vertici, La Russa, con la storia personale e col voluto sfregio inferto ai partigiani di Via Rasella e Lollobrigida, con la sua fattiva esaltazione di Rodolfo Graziani e gli sproloqui sulla sostituzione etnica, dimostrano, per dirla con Isabella Rauti, che «quelle radici non gelano mai»; e, come non bastasse, da ogni angolo del paese sono poi emersi periodicamente rigurgiti fascisti, come si è visto in occasione della parata militare dei mille camerati schierati ad Acca Larentia o come si è appreso dal portavoce del presidente della Regione Lazio, Marcello De Angelis, secondo cui neppure la strage di Bologna è stata compiuta da fascisti, malgrado diverse sentenze della Cassazione abbiano accertato il contrario.

Orbene, la Meloni, che con Federico Mollicone, co-fondatore di Fratelli d’Italia, aveva presenziato nel 2012 alla posa della lapide commemorativa per l’eccidio di Acca Larentia (per ricordare gli «assassinati dall’odio comunista e dai servi dello Stato», firmato: «i camerati»); che, nel 2004, aveva sostenuto l’estraneità dei Nar alla strage di Bologna (così si era espressa in un pubblico evento, organizzato da Azione Giovani a Catania, ove era intervenuto anche Luigi Ciavardini, l’assassino del giudice Amato, allora imputato, e poi condannato, proprio per quella strage) – nel 2023 non ha potuto sciogliersi da quel passato ed è rimasta in silenzio; il «Corriere», del resto, già prima della sua elezione, aveva sostenuto che non era più il caso di sollevare quei problemi (e aveva avvertito gli incauti che l’antifascismo non portava voti); dopo il responso delle urne, poi, il quotidiano milanese molto si è impegnato per migliorare l’immagine della premier, divenendo prodigo di consigli: così, autorevoli opinionisti le hanno suggerito la necessità di guardare avanti e di dialogare col “centro” (Galli della Loggia, il «Corriere» 21.09.2023) o le hanno spiegato come uscire dall’impasse in cui era finita sul Mes, senza perdere troppo la faccia (Monti, il «Corriere» 23.06.2023).

La Meloni, ovviamente, ha fatto la sua parte: la scelta di appiattirsi sulla “linea Draghi”, dopo averla criticata quando era all’opposizione, è stato il biglietto da visita con cui si è presentata in Europa (e gli abbracci con Ursula von der Leyen, tanto vituperata in precedenza, sono stati sempre molto pubblicizzati): questa e le sue altre giravolte (i blocchi navali dimenticati, le tasse alle banche subito evaporate) sono state minimizzate e “contestualizzate”: la coerenza – tanto esaltata in campagna elettorale – ha cessato di essere una virtù, perché, ora, in «un contesto storico troppo cangiante e pericoloso, non importa più di tanto» (Orsina, Se cambiare idea consolida Meloni, «La Stampa» 23.08.2023). Del resto i riconoscimenti rivolti dall’amministrazione Usa al governo vassallo per le scelte in politica internazionale, che tanto hanno commosso il direttore di «Libero» (I veri liberatori elogiano la Meloni ha titolato il 25 aprile), hanno cancellato gli ultimi dubbi e chiuso trionfalmente il cerchio dei consensi.

Ma la presidente del Consiglio sa bene che in questi tempi il voto è liquido e che le circostanze favorevoli che le hanno garantito il successo nel ’22 potrebbero, almeno in parte, non ripresentarsi; per questo ha deciso di utilizzare la presente congiuntura per rendere stabile e duraturo il successo della destra da lei guidata. E ha premuto sull’acceleratore sul premierato.

La disponibilità mostrata nei confronti dell’opposizione durante la campagna elettorale è subito rientrata («la riforma ce la facciamo da soli»), ogni compromesso è stato liquidato («l’elezione del premier è fuori discussione»), l’obiettivo deve essere raggiunto, perché deve sancire la rivincita storica degli “esuli in patria”, finalmente in grado di mutare di segno alla Costituzione antifascista del ’48.

Questa è la partita, istituzionale e simbolica, ormai avviata.

L’opinione pubblica è stata preparata: da tempo Galli della Loggia, quando parla della Carta del ’48, usa virgolettarne la qualifica “antifascista”, quasi si trattasse di un’invenzione della sinistra («Corriere 11.08.2022); e, più recentemente, con un eccesso di zelo, Panebianco ha sostenuto che gli elettori devono convincersi «che non è stata la Costituzione a garantire fin qui la democrazia», bensì «la pax americana, la protezione offerta al nostro paese dagli Stati Uniti» («Corriere» 29.11.2023): la Carta del ’48, quindi, può essere tranquillamente messa da parte.

Avanti dunque verso una Costituzione di nuovo tipo.

Con decisione, ma senza fretta eccessiva, peraltro, perché Meloni deve tener conto delle esigenze dell’alleato più vicino, la Lega di Salvini. Per questo, almeno sino alle elezioni europee, la riforma del premierato deve procedere di pari passo con quella dell’autonomia differenziata, tanto che in Senato una zelante regia ha voluto che, nello stesso giorno, il 16.01.2024, in Commissione si parlasse della prima e in aula si discutesse della seconda, in una sorta di circo mediatico a due piste. Del resto erano già sorte troppe questioni per la spartizione dei candidati presidenti in vista delle prossime elezioni regionali e non era il caso di creare ulteriori frizioni tra gli alleati.

Nel frattempo, all’ombra di queste progettate riforme costituzionali, il governo ha seminato, pressoché indisturbato, in vari campi, tracce evidenti della direzione di marcia che ha inteso dare alla sua politica.

I provvedimenti via via emanati, al di là della loro apparente disorganicità, hanno invece un solido collante, caratterizzato da un’univoca impronta classista: l’avversione per i lavoratori dipendenti, manifestata con la netta chiusura alla proposta di un salario minimo di 9 euro lordi all’ora, malgrado vi siano oggi 3 milioni di lavoratori che non raggiungono questa soglia (e la relativa proposta di legge dell’opposizione è stata vanificata con l’ennesima forzatura, con un emendamento, cioè, che l’ha trasformata in una delega al governo per poter decidere diversamente!); il vero e proprio accanimento dimostrato nei confronti dei poveri assoluti (2,18 milioni di famiglie, per complessivi 5,6 milioni di individui, si trovano oggi in questa condizione), con la cancellazione del pur limitato e imperfetto reddito di cittadinanza (ciò al fine di spingere quei «fannulloni distesi sul divano» ad accettare qualsiasi lavoro, anche di tipo servile); il razzismo praticato nei confronti degli immigrati “di colore” (i 150.000 “bianchi e cristiani” dell’Ucraina sono stati accolti invece senza alcuna protesta), utili solo se impiegati nei campi con salari da fame (e se no, lasciati morire in mare, come visto con lo scaricabarile di Cutro e poi con la legge, varata per l’occasione, volta a ostacolare i soccorsi a opera delle Ong).

Di contro, mentre la scuola arranca e la sanità pubblica viene progressivamente privatizzata, nel Pnnr rinegoziato si sono “trovati” 12 miliardi da destinare alle imprese; la Meloni, che già definiva le tasse «un pizzo di Stato» e il Fisco «persecutore», ha dichiarato all’assemblea degli artigiani del Cna che il suo governo combatterà la «menzogna corrente» che individua nelle partite Iva e nelle piccole imprese la massa dell’evasione; ma si è dimenticata di dire che, dal rapporto del Mef del 28.09.2023, è risultato il mancato pagamento dell’Irpef da parte di imprenditori e autonomi, nel 2020, per una somma di 28,2 miliardi di euro e una evasione dell’Iva pari a 22,8 miliardi; se a ciò si aggiunge che gli imprenditori hanno omesso di versare 9,1 miliardi di contributi previdenziali, si avrà il quadro sufficientemente completo di quale sia stata la voragine aperta nei conti dello Stato da queste omissioni e di chi l’abbia provocata («La Stampa», 11.11.2023).

È in questo contesto che il governo ha pensato bene di incentivare (oggettivamente?) l’evasione, aumentando sino a 5.000 euro i pagamenti in contanti, inserendo nella legge di bilancio 12 sanatorie e riproponendo il concordato fiscale preventivo per le solite partite Iva e i piccoli imprenditori, garantendo loro, in caso di accordo, l’assenza di qualsiasi controllo per il biennio successivo.

Ma tant’è: nel Dna di questo esecutivo non vi è solo la difesa a oltranza dei profitti comunque accumulati, ma pure quella di difendere le rendite di posizione di taxisti, pescatori e balneari (proprio durante il contenzioso con Bruxelles, Salvini ha ulteriormente abbassato i canoni che questi ultimi già versano in misura minima rispetto al fatturato), ignorando ostentatamente il duplice monito di Mattarella sul punto e sfidando, con un sussulto sovranista, l’Ue e la prevista procedura d’infrazione.

Nulla di particolarmente nuovo, si dirà: si tratta del “normale” svolgersi della lotta di classe praticata da anni con particolare intensità in Italia, che approfondisce quotidianamente le disuguaglianze esistenti e che periodicamente viene rappresentata dalle statistiche che evidenziano, per esempio con il rapporto Oxfam, che lo 0,1% della popolazione detiene una ricchezza pari al 60% di quella riservata alla fascia più povera e che, negli ultimi 10 anni, il numero dei minori in povertà assoluta è triplicato, mentre quello dei miliardari è addirittura sestuplicato; di nuovo, se mai, vi è l’aggressività e il disprezzo manifestato da questi governanti nei confronti di coloro che rimangono ai margini della produzione (la Meloni ha qualificato il reddito di cittadinanza metadone di Stato, equiparando così i disoccupati poveri – ritenuti responsabili del loro stato – a fannulloni drogati) o di coloro che costano e non producono affatto (per i migranti sono stati tagliati i fondi per l’accoglienza, mentre si sono moltiplicati i centri di detenzione – amministrativa! –, un paio dei quali da costruire anche in Albania: altro successo “storico” della Meloni).

L’ascensore sociale non solo si è da tempo fermato, ma, grazie alla precarizzazione crescente del lavoro, appare in costante discesa. L’irrigidimento istituzionale che il premierato configura, con le scelte politiche che lo preparano (spoils system esteso a piacimento, occupazione progressiva dei media, stretta repressiva per tenere a bada i “diversi”, tutela “garantista” a protezione di affaristi e “colletti bianchi”), diviene così lo strumento per “governare” questa società profondamente spaccata, nella quale troppi cittadini vagano come “sonnambuli” in attesa del pifferaio di turno.

E ora che la Meloni è arrivata, le opposizioni, come le stelle, stanno solo a guardare.

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La Corte Costituzionale torna sui crimini nazifascisti https://www.ilponterivista.com/blog/2023/12/17/la-corte-costituzionale-torna-sui-crimini-nazifascisti/ Sun, 17 Dec 2023 16:08:10 +0000 https://www.ilponterivista.com/?p=4048 Leggi tutto "La Corte Costituzionale torna sui crimini nazifascisti"]]> La Corte costituzionale si è pronunciata di nuovo sulla giustizia civile per i crimini nazifascisti1. Come nella sentenza del 20142, le questioni giuridiche sviluppate non riguardano solo il passato, ma la responsabilità degli Stati per tutti i crimini di guerra e contro l’umanità3. C’è bisogno di dire che il tema scotta? Eppure, questa decisione è più debole di quella di nove anni fa.

Stavolta la rimessione riguardava sostanzialmente l’impossibilità di iniziare o proseguire l’esecuzione civile, solo a carico della Germania e solo per i crimini commessi nella Seconda guerra mondiale4. Il Tribunale aveva colto la questione di fondo: «Il legislatore statale sembra aver creato una fattispecie di ius singulare, che, spiegando i suoi effetti in un processo già iniziato, determina un evidente sbilanciamento a favore della parte esecutata [lo Stato tedesco]». L’esito è una dichiarazione di infondatezza della questione e, anche se nel ragionamento della Corte ci sono affermazioni apprezzabili, la giustizia non ne esce vincente.

Anzitutto, la motivazione della Consulta contiene ritorni ed esposizioni sfocate. Comunque, si segnala la presenza nel processo di un amicus Curiae a sostegno delle vittime5. L’amicus Curiae citava anche la Corte suprema dell’Ucraina, favorevole al ridimensionamento dell’immunità statuale (in quel caso, della Russia); ma secondo una memoria, presentata alla Corte dall’Avvocatura dello Stato, le decisioni ucraine «non possono essere considerate espressione di una nuova consuetudine internazionale»6. Sembra che di Kiev si apprezzino solo le armi, non le sentenze.

In punto di diritto la Consulta ricorda il suo provvedimento del 2014, favorevole alla giurisdizione, e formalmente non lo contraddice. Però distingue:

Vale per il giudizio di cognizione. Invece, nella diversa sede del processo esecutivo, al quale non si riferisce la citata sentenza n. 238 del 2014, la prospettiva è diversa perché il canone dell’immunità ristretta degli Stati vale non già ad escludere la giurisdizione del giudice nazionale, bensì a limitare i beni suscettibili di pignoramento e di esecuzione forzata. […] La dottrina dell’immunità degli Stati non scherma affatto la giurisdizione del giudice in sede esecutiva, ma incide sui beni dello Stato suscettibili di espropriazione forzata. Se questi sono riferibili ad una funzione in senso lato pubblicistica, ossia ad attività iure imperii, vi è l’immunità (quella cosiddetta ristretta) e quindi essi non sono pignorabili nel contesto di una procedura di espropriazione forzata. Se, invece, si tratta di beni, che attengono all’attività iure gestionis dello Stato, essi sono pignorabili normalmente7.

Insomma, mentre la giurisdizione di cognizione non si discute, la soggezione all’esecuzione va vista caso per caso. Per chiarire il concetto, già che c’è, la sentenza ribadisce che non si toccano né Villa Vigoni né i conti corrrenti di sedi diplomatiche o consolari8.

Con queste premesse, il discorso si spinge in una ricostruzione gracile della contesa sui risarcimenti, cominciando dalla Grande guerra e dalla Conferenza di Losanna del 1932. Poi viene al dunque:

Rispetto al più generale tema della riparazione dei danni di guerra, emerge, come esigenza peculiare e speciale, quella di apprestare un ristoro alle vittime dei crimini di guerra nazisti; esigenza avvertita sia in Germania – dapprima con la legge federale sul risarcimento delle vittime della persecuzione nazionalsocialista e in seguito con un’altra legge federale, istitutiva della Fondazione “Memoria, Responsabilità e Futuro” – sia in Italia, con disposizioni varie […] fino a quella censurata. Ben presto, nel nuovo clima europeo ispirato a ideali di pace, concordia e comunanza di valori fondamentali, è maturata un’iniziativa congiunta volta a dare una risposta condivisa, e non già solo unilaterale, a questa esigenza. Si tratta di due contestuali (e connessi) Accordi tra la Repubblica Italiana e la Repubblica federale di Germania con scambi di Note, conclusi a Bonn il 2 giugno 1961, concernenti, l’uno, il regolamento di alcune questioni di carattere patrimoniale, economico e finanziario, e l’altro, gli indennizzi a favore dei cittadini italiani che erano stati colpiti da misure di persecuzione nazionalsocialiste9.

Il tempo del nuovo clima europeo rischiarato da pace, concordia e valori è quello della costruzione del Muro di Berlino; forse il periodo in cui il continente è stato più diviso, in età moderna.

Probabilmente è anche per via di questo malinteso, che la Consulta, riconoscendo nell’Accordo di Bonn e nel suo contesto un tratto irenico e risolutivo, avverte come disturbante ciò che in seguito ha rimesso in discussione le cose:

All’epoca dell’Accordo di Bonn del 1961 e per molti anni a seguire si riteneva che il principio dell’immunità ristretta degli Stati, col fatto di negare la giurisdizione del giudice nazionale, schermasse ogni pretesa risarcitoria individuale, ulteriore rispetto ai suddetti benefici. […] Questo, per lungo tempo, è stato anche l’orientamento della giurisprudenza della Corte di cassazione10.

Qui si affaccia il riparazionismo, una trovata furba avallata dalla politica berlusconiana col vertice italo tedesco di Trieste, corollario e compimento di una pacificazione, di un ritorno al bel tempo antico:

In seguito ci sono state anche iniziative comuni per creare una nuova cultura della memoria. In una dichiarazione congiunta dei governi della Repubblica federale di Germania e della Repubblica italiana, fatta a Trieste (in occasione della visita, altamente simbolica, dell’ex campo di concentramento della Risiera di San Sabba) il 18 novembre 2008, sono state solennemente riconosciute le “indicibili sofferenze inflitte a uomini e donne italiani, in particolare durante i massacri, e agli ex internati militari italiani”11.

Questo idillio consacrato dai riconoscimenti ufficiali è stato guastato:

Il panorama, fin qui sommariamente descritto, muta radicalmente a partire dalla sentenza Ferrini (Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 11 marzo 2004, n. 5044) che, operando un netto revirement rispetto alla giurisprudenza precedente, afferma che per gli atti posti in essere nel corso di operazioni belliche costituenti crimini internazionali in violazione di diritti fondamentali della persona umana vi è una deroga al principio dell’immunità, pur ristretta, degli Stati; quella che poi sarà chiamata “eccezione umanitaria”12.

La Consulta dice bene: la descrizione è fatta sommariamente. È fatta anche invertendo l’ordine: prima c’è la sentenza Ferrini; nel 2008 arrivano altre sentenze basate sugli stessi principi; dopo, alla fine dello stesso anno, c’è il vertice di Trieste, per correre ai ripari e sostituire la giustizia con la memoria.

A proposito di rapporti internazionali. L’Accordo di Londra del 1953 nella sentenza non è neanche nominato, benché nel processo ne fosse stata chiesta l’applicazione13. Quell’Accordo stenta a farsi riconoscere, nella giurisprudenza, anche se in tempi recentissimi è stato valorizzato14. Quanto all’Accordo di Bonn, la Corte dà per scontato che si applichi a questi crediti, mentre c’è un solido orientamento contrario; va in tal senso anche la Cassazione, in particolare nella pronuncia sulla strage di Civitella, emessa dopo un ricorso della Germania molto combattivo15. Praticamente, ridando spazio all’Accordo di Bonn la Consulta rifà il processo di Civitella, in peius per le vittime, e rimette indietro le lancette della storia. In più lascia intendere, fra le righe, che la sua stessa pronuncia del 2014 non avrebbe dovuto essere emessa per difetto di rilevanza, perché la domanda, comunque, sarebbe stata infondata nel merito.

Dopo l’esposizione dei passaggi della questione, viene confermata la saldatura con l’Accordo di Bonn:

In questo mutato contesto soprattutto giurisprudenziale si è posto per il legislatore italiano il problema dell’efficacia dell’accordo del 1961, che conteneva – come già rilevato – la clausola liberatoria in favore della Repubblica federale di Germania e a carico dello Stato italiano. Il termine decadenziale ultimo per far valere pretese indennitarie, fissato dall’art. 6 del d.P.R. n. 2043 del 1963, è risultato, alla fine, superato nella misura in cui si è riconosciuta, a partire dalla ricordata pronuncia del 2014 di questa Corte, l’azionabilità innanzi al giudice ordinario della domanda di risarcimento del danno, nei confronti della Repubblica federale di Germania, per gravi lesioni dei diritti umani conseguenti a condotte qualificabili quali crimini contro l’umanità, imputabili al Terzo Reich nel periodo della seconda guerra mondiale16.

Il discorso non regge perché è sbagliata la premessa. In realtà, l’Accordo di Bonn non si applica a questi crediti, si vuole applicarlo a tutti i costi, è troppo tardi e si prova a estenderlo presentando il termine, stabilito sessant’anni fa, come «superato nella misura in cui». Forse, siccome la sentenza del 2014 ha messo in crisi il sistema, allora l’Accordo deve essere esteso anche forzando il termine di decadenza. Così si spiegherebbero quelle parole un po’ fuori moda, «nella misura in cui», un’espressione gergale che suggerisce un nesso non strettamente causale e non del tutto occasionale, un legame non altrimenti esprimibile. «Nella misura in cui» è un modo di dire connotato, è l’assaggio di un’epoca17.

La motivazione insiste: dopo il 2014 sono riprese le condanne della Germania e «talora – come riferito dall’Avvocatura dello Stato in udienza – la condanna è stata estesa in solido allo Stato italiano»18 (su questo, la decisione segue la narrazione inattendibile che si è sentita in udienza19). Quindi c’era bisogno di normalizzazione:

Tali iniziative giudiziarie hanno indotto il legislatore italiano ad intervenire, in vista dell’obiettivo del mantenimento di buoni rapporti internazionali, ispirati a principi di pace e giustizia, anche in considerazione del vincolo costituzionale (art. 117, primo comma, Cost.) del rispetto dei trattati, quale certamente è l’Accordo di Bonn del 1961. […] Proprio in continuità con tale Accordo, lo Stato si fa carico – con una norma virtuosa, anche se onerosa – del “ristoro” dei danni subìti dalle vittime di crimini di guerra, compiuti, dalle forze armate del Terzo Reich, sul territorio italiano o comunque in danno di cittadini italiani20.

La scelta è definitiva e virtuosa. Ma poche volte la virtù si è trovata in imbarazzo come di fronte all’inadempimento tedesco.

Qui si arriva al cuore della motivazione, e insieme alla sua parte più insidiosa, perché riguarda le garanzie e tutti i crimini di guerra e contro l’umanità:

Questa Corte ha più volte affermato che la garanzia della tutela giurisdizionale dei diritti assicurata dall’art. 24 Cost. comprende anche la fase dell’esecuzione forzata, in quanto necessaria a rendere effettiva l’attuazione del provvedimento giudiziale (sentenze n. 140 del 2022, n. 128 del 2021, n. 522 del 2002 e n. 321 del 1998); e ciò è tanto più vero quando leso è un diritto fondamentale (art. 2 Cost.). Per altro verso, costituisce un principio dell’ordinamento giuridico il rispetto dei vincoli derivanti dagli obblighi internazionali e quindi dai trattati (sentenza n. 102 del 2020), le cui disposizioni – secondo la giurisprudenza di questa Corte a partire dalle note sentenze n. 348 e n. 349 del 2007 – sono finanche elevate a parametri interposti della legittimità costituzionale della normativa interna (art. 117, primo comma, Cost.). La disposizione censurata opera un non irragionevole bilanciamento tra questi principi, tutti di rango costituzionale21.

Da un lato la giustizia per le persone, dall’altro le relazioni internazionali, cioè la ragion di Stato, gli arcana imperii, le cancellerie, il potere e i suoi segreti. La legge ha fatto un bilanciamento e va bene così. Il bilanciamento si ripresenta, nella sentenza, sia connesso al fondo-ristoro sia in relazione agli articoli 3 e 111 della Costituzione:

L’assoluta peculiarità della fattispecie, che vede la necessità di bilanciamento tra l’obbligo di rispetto dell’Accordo di Bonn del 1961 e la tutela giurisdizionale delle vittime dei suddetti crimini di guerra, costituisce ragione giustificatrice sufficiente per una disciplina differenziata ed eccezionale, la quale – per tutto quanto sopra argomentato – segna un non irragionevole punto di equilibrio nella complessa vicenda degli indennizzi e dei risarcimenti dei danni da crimini di guerra»22.

Quell’insistito «non irragionevole», con la doppia negazione, dà il timbro del provvedimento. Per questo, come è stato notato da un autorevole osservatore, l’Accordo di Bonn ha un ruolo di deus ex machina nella logica della decisione, nel senso che fa da «parametro interposto» nel bilanciamento di principi costituzionalmente rilevanti23.

Proprio sull’Accordo di Bonn. Va ribadito – la Corte ne dà conto – che in realtà gli Accordi sono due, entrambi conclusi il 2 giugno 1961: uno è l’Accordo per il regolamento di alcune questioni di carattere patrimoniale, economico e finanziario, reso esecutivo col d.p.r. n. 1263 del 1962; l’altro è l’Accordo per gli indennizzi a cittadini italiani colpiti da misure di persecuzione nazionalsocialiste, reso esecutivo con la legge n. 404 del 1963. Nessuno dei due permette di considerare estinti i crediti nei confronti della Germania, e questo è certo sin dal primo grado nel processo su Civitella24. Inoltre il decreto-legge del 2022 e la sentenza della Corte costituzionale non hanno fatto riferimento allo stesso Accordo, e così hanno creato una certa confusione, subito notata dalla dottrina25. È stato anche osservato:

Pare difficile orientarsi nella selva oscura che circonda gli Accordi di Bonn, divenuti ora molto misteriosi. La conclusione che sembra più plausibile, cioè che nessuno dei due riguardi molte delle vittime italiane di crimini di guerra e contro l’umanità, appare contraddetta sia dalla sentenza 159/2023, sia dalla legge 79/2022, che, a loro volta, si contraddicono l’una con l’altra quanto alla scelta dell’accordo pertinente26.

Sul ruolo della Cassazione. La Consulta ritiene che l’orientamento delle sezioni unite civili sia stato «smentito» dalla Corte internazionale di giustizia; in realtà la Corte dell’Aia non può smentire la Cassazione, ma solo intendere diversamente il diritto internazionale, ed eventualmente considerare lesiva del diritto internazionale la posizione dell’Italia; è quanto è stato fatto nel 2012, proponendo un’interpretazione che la Cassazione, dopo, ha ritenuto non vincolante27.

Ancora. La decisione della Corte trascura il segno politico dell’origine dei crediti: stragi e deportazioni furono armi contro la formazione di un’Italia nuova, ostacoli sul cammino fra la caduta del fascismo e la Liberazione che portò alla Costituzione. Una presa in carico del debito mediante il fondo-ristoro, che comporta un beneficio per lo Stato allora occupante, apre molti interrogativi.

Per inciso, nessuno dei componenti della Corte, in questa decisione, partecipò a quella del 2014. Si nota soprattutto l’assenza di Giuseppe Tesauro, allora presidente e redattore, che in seguito si espresse con convinzione per la giustizia28. A differenza che nel 2014, nella decisione del 2023 la Consulta è presieduta da una donna, e mentre nel 2014 c’era una sola giudice, in questa ce ne sono tre. Considerando che le donne sono più esposte ai crimini di guerra e contro l’umanità, se qualcuno si aspettava maggiori aperture, probabilmente sopravvalutava l’elemento di genere nella sostanza delle più importanti decisioni.

Quanto alla realizzazione dei crediti, c’è un’affermazione impegnativa: «Al decreto interministeriale, poi, sono state demandate le “modalità di erogazione” – non già la rimodulazione quantitativa – degli importi agli aventi diritto. […] Ciò conferma ulteriormente la prospettiva di piena esecuzione della sentenza passata in giudicato»29. La Corte ribadisce il concetto:

Non c’è un diritto a un mero indennizzo in sostituzione del risarcimento del danno. Né è previsto un meccanismo di riparto delle somme disponibili, come quello contemplato dall’art. 10 del d.P.R. n. 2043 del 1963 per il calcolo della quota personale di ciascun richiedente ammesso alla ripartizione dell’importo complessivo erogato dalla Germania in esecuzione dell’Accordo di Bonn del 1961. È prescritto, invece, un soddisfacimento integrale del credito risarcitorio. […] L’estinzione ex lege dei giudizi in sede esecutiva, ai quali comunque si applicherebbe l’immunità ristretta degli Stati quanto ai beni pignorabili, è compensata dalla tutela riconosciuta nei confronti del Fondo, che è di pari importo e anzi soddisfa maggiormente le aspettative dei creditori (eredi delle vittime dei crimini di guerra) perché non c’è l’incertezza legata all’operatività dell’immunità ristretta degli Stati in sede esecutiva30.

Soddisfacimento integrale, allora, secondo la sentenza (in questo, conforme a dichiarazioni dell’Avvocatura dello Stato in udienza). Un’asserzione, secondo una pronuncia recente di merito, spendibile a sostegno di un’interpretazione favorevole alle azioni esecutive dei creditori stranieri31. Anche la dottrina sta facendo assegnamento sul pagamento pieno. Così, l’osservatore già citato ha preso atto del «diritto a un risarcimento integrale»32. Si è anche scritto:

Se pare non esservi più alcun dubbio sulla possibilità che il Fondo eroghi l’intero quantum dei risarcimenti (sarebbe quanto mai inverosimile un revirement rispetto alle dichiarazioni dall’Avvocatura durante l’udienza dinanzi alla Consulta!), si potrebbe tuttavia anche sostenere che la decisione della Corte vincoli ora l’azione statale33.

Quel si potrebbe segnala i dubbi. C’è da chiedersi che succederebbe, se gli stanziamenti non bastassero o se le resistenze a pagare in base a titoli esecutivi – alcune si sono già manifestate – prevalessero sui crediti. In che modo i familiari delle vittime potrebbero invocare le rassicurazioni della Consulta? o l’inverosimiglianza di un revirement dell’Avvocatura dello Stato? Sono alcune delle domande che al momento non hanno risposta. Un altro interrogativo, che la rimessione non ha posto perché è stata formulata in un processo di esecuzione, cioè basato su un credito già oggetto di giudizio, potrebbe riguardare la legittimità del divieto di cominciare nuovi processi di cognizione nei confronti della Germania, sia per i creditori stranieri sia per quelli italiani.

La vertenza dovrà ancora avere sviluppi.

 

1 Corte cost. 21 luglio 2023, n. 159, presidente Silvana Sciarra, redattore Giovanni Amoroso.

2 Corte cost. 22 ottobre 2014, n. 238, presidente redattore Giuseppe Tesauro.

3 Sulla complessiva vertenza mi permetto di rinviare a Luca Baiada, Elena Carpanelli, Aaron Lau, Joachim Lau, Tullio Scovazzi, La giustizia civile italiana nei confronti di Stati esteri per il risarcimento dei crimini di guerra e contro l’umanità, Editoriale Scientifica, Napoli 2023.

4 Trib. Roma, ufficio esecuzioni immobiliari, 21 novembre 2022.

5 «In data 20 gennaio 2023, è stata depositata opinione amicus Curiae del Gruppo di sopravvissuti e di familiari vittime strage di Mommio 4-5-maggio 1944», Corte cost. 21 luglio 2023 n. 159, par. 5 delle considerazioni in fatto.

6 Corte cost. 21 luglio 2023 n. 159, par. 7 delle considerazioni in fatto.

7 Corte cost. 21 luglio 2023 n. 159, paragrafi 3.1 e 3.2 delle considerazioni in diritto.

8 Decreto-legge n. 132 del 2014, convertito con la legge n. 162 del 2014.

9 Corte cost. 21 luglio 2023 n. 159, paragrafi 5 e 6 delle considerazioni in diritto.

10 Corte cost. 21 luglio 2023 n. 159, par. 8 delle considerazioni in diritto.

11 Corte cost. 21 luglio 2023 n. 159, par. 8 delle considerazioni in diritto.

12 Corte cost. 21 luglio 2023 n. 159, par. 9 delle considerazioni in diritto.

13 Accordo sui debiti esteri tedeschi, Londra 27 febbraio 1953 (Agreement on German External DebtsAbkommen über deutsche Auslandsschulden o Londoner Schuldenabkommen, LSCHABK), ratificato in Italia con d.p.r. n. 1712 del 1965.

14 Trib. Firenze, 2 luglio 2023, dep. 3 luglio 2023 n. 2064.

15 Cass. 21 ottobre 2008, dep. 13 gennaio 2009, n. 1072, pp. 20-22. Il ricorso per cassazione proposto dalla Germania, di 43 pagine, invoca tutti gli strumenti e gli argomenti di diritto internazionale che ritiene favorevoli.

16 Corte cost. 21 luglio 2023 n. 159, par. 10 delle considerazioni in diritto.

17 Negli anni Settanta e Ottanta Nella misura in cui è il titolo di libri e di un film. Chi scrive ricorda uno slogan, scandito nel 1977 da gruppi del movimento, per sbeffeggiare il lessico usuale della sinistra, specialmente quello delle assemblee e dei capetti: «Compagni / cioè / nella misura in cui! / Compagni / cioè / nella misura in cui!».

18 Corte cost. 21 luglio 2023 n. 159, par. 10 delle considerazioni in diritto.

19 Mi permetto di rinviare a Luca Baiada, Diritti negati alle vittime delle stragi nazifasciste, «il Fatto Quotidiano», 9 luglio 2023, p. 15.

20 Corte cost. 21 luglio 2023 n. 159, paragrafi 10-11 delle considerazioni in diritto.

21 Corte cost. 21 luglio 2023 n. 159, par. 13 delle considerazioni in diritto.

22 Corte cost. 21 luglio 2023 n. 159, par. 18 delle considerazioni in diritto.

23 Tullio Scovazzi, Un passo avanti in un contesto complesso, di prossima pubblicazione nel n. 4/2023 della «Rivista di Diritto Internazionale».

24 Trib. mil. La Spezia, 10 ottobre 2006, dep. 2 febbraio 2007 n. 49.

25 «Peculiare è il fatto che la Corte abbia fatto specifico riferimento all’Accordo di Bonn reso esecutivo con L. 6 febbraio 1963, n. 404, sostenendo come questo rilevasse maggiormente nel giudizio. […] L’art. 43 afferma invece di voler dare continuità all’Accordo di Bonn reso esecutivo con d.P.R. 14 aprile 1962, n. 1263. […] La decisione dei giudici costituzionali non sembra dunque porsi in perfetta armonia con quanto espressamente richiamato dall’art. 43», Giorgia Berrino, La decisione che ci aspettavamo (o quasi): sulla sentenza della Corte costituzionale del 4 luglio 2023, n. 159, tra condanne al risarcimento dei danni per crimini nazisti, preclusione dell’esecuzione forzata e fondo ristori, 7 agosto 2023, www.sidiblog.org, par. 8.

26 Scovazzi, Un passo avanti in un contesto complesso, cit.

27 Cass. 30 maggio 2012, dep. 9 agosto 2012, n. 32139, p. 19: la Cassazione decide conformemente all’Aia, ma «nella evidenza della totale autonomia della funzione giurisdizionale – e pertanto della piena libertà di decidere della Corte di legittimità che di essa è massima espressione – da vincoli diretti e immediati scaturenti dal dictum della Corte internazionale».

28 Un’esplicita presa di posizione di Tesauro è nel convegno della Fondazione per la critica sociale Stragi e deportazioni nazifasciste: per la giustizia e contro l’ambiguità, in Senato, 7 marzo 2019, www.youtube.com/watch?v=gpDYeJPX4gU.

29 Corte cost. 21 luglio 2023 n. 159, par. 16 delle considerazioni in diritto.

30 Corte cost. 21 luglio 2023 n. 159, par. 17 delle considerazioni in diritto.

31 Trib. Roma 20 settembre 2023, dep. 22 settembre 2023 n. 13452.

32 Scovazzi, prima intervistato da Massimiliano Boni, Dopo la sentenza della Corte costituzionale l’Italia non può più tirarsi indietro, 31 luglio 2023, in «Riflessimenorah.com», poi con Un passo avanti in un contesto complesso, cit.

33 Berrino, La decisione che ci aspettavamo (o quasi), cit., par. 9.

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Una marcia resistibile? https://www.ilponterivista.com/blog/2023/11/27/una-marcia-resistibile/ Mon, 27 Nov 2023 15:59:20 +0000 https://www.ilponterivista.com/?p=4044 Leggi tutto "Una marcia resistibile?"]]> Durante la campagna elettorale la Meloni aveva annunciato tra gli obiettivi del suo futuro governo l’istituzione del premierato o del presidenzialismo, rimanendo nel vago su quale prediligere, essendo solo importante che il candidato fosse comunque eletto dal popolo.

Dopo qualche mese, a Sabino Cassese viene chiesto un parere in proposito e l’illustre giurista indica le sue preferenze per un premier che non sia un «primus inter pares, ma sia invece in grado di dismettere i ministri», mentre il presidente della Repubblica potrebbe «mantenere un potere di orchestrazione»; il problema principale è però quello di «assicurare più durata e più coesione» al governo e poiché «l’obiettivo primario del presidente del Consiglio è rendere più stabile l’esecutivo, bisogna lavorare per questo» («la Repubblica», 08.05.2023).

Il discorso è in parte ambiguo ( quali «poteri di orchestrazione» il capo dello Stato manterrebbe una volta consentito al presidente del Consiglio di rimuovere i ministri a suo piacimento?); ma il messaggio politico è invece assai chiaro: bisogna sostenere il governo Meloni, perché animato dalla volontà di perseguire quel meritevole e condiviso obiettivo; la natura di questo esecutivo, lo spessore politico dei suoi componenti, il contesto cioè in cui la riforma si inserisce non sembrano avere per il giurista alcuna rilevanza. Cassese, del resto, ha già dimostrato di condividere in pieno l’ansia riformatrice di questo governo, avendo accettato, a marzo, di presiedere il Comitato dei 61, incaricato di “accompagnare” il varo dell’altro caposaldo in agenda, il progetto di autonomia differenziata delle Regioni.

Senonché in agosto, quando ai media viene consegnata la bozza di riforma del premierato elaborato negli uffici della ministra delle Riforme Elisabetta Casellati, ogni ambiguità si dissolve e il progetto rivela il suo fine ultimo, l’ attacco diretto ai poteri del presidente della Repubblica: lo schema prevede, infatti, che il premier sia eletto direttamente dai cittadini se votato al primo turno dal 40% degli elettori, altrimenti dopo il ballottaggio; si suggerisce il varo di una legge elettorale che favorisca «la formazione di una maggioranza in entrambe le Camere, collegata al presidente del Consiglio»; a quest’ultimo viene attribuito il potere di nomina e di revoca dei singoli ministri e a lui spetta, di fatto, la decisione di sciogliere il Parlamento, a seguito della votazione di sfiducia anche a opera di una sola Camera: del potere di orchestrazione del presidente della Repubblica, ovviamente, non c’è più traccia.

Il progetto, fatto circolare in bozze per testare i sondaggi, indica, senza più remora alcuna, la via per stravolgere il dettato costituzionale e trasformare il governo parlamentare in una sorta di dittatura della maggioranza. A questo punto Cassese, sul «Corriere» del 27.08, manifesta tutto il suo stupore, perché «nessuno pensava che un governo stabile, da comitato direttivo della maggioranza parlamentare potesse assumere esso stesso la funzione di adottare le leggi», in un contesto in cui alle «forze di opposizione viene sottratta l’arena del dibattito, la possibilità di esercitare un’influenza, in ultima istanza la dialettica democratica».

Bene, questa è dunque l’attuale linea di tendenza: ma perché tanto, tardivo, stupore?

Non era forse questo l’esito da molti auspicato sin da quando, alla metà degli anni settanta, è cominciata a crescere ed è poi diventata egemone l’ideologia della governabilità, intesa come reazione necessitata dall’eccesso di domande provenienti dal basso, che ponevano in difficoltà il funzionamento dei governi e che perciò dall’alto dovevano essere regolate?; analisi sociologiche, riflessioni politiche, scelte istituzionali si sono così intrecciate nel tempo, supportandosi a vicenda, essendo funzionali alle esigenze e alle aspettative di uno sviluppo economico che si voleva liberare da tutta una serie di lacci e lacciuoli (e non a caso, i vari Hayek e Friedman, alfieri di questo nuovo corso, erano stati immediatamente premiati col Nobel).

Su queste premesse si è poi sviluppata, in Italia, quella lunga rivoluzione passiva che ha determinato il progressivo svuotamento delle istanze e delle rivendicazioni che alcuni partiti, sindacati e movimenti avevano posto, proprio negli anni settanta, all’ordine del giorno.

Il primo segno della avviata mutazione è stato il prevalere dei decreti legge sulla legislazione ordinaria, fenomeno già risalente ai tempi di Andreotti e Craxi, ma che nell’età di Berlusconi è diventato prassi abituale; un processo che si è sviluppato poi, in negativo, con la sistematica applicazione del voto di fiducia (per sopprimere eventuali dissensi tra gli alleati di governo), con i maxi-emendamenti (per vanificare ogni discussione con l’opposizione), tanto che il Parlamento alla fine si è ridotto a un monocameralismo di fatto (la legge votata faticosamente da una delle due Camere, viene poi approvata dall’altra in poche ore, senza possibilità di modifiche).

Il Parlamento ha avallato tutto senza reagire, prima di precipitare, nell’età di Berlusconi, in subordinazioni avvilenti (il voto delle leggi ad personam, il sit-in dei deputati davanti al Tribunale di Milano, ecc.); l’oligarchia nei partiti è stata favorita dal principio maggioritario, che, restringendo l’offerta politica, ha volutamente prodotto l’assenteismo di milioni di elettori via via non più rappresentati; ed è stata poi esaltata dalla legge di Calderoli che ha trasformato i candidati dei partiti alle elezioni in nominati dai segretari, legge che nessuno ha poi inteso modificare.

Dopo la crisi economica del 2008, la caduta del governo Berlusconi e l’austerità introdotta dal governo tecnico di Monti, la democrazia procedurale ha registrato l’oscillazione di un elettorato impaurito, che si è rivolto dapprima al Pd di Renzi (quando ancora vi era memoria dei disastri compiuti dal governo di destra), poi, col passare del tempo, ai grillini di Conte e alla Lega di Salvini; infine, vi è stata la “stabilizzazione” operata dall’esecutivo di Draghi, che ha messo al sicuro, cioè lontano da ogni tentazione redistributiva, il “tesoro” elargito dall’Europa a seguito della pandemia e ha offerto, al tempo stesso, il redditizio monopolio dell’opposizione al partito della Meloni: il vento di destra è così tornato a soffiare e, attorno alla tradizionale compagine di ex/post-fascisti sopravvissuti al Msi, ha fatto confluire gli elettori in libera uscita da Lega e Forza Italia, relegando il Pd e il Movimento 5 Stelle a una sterile opposizione.

È dunque nel contesto politico e istituzionale consolidatosi al termine di questo lungo processo che vanno valutate le proposte di riforma che la destra di governo pone oggi in agenda. Ma, se vogliamo coglierne il disegno complessivo, non possiamo fermarci a considerare l’attacco alle funzioni del capo dello Stato previsto nella bozza Casellati sul premierato e la disgregazione dell’unità nazionale perseguita da quella di Calderoli sull’autonomia differenziata; dobbiamo procedere oltre e considerare la sorte che si vuole riservare agli altri “contrappesi” che la Carta del ’48 ha previsto per equilibrare i vari poteri dello Stato e per impedire a un qualsiasi governo di fuoriuscire dalla legalità: e uno di questi, il più diffuso nel territorio, è costituito dalla Magistratura.

Contro di essa, come si sa, l’ imprenditore che, divenuto presidente del Consiglio, ha governato in primo luogo in difesa dei propri interessi, ha ingaggiato una ventennale lotta, delegittimandola di continuo grazie ai media posseduti e a quelli postisi al suo servizio: protetto da questo potere mediatico, il presidente imputato ha potuto così vestire i panni della vittima delle “toghe rosse” (Di Pietro?, Davigo?), consolidando i consensi e ricompattando gli alleati a difesa di un leader «ingiustamente perseguitato».

Poteva sembrare un caso irripetibile, ma lo è stato solo per alcuni risvolti particolarmente indecorosi (la votazione sulla nipote di Mubarak, le “cene eleganti”, ecc.); in realtà la strategia adottata da Berlusconi ha fatto scuola, è divenuta un autentico laboratorio, cui hanno attinto i presidenti di altre celebrate democrazie; sia Trump, processato per sovversione, frode e altro, che Netanyahu, imputato da anni per corruzione, si sono infatti dichiarati «vittime» di attacchi da parte della magistratura e sono sostenuti per questo da elettori sempre più fidelizzati.

Il fatto è che, al di là delle specificità del caso Berlusconi, le lotte ingaggiate da questi leader contro la magistratura hanno posto in evidenza un dato strutturale delle odierne democrazie: una volta che regole e principi vengano a collidere con le esigenze di chi è deciso a governare senza mediazioni di sorta, tutto il sistema di pesi e contrappesi entra in fibrillazione e tra questi il primo a entrare in sofferenza è proprio il controllo della giurisdizione sull’Esecutivo.

La governabilità, dunque: nata, come visto, per arginare e reprimere le istanze provenienti dall’esterno e dal basso, è diventata ora intollerante anche nei confronti dei controlli provenienti dall’interno stesso delle istituzioni; la trasformazione della democrazia procedurale in democrazia decidente prende così corpo attraverso la progressiva erosione delle articolazioni dello Stato di diritto; e questa linea di tendenza trova conferma nei mutamenti in corso anche in altri paesi europei, quali l’Ungheria e la Polonia, dove, indipendentemente dall’esistenza di accuse penali mosse ai singoli leader, i governi hanno preventivamente messo in cantiere riforme che vincolano, in vari modi, la magistratura all’Esecutivo.

In Ungheria, la riforma già attuata del sistema giudiziario ha avuto come «effetto principale, se non obiettivo primario, quello di pregiudicare l’indipendenza della magistratura e di consentire ai rami legislativi ed esecutivi di interferire nell’amministrazione della giustizia» (così la Risoluzione del Parlamento europeo del 15.05.2022); in Polonia, la legge 28.01.2016 ha incorporato la Procura generale nel ministero della Giustizia, ha stabilito che il Procuratore sia nominato dal leader del partito vincitore delle elezioni e gli ha conferito il potere di emettere linee guida per determinati casi, modificare o revocare i provvedimenti presi dai procuratori in sottordine, riducendo così in radice i possibili controlli sull’operato del governo.

Anche la Meloni, proiettata a suo tempo da Trump a livello internazionale e da anni ormai alleata in Europa con i “conservatori” di Polonia e Ungheria, giunta al governo alla guida di una coalizione di destra, si è trovata di fronte a questo problema e ha subito cercato di venirne a capo.

Innanzitutto con la scelta mirata del ministro della Giustizia: per tale carica la presidente del Consiglio ha nominato Carlo Nordio, un ex Pubblico Ministero di Venezia che, quando indossava la toga, non aveva mai fatto mistero delle sue convinzioni ideologiche (ma, non essendo queste di sinistra, nessuno lo aveva mai inserito tra i magistrati politicizzati) e che per anni aveva fustigato la corporazione di appartenenza per le asserite deviazioni, con libri e articoli apparsi su vari quotidiani.

In aprile era avvenuto il primo scontro: il dipartimento di Stato americano si era lamentato perché un cittadino russo, in attesa di estradizione in quel paese e ristretto in Italia agli arresti domiciliari con braccialetto elettronico, era evaso rendendosi irreperibile (come altre volte era accaduto in passato, con altri cittadini stranieri, senza che vi fossero state reazioni di sorta). La reprimenda dell’Alleato aveva, invece, questa volta, creato un grande imbarazzo nel governo e Nordio, alla ricerca di un capro espiatorio, aveva promosso un’azione disciplinare contro i giudici che, anziché incarcerare l’estradando, gli avevano applicato la detenzione domiciliare; e li aveva incolpati «di non aver valutato» elementi che «se opportunamente ponderati, avrebbero potuto portare a una diversa decisione» («Corriere della sera», 20.04.2023).

Una simile iniziativa – l’indicazione ministeriale di come avrebbero dovuto decidere i giudici e l’annunciata azione disciplinare – è parsa un’autentica invasione di campo; a giudizio delle Camere Penali, tradizionali alleate di Nordio in tante battaglie, un atto contenente «un forte elemento di intimidazione» nei confronti dei magistrati; per altri, con maggior enfasi, «un attacco mai visto alla libera magistratura» («La Stampa», 21.04.2023).

Ma non è stato che l’inizio.

La Meloni, infatti, dopo aver alimentato i consensi promettendo fantomatici blocchi navali in grado di arrestare l’immigrazione e aver constatato poi che le persone attraversavano il deserto e salivano sui barconi non a causa del “buonismo” dei precedenti governi, ma perché spinti dalla necessità di sfuggire alla fame e alle guerre, dopo la tragedia di Cutro (76 persone lasciate affogare in mare senza aiuti), aveva emanato una serie di norme volte a perseguire gli scafisti «in tutto il globo terracqueo», aggiungendo così nuova propaganda a quella precedente rivelatasi fallimentare.

Quando, però, una giudice di Catania, Iolanda Apostolico, non ha convalidato l’arresto di alcuni migranti, spiegando che i provvedimenti varati dal governo non erano in linea con la normativa europea, subito è partito un attacco concentrico nei confronti della magistrata, guidato, questa volta, dall’esperto in materia, Matteo Salvini.

Questi – come ha ricordato agli smemorati Domenico Gallo – quando era ministro dell’Interno, aveva chiesto ai suoi uffici di «tracciare» le uscite pubbliche di tre magistrate, Matilde Betti, Luciana Breggia e Rosaria Trizzino (che avevano preso dei provvedimenti corretti, ma sgraditi al governo, sempre in materia di immigrazione), al fine di individuare possibili elementi negativi (non rinvenuti) per delegittimare le loro decisioni. Ora, da ministro dei Trasporti, ha ottenuto da un carabiniere (?) la registrazione (fatta a scopo amatoriale?) di una pubblica riunione indetta cinque anni fa, sulla banchina del porto di Catania, da alcune associazioni per protestare contro il sequestro dei migranti sulla nave Diciotti disposto allora dallo stesso Salvini (prosciolto poi, da tale reato, per mancanza dell’autorizzazione a procedere, negata ai giudici dal Senato). In tale filmato, tra il pubblico, si scorgeva l’Apostolico presente tra i manifestanti e tanto è bastato per suscitare la gazzarra tra le file della destra.

Nessuno tra gli improvvisati e spesso esagitati censori ha spiegato perché il provvedimento, motivato con ricchezza di argomenti dall’Apostolico, fosse errato e perciò censurabile; secondo loro, evidentemente, i giudici non debbono interpretare la legge, ma applicarla secondo i desiderata del governo; di conseguenza ritengono superfluo valutare la motivazione del provvedimento, considerano invece decisivi i “precedenti pubblici” del magistrato e, se critici nei confronti delle politiche dell’Esecutivo, deducono automaticamente l’erroneità di quella decisione.

Dopo il “consiglio” su come scrivere le sentenze, ora è seguito quello su come comportarsi in pubblico, pena la gogna sui media, accompagnata, in questo caso, dalla richiesta di dimissioni. Sono ormai lontani i tempi in cui un ministro della Giustizia, il liberale Vincenzo Arangio Ruiz, il 06.06.1944, rimuoveva per i magistrati il divieto di fare politica perché «dentro o fuori i partiti, il giudice non potrebbe non avere le sue opinioni e relazioni, tanto più efficaci queste, quanto più nascoste». Oggi, non sono più le opinioni occulte, ma quelle liberamente manifestate dal magistrato che sembrano costituire un problema, ma solo s’intende, se dissonanti dall’ideologia al momento prevalente.

Ma è il terzo passaggio di questo processo che merita la maggiore attenzione.

Avendo il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro consegnato al collega di partito Giovanni Donzelli la registrazione delle conversazioni intercettate, in carcere, tra Cospito e alcuni detenuti mafiosi – documentazione usata dal predetto alla Camera per un attacco un po’ smodato contro il Pd («Siete con lo Stato o con i terroristi?») – il solo Delmastro era finito indagato per rivelazione del segreto d’ufficio.

Malgrado Nordio si fosse affrettato a dire che le notizie divulgate non erano segrete, il P.M. romano, titolare del fascicolo, era andato di diverso avviso; tuttavia aveva chiesto l’archiviazione del procedimento, ma solo perché l’indagato aveva equivocato sulla natura di quei documenti; ma il Gip, ritenendo poco credibile che un avvocato penalista, responsabile della giustizia del partito della presidente del Consiglio e sottosegretario alla Giustizia potesse essere caduto in un simile errore, aveva ordinato di conseguenza al P.M. di disporne «l’imputazione coatta», come previsto dalla legge in simili casi.

Questa volta era la Meloni che, già irritata per le accuse mosse da altri magistrati alla Santanchè per possibili reati societari, ma qui preoccupata perché l’indagato era uno dei fedelissimi, autorizzava «fonti di Palazzo Chigi» (!) ad accusare «una fascia della magistratura di svolgere un ruolo attivo di opposizione e di avere deciso così di inaugurare anzitempo la campagna per le elezioni europee»: l’intervento, riprendendo alla lettera il vecchio frasario usato da Berlusconi a proposito delle «toghe rosse» (tali erano, automaticamente, tutti i magistrati titolari di inchieste che lo riguardavano), trasformava quell’interlocutorio provvedimento giudiziario in un atto politico, accusava una «fascia» indeterminata di giudici di essere oppositori del governo e, con un ulteriore salto logico, li vedeva già impegnati in vista delle elezioni del prossimo anno: il conflitto magistratura-politica, secondo la narrazione corrente, entrava così nel vivo.

Per riportare il discorso sul piano “tecnico” e riferendosi alle divergenti valutazioni di giudice e P.M. nel caso Delmastro, intervenivano allora «fonti del ministero della Giustizia» (!) che criticavano l’«imputazione coatta» disposta dal Gip, poiché essendo «il P.M. il monopolista dell’azione penale, razionalmente non può essere smentito da un giudice sulla base di elementi cui l’accusa non crede». Nordio, cultore del diritto anglosassone, aveva sempre sostenuto l’incongruità di tale procedura, perché, a suo dire, pur introdotta dal codice Vassalli, era in contrasto col sistema accusatorio. Ma la norma esisteva e l’intervento “tecnico” ministeriale aveva solo evidenziato come le «fonti di Palazzo Chigi» avessero addebitato strumentalmente intenzioni politiche a un giudice che si era limitato, semplicemente, ad applicare la legge vigente.

Ma questo intervento aveva rivelato qualcos’altro: il riferimento al P.M. monopolista dell’azione penale ad alcuni non aveva rammentato il diritto anglosassone, bensì la “novità” introdotta nel Codice fascista dal ministro Rocco, che, avendo alle sue dipendenze un P.M. «funzionario dell’Esecutivo», aveva abolito ogni controllo del giudice sul suo operato. E agli smemorati qualcun altro aveva ricordato che era stato il governo Bonomi, con la guerra ancora in corso, che si era affrettato a cancellare, col D. Lgs Lgt 14.09.1944, n. 288, quel «marchio del Regime» e a ripristinare la procedura garantista del codice del 2013.

Ebbene, la riproposizione di questo «potere di cestinazione» dell’azione penale da parte del P.M. è diventata oggi un significativo tassello della riforma della giustizia che Nordio ha illustrato nell’estate del 2023; e va letta in stretta relazione con la richiesta della separazione della carriera del P.M. da quella del giudice, separazione che, a suo dire, «significa discrezionalità dell’azione penale e la facoltà del P.M. di ritrattarla» («Corriere della sera», 14.07.2023).

Un tassello dietro l’altro, il quadro d’insieme comincia così a delinearsi.

Un P.M. monopolista assoluto dell’azione penale, collegato alla polizia giudiziaria, ma separato, per formazione e carriera, dagli organi giudicanti, non potrebbe operare in modo indipendente e cioè senza controllo, in una sorta di limbo: sono proprio le tanto invocate esigenze della governabilità che non lo possono consentire, dato che non tutte le azioni penali sono a essa funzionali (in particolare non lo sono quelle che possono incidere sull’economia e sulle pratiche di governo); per questo va introdotta una nuova figura di funzionario, necessariamente risucchiata nella sfera dell’Esecutivo; e a questo punto si coglie anche l’importanza della prevista discrezionalità dell’azione penale, posto che anche questa deve essere governata.

Si comprende così l’ossessione con cui da più parti si vuole formalizzare la separazione delle carriere, una riforma nei fatti già realizzata, grazie ai molteplici paletti via via introdotti (da ultimo anche dalla riforma Cartabia) che hanno reso praticamente irrisorio il numero di passaggi di singoli magistrati da una funzione all’altra: si tratta infatti di uno strumento che i nuovi riformatori intendono utilizzare per scardinare la Costituzione anche sotto un diverso profilo.

Calderone per FI, Stefani per la Lega, Costa per Azione, Giachetti per Italia Viva sono infatti firmatari di altrettante proposte di legge di revisione costituzionale, formalmente indirizzate a realizzare definitivamente la separazione delle carriere (con percorsi professionali diversi, due Consigli Superiori, ecc.), ma sostanzialmente dirette a mutare la composizione stessa del Csm, stabilendo per ciascuno dei due Consigli l’equiparazione numerica tra componenti laici, cioè di nomina politica, e quelli togati, eletti dai magistrati.

In altri termini: per debellare la deprecata politicizzazione delle correnti, la soluzione concordemente adottata è quella di aumentare nel Csm il peso dei partiti e il numero dei loro rappresentanti, al fine di meglio garantire l’indipendenza della magistratura. Ogni commento appare superfluo.

E la Corte costituzionale?

Marta Cartabia, che la Corte ha di recente presieduto, ha segnalato con preoccupazione il pericolo costituito dal fatto «che il malessere endogeno delle democrazie in molti casi si esprime o si accompagna anche con aggressioni alle Corti supreme o costituzionali, che vengono private dei loro poteri e della loro indipendenza» («La Stampa», 22.08.2023).

La preoccupazione è ben fondata e infatti riforme in questo senso in Ungheria e in Israele non sono mancate; ma queste richiedono tempi lunghi e gli esiti sono spesso incerti; Trump, però, ha indicato una via più breve e sicura per ottenere una diversa Corte Suprema, avendone mutato la composizione con nomine mirate e inciso di conseguenza sui suoi equilibri interni. E i risultati si sono subito visti, avendo la nuova Corte abolito le protezioni federali sul diritto ad abortire, le agevolazioni per le minoranze nelle iscrizioni universitarie e affermato il primato della fede religiosa sui diritti Lgbtq.

In Italia le procedure sono diverse, in quanto 5 giudici sono di nomina presidenziale, 5 sono eletti da tutte le magistrature e 5 dal Parlamento, ma di questi ultimi ben 4 verranno a scadere nei prossimi mesi: ciò costituirà, dunque, un ulteriore banco di prova per saggiare la volontà politica di questa maggioranza, che finora ha dimostrato di non darsi limiti nell’occupazione del potere (dai commissariamenti dell’Inail e dell’Inps, all’insediamento in Rai e negli enti culturali, alla sostituzione nei ministeri non dei soli dirigenti apicali, ma di tutti quelli di prima e di seconda fascia, rimpiazzati con personale fidato, ecc.).

Certo, l’occasione è propizia per la trumpiana di casa nostra; ma le incognite sono molte e tra queste vanno annoverati gli esiti incerti delle elezioni in Europa e in America che si terranno l’anno prossimo: saranno questi risultati elettorali, infatti, per le conseguenti ricadute che avranno sulla politica italiana, che ci diranno se la resistibile marcia della destra di Meloni nelle istituzioni potrà continuare ancora indisturbata o registrerà, invece, una battuta d’arresto.

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La bolla mediatica https://www.ilponterivista.com/blog/2023/07/15/la-bolla-mediatica/ Sat, 15 Jul 2023 15:09:28 +0000 https://www.ilponterivista.com/?p=4032 Leggi tutto "La bolla mediatica"]]> Sommersa tra le pagine dedicate alle lettere della Meloni che cerca di far dimenticare quanto sostenuto sino a ieri e quelle riservate ai vari opinionisti del giornale impegnati a spiegarle come deve comportarsi un Europa, è apparsa sul «Corriere» dell’1.4.2023 finalmente una notizia degna di nota: quella relativa alla causa da 1,6 miliardi di dollari intentata da Dominion, produttore di macchine per gli scrutini elettorali, contro Fox News, la rete megafono della campagna di Trump, per i danni arrecati alla società a seguito delle accuse di aver manipolato i dati informatici relativi al voto del 2020.

Ma perché dovrebbe avere importanza per noi una causa civile di risarcimento danni promossa in un tribunale di Delaware, nei lontani Usa?

Per una serie di buone ragioni. Innanzitutto perché riguarda il processo elettorale, ormai unico criterio per valutare la salute della democrazia procedurale che, stante il costituzionalismo egemone, si basa appunto sul voto periodico del cittadino informato; in secondo luogo perché, incidendo sulla credibilità di questo sistema, conferma come il consenso dell’elettore sia stato progressivamente catturato col passaggio da una propaganda che forzava la realtà a una narrazione che la travisa completamente; e, infine, perché dalle carte processuali, solo in parte finite sui giornali, si apprende che gli autori di questo travisamento non avevano semplicemente male interpretato i fatti accaduti, ma li avevano falsificati consapevolmente per incrementare l’audience, favorendo in tal modo il loro sponsor politico, in quel caso David Trump.

Gli sms scambiati tra i più noti conduttori della Fox, da Tucker Carlson a Laura Ingraham, hanno infatti rivelato che pur nutrendo scarsa considerazione per Trump e i suoi avvocati (degli “svitati”), avevano però, con un crescendo di ascolti, dettato loro l’agenda in campagna elettorale, fornendo editoriali dedicati alla sostituzione etnica, alle teorie “complottiste”, all’assedio di minoranze minacciose e alla conseguente necessità di armarsi per resistere alla deriva; prospettando, da ultimo, futuri brogli elettorali prima del voto e scatenando poi la rabbia per la “vittoria rubata”, grazie alla «truffa elettronica delle macchinette di Dominion», una volta resi noti i risultati (con le conseguenze che si sono viste a Capitol Hill).

Il giudice Eric Davies aveva già stabilito che tutte quelle “notizie” erano false; il processo doveva appurare solo se nell’accusa a Dominion vi fosse stata mala fede nel divulgarle: una domanda retorica, peraltro, perché la Fox aveva convinto per mesi i teleutenti del fondamento di quei messaggi e della forza di chi li sbandierava e alla fine non li aveva voluti deludere annunciando la sconfitta del banditore (e causando in tal modo il loro allontanamento dalla rete): quella parola infausta non doveva essere pronunciata, non c’era stata alcuna sconfitta, bensì una vittoria «rubata», conseguenze dell’ennesimo complotto ordito tramite le macchinette di Dominion.

Il processo si presentava, però, denso di incognite: il giudice, infatti, aveva disposto l’imbarazzante convocazione di Robert Murdoch e quella, sorprendente, di un giurista che avrebbe dovuto illustrare il precetto del Primo emendamento della Costituzione americana («Il Congresso non farà nessuna legge diretta a limitare la libertà di parola o di stampa»): si trattava cioè di interpretare una norma fondamentale del costituzionalismo liberale, un compito, questo, denso di rischi, per la difficoltà di stabilire l’ambito di applicazione concreta di quel nobile principio, ma, soprattutto, per il precedente che avrebbe finito per creare, non tanto per i cittadini quanto per i governanti.

In passato il primo emendamento era stato orgogliosamente richiamato dal giudice Hugo L. Black quando la Corte Suprema aveva emesso la sentenza a favore del «New York Times» per la pubblicazione dei The Pentagon Papers sulla guerra decisa dagli Usa nel Vietnam («solo una stampa veramente libera può denunciare con efficacia un inganno in seno al governo»): in realtà quella enfasi era eccessiva, poiché la divulgazione di quegli atti segreti era dipesa soprattutto dallo scontro insorto tra due opposte componenti dell’Amministrazione Usa, contraria l’una e favorevole l’altra al continuo invio delle truppe nel Vietnam, con la prima che aveva giocato la carta dei media. In quel caso il Procuratore generale John Mitchell aveva cercato di aggirare il primo emendamento, rispolverando un articolo di legge sullo spionaggio, ma aveva perso.

I tempi sono cambiati.

Da anni gli Usa si battono per ottenere l’estradizione di Julian Assange, reo di aver pubblicato tramite VikiLeaks informazioni segrete che rivelavano crimini commessi dall’esercito americano nelle guerre in Iraq e in Afghanistan e per questo ristretto da 4 anni nel carcere di massima sicurezza di Belmarsh, in Inghilterra: per lui non viene invocata l’applicazione del Primo emendamento, ma è stata elevata l’accusa di violazione dell’Espionage Act, una legge risalente alla Prima guerra mondiale, che prevede una condanna sino a 170 anni di carcere.

Bene. L’ iniziativa del giudice Davies di dar vita in tribunale a una discussione sui contenuti e i limiti concreti di quella norma costituzionale sembrava utile nella causa Dominion contro Fox, necessaria nel giudizio su Assange, ma entrava in netta collisione con gli interessi dell’Amministrazione americana, che riteneva di essere l’unica depositaria dell’interpretazione autentica di quel principio: così, il giorno in cui il processo doveva iniziare, i due contendenti privati improvvisamente si accordavano, la Fox staccava un assegno di 787,5 milioni di dollari, Dominion accettava la transazione, il giudizio prematuramente si chiudeva e i media non dimostravano più alcuna curiosità per divulgare le altre carte processuali, di sicuro interesse pubblico, ma destinate ormai all’archivio.

Parlare di una causa tra privati non rende bene la sostanza della vicenda: la Fox News Channel è il canale televisivo internazionale con 100 milioni di utenti nella sola America, seconda solo alla Cnn; la Dominion Voting Sistem è l’azienda che gestisce gran parte del voto elettronico negli Usa e nelle elezioni del 2020 ha fornito i suoi servizi a 28 Stati. Si tratta, cioè, di due mega-imprese che forniscono servizi pubblici e che, rispettivamente, contribuiscono a formare l’opinione dei cittadini e che la registrano al momento delle elezioni. La democrazia procedurale, astrattamente, presuppone la correttezza dell’informazione e la regolarità dei conteggi: un tasso di manipolazione è dato per scontato, il peso delle lobbies, pure, la spettacolarizzazione della politica, anche, ma una campagna elettorale condotta all’insegna della “strategia della menzogna”, che coinvolga sia i messaggi che gli esiti certificati del voto, comporta un tale salto di qualità da rendere problematica la credibilità della stesso processo democratico (e questo, a parte le regole elettorali dirette a distorcere la rappresentanza, tali da premiare spesso il candidato meno votato).

Sta di fatto che poco meno della metà degli elettori ha puntato su un candidato che ha sì sviluppato i temi cari alla tradizione conservatrice repubblicana (Dio, Patria e Famiglia), ma li ha accompagnati con menzogne di ogni genere, suscitando paure (dei comunisti, dell’invasione degli immigrati, della sostituzione etnica, ecc.), grazie alla rappresentazione di una realtà parallela e inquietante: una propaganda che ha rimodellato l’ideologia di quel partito (ancora nella primavera del 2021 il 61% dei repubblicani riteneva che le elezioni fossero state truccate), visto che Trump continua a essere il loro leader più votato e che nel Texas, nel giugno 2023, ha inaugurato la nuova campagna elettorale promettendo di liberare il paese da «marxisti, comunisti e drogati» e di «vendicare» i suoi elettori per la «vittoria rubata».

Certo non scopriamo oggi la manipolazione del consenso, la propaganda drogata, la politica spettacolo, ma la novità è costituita dal fatto che la vicenda in esame documenta tutto questo dall’interno, attraverso le voci degli stessi manipolatori delle notizie e ne certifica inoltre l’efficacia, evidenziando come quel falso, pur grossolano, abbia messo solide radici presso gli elettori fidelizzati.

Orbene, è noto che la democrazia procedurale si distingue dalle altre forme di governo per le “elezioni periodiche” che la caratterizzano; ma i suoi stessi sostenitori ritengono necessario per il suo corretto funzionamento che le opinioni degli elettori si siano formate «quanto è più possibile liberamente» (Bobbio), che gli stessi siano perciò in grado di resistere «alle lusinghe di truffatori e maneggioni» (Schumpeter); tutti, poi, convengono nel ritenere che «una democrazia esiste nella misura in cui i suoi ideali e i suoi valori si traducono in realtà» (Sartori).

Guardando da lontano e dall’esterno queste vicende statunitensi, si coglie immediatamente il divario crescente venutosi a creare tra quel modello di democrazia e la sua attuale realizzazione. Stupisce, invece, che per le vicende italiane, a noi molto più vicine, la maggioranza dei votanti condivida la narrazione degli ultimi trent’anni offertaci dai media e la minoranza la ritenga opinabile, ma non falsa; laddove la semplice descrizione dei fatti accaduti in tale periodo evidenzia come quella rappresentazione descriva una realtà virtuale, che quei fatti ha sistematicamente e deliberatamente ignorati.

Eppure, sin dal 1997, Sartori (Homo videns, televisione e post-pensiero) aveva individuato i rischi per la democrazia derivanti da forme anomale di apprendimento («la televisione produce immagini e cancella i concetti», il computer cibernetico, «unificando parole, suoni e immagini introduce realtà simulate»), comportanti un «impoverimento del capire», una crescente «disinformazione», il dilagare di «opinioni etero dirette», con evidenti ricadute sul sistema politico, grazie alle video-elezioni e ai successivi governi «sondaggio-dipendenti».

Un avvertimento irriso, ovviamente, dalla maggioranza andata al potere nel ’94 («le televisioni non spostano voti»), ma, soprattutto, colposamente ignorato da una opposizione che si è subito adeguata (persino l’incandidabilità prevista dalla legge per il proprietario delle televisioni private è stata presa in considerazione).

Non a caso, col primo atto di governo, Berlusconi ha cambiato subito i dirigenti della televisione pubblica, dando così inizio alla bolla mediatica: divulgando, in tal modo, la storia di un imprenditore di successo che scende in campo con la sua azienda per salvare l’Italia dal comunismo; che vuole promuovere una rivoluzione liberale, ma che viene impedito a farla perché attaccato dalla sinistra giudiziaria; che perde le elezioni nel 2006, ma solo perché vi sono brogli e irregolarità nei conteggi; e che nel 2011 si dimette, perché costrettovi da un «colpo di Stato» orchestrato dall’Europa: a questo punto compaiono “documentari” televisivi e libri che parlano non più di uno, ma di «tre colpi di Stato», che vedono implicati, con allusioni varie, Magistratura Democratica, Scalfaro, Draghi, ecc.

Una storia virtuale, perché falsa: nel ’94 non c’era alcun pericolo comunista, la rivoluzione liberale, promossa da un oligopolista televisivo, supportato da neofascisti e secessionisti, era, viste le premesse, solo uno “specchietto per le allodole”; le elezioni del 2006 erano state regolari e Berlusconi era stato semplicemente sconfitto; le dimissioni del 2011 erano dipese dal fatto che se «i ristoranti erano pieni», il paese, con lo spread a oltre 500 punti, era sull’orlo della bancarotta; e quanto all’attacco dei giudici di sinistra, Davigo e Di Pietro nulla avevano a che fare con Magistratura Democratica, tanto da essere inizialmente sollecitati a entrare nel governo del Cavaliere: qualcuno, prima di Trump, aveva dunque raccontato di aver salvato il paese dai comunisti, di aver perso per elezioni irregolari, ecc.

Una storia virtuale, ma, al tempo stesso, “necessaria” per occultare la natura di quel governo, le sue pratiche e le ricadute prodotte sulle istituzioni: lo “scontro magistratura-politica” era l’unico modo per “giustificare” il fatto, unico nella storia delle democrazie occidentali, di tre fondatori del partito guida – Berlusconi, Previti, Dell’Utri – condannati in via definitiva e finiti in carcere per gravi reati (frode fiscale, corruzione in atti giudiziari, concorso esterno con la mafia); cambiare le leggi in otto casi è servito per far prescrivere reati già accertati a carico del presidente del Consiglio; in occasione della corruzione alla Guardia di Finanza, la colpa è ricaduta sui soli collaboratori, condannati ma poi premiati dal dirigente assolto; quando non si sono cambiate le leggi, sotto la guida degli avvocati divenuti parlamentari, si è cambiato il lessico giudiziario, l’innocentismo è stato spacciato per garantismo, le prescrizioni (che attestavano la commissione dei reati) sono diventate, nel linguaggio dei media, sentenze di assoluzione (e Ferrarella, sul «Corriere» del 14.6/.2023, ha fornito un’ampia e accurata sintesi degli sfregi istituzionali compiuti negli anni, una rassegna utile per chi ha perso, o non ha mai coltivato, la memoria dei fatti).

La bolla mediatica non si è arrestata con la “caduta” politica di Berlusconi consumatasi nel 2011, ma è continuata anche dopo la sua condanna definitiva (neppur questa accettata dai “garantisti”), è proseguita con l’offerta fattagli dagli ex vassalli di una candidatura a presidente della Repubblica ed è culminata, in occasione della sua morte, con la proclamazione di un lutto nazionale, prolungato per giorni e giorni in Parlamento, onoranze che nessuno statista italiano ha mai ricevuto nella storia repubblicana.

All’interno di questa bolla mediatica e su queste macerie istituzionali (esecutivo personalizzato, Parlamento umiliato, controlli osteggiati, commissioni per “processare” gli avversari politici, ecc.) – macerie, peraltro, non percepite come tali dalle varie forze di opposizione – ha preso corpo la successione: gli elettori della destra, affascinati più degli altri dalle persone sole al comando – purché impediscano, con qualsiasi mezzo, l’arrivo dei migranti, protestino contro i “poteri forti” e non «mettano le mani nelle tasche degli italiani» (il “pizzo” nella versione più recente) – hanno subìto i governi tecnici, gonfiato e sgonfiato i 5 Stelle, rinforzato e poi abbandonato Salvini, per poi virare verso l’ estrema destra della Meloni.

L’ex ministra di Berlusconi, che ha subito occupato la Rai e gli enti economici di rilievo, che si appresta a sostituire 4 giudici costituzionali “in scadenza” con altrettanti patrioti (qui è stato Trump ha segnare il solco), per poi, come dichiarato, cambiare la Costituzione, ha per ora raccolto e sviluppato l’eredità del Cavaliere.

Il vassallo di ieri ha infatti preso, dopo il voto del 25 settembre, la guida della coalizione. Inutile dire che, cambiata la prospettiva, è cambiata rapidamente la propaganda. Archiviato in silenzio il progetto di legge sulla supremazia del diritto nazionale su quello comunitario, oscurato l’elogio della Russia quale «parte del nostro sistema di valori europei e difensore dell’identità cristiana», lasciata ad altri camerati la teoria complottista della sostituzione etnica pianificata da Soros, la Meloni si è subito sdraiata sulla linea Draghi in politica economica (soldi agli imprenditori perché assumano qualcuno: questa la fine della “destra sociale”) e in politica estera (subordinazione totale agli Usa e alla Nato: questo il punto d’approdo dei sedicenti sovranisti).

Tanto, nella bolla mediatica, si può dire e disdire, a seconda delle circostanze; quel che è importante, è però non uscirne mai, dovendo altrimenti fare i conti con la realtà: solo continuando a vivere in questo mondo parallelo si può considerare normale che fonti del governo, coperte dell’anonimato (sic!) accusino una «fascia della magistratura di svolgere un ruolo attivo di opposizione», solo perché una ragazza denuncia di stupro il figlio della seconda carica dello Stato (e la procura, ovviamente, apre un’indagine) e perché un gip, andando di parere opposto al Pm, ordina l’imputazione coatta di un ministro che aveva rivelato pubblicamente notizie segrete (a riprova dell’inutilità della separazione delle carriere, che si persegue infatti per ben altre finalità).

Dopo di che si dà vita all’ormai noto copione: il governo è vittima della magistratura di sinistra, in Italia impera una «giustizia ad orologeria», sono necessarie riforme per impedire «invasioni di campo», ecc.

Come si vede, niente di nuovo sotto il sole: Berlusconi è vivo e lotta insieme a loro.

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Quali giudici della Repubblica per i crimini internazionali https://www.ilponterivista.com/blog/2023/06/18/quali-giudici-della-repubblica-per-i-crimini-internazionali/ Sun, 18 Jun 2023 14:20:15 +0000 https://www.ilponterivista.com/?p=4025 Leggi tutto "Quali giudici della Repubblica per i crimini internazionali"]]> Il lavoro giudiziario sui crimini internazionali, in Italia, attende un intervento legislativo.

È controverso se lo Statuto di Roma, istitutivo della Corte penale internazionale, imponga a ogni Stato di perseguire questi crimini, per evitare l’intervento della Corte stessa. Una presa di posizione recente rileva l’assenza di un obbligo formale di incorporare nel diritto interno le norme dello Statuto, ma recupera la medesima esigenza con un ragionamento che richiama il Geist des Statutsi. Certamente, è difficile pensare che questo lavoro giudiziario possa essere lasciato tutto alla Corte.

In Italia, la Commissione per elaborare un progetto di codice dei crimini internazionali, presidenti Francesco Palazzo e Fausto Pocar, istituita nel 2022 dal Ministero della giustizia, ha prodotto una relazione e una bozza di codice. Qualunque soluzione sarà scelta sulle norme incriminatrici, è indispensabile decidere a quali uffici giudiziari attribuire le funzioni giurisdizionali. Su questo punto la Commissione ha formulato tre proposte. La prima è attribuire tutti i crimini internazionali alla giustizia ordinaria; questo osservando, fra l’altro, che «l’unitarietà della giurisdizione risponde all’obiettivo di una ineludibile uniformità di trattamento, anche nell’ottica di una più puntuale aderenza agli obblighi internazionali di prevenzione e di repressione». La seconda è attribuire i crimini internazionali commessi da militari alla giustizia militare. La terza è attribuire alla giustizia militare i crimini di guerra, quelli compresi in un articolato, commessi da militari italiani. La prima soluzione è in linea con l’orientamento della Cassazione a sezioni unite, in particolare in una sentenza accurata decisa nel 2021, che ricorda come la giurisdizione militare, quella secondo le norme dell’Italia unita, sia stata estesa nel 1930 e nel 1941, cioè dal fascismo, e ribadisce che la giurisdizione penale va vista nell’insieme, è un sistema chiusoii.

La scelta sulla giurisdizione è basilare: senza uffici giudiziari, niente giustizia. Ma per capire meglio bisogna segnalare ulteriori elementi. Il tema, infatti, tocca il perimetro della giurisdizione militare, obblighi internazionali, esigenze eurounitarie e altroiii.

Il Ministero della difesa nel 2021 ha istituito la Commissione di studio e approfondimento per la riforma del codice penale militare di pace, presidente Michele Corradino. Nella relazione si propone di estendere la giurisdizione militare ad alcuni reati, ma non a quelli contro la persona. La Commissione ha preso atto della contrarietà dell’Associazione nazionale magistrati a un ampliamento della giurisdizione militare in tale direzione, considerando la natura non intrinsecamente militare del bene giuridico protetto e la necessità di lasciare la tutela di interessi fondamentali alla giustizia ordinaria. Effettivamente un parere reso al comitato direttivo centrale dell’Anm dalla quinta commissione, diritto e procedura penale, ha respinto l’impostazione di una delle proposte di legge più significative, la AC 1402, presa a base dalla Commissione Corradino. C’è la preoccupazione che lo spostamento di reati crei disfunzioni, anche perché la tutela dei diritti fondamentali e dei principi costituzionali richiede le competenze, le specializzazioni, la diffusione sul territorio e la stretta relazione con la polizia giudiziaria proprie degli uffici giudiziari ordinari. Invece, fra gli argomenti ricordati dalla Commissione Corradino in favore dell’attribuzione alla giustizia militare di reati contro la persona, c’è una pronuncia della Corte costituzionale secondo cui «la civile convivenza tra militari, soprattutto (ma non solo) nei luoghi militari, costituisce un presupposto essenziale per la […] coesione delle Forze armate» e dunque, in relazione al reato in quel momento all’esame della Consulta, c’è anche l’esigenza «di tutelare il rapporto di disciplina inteso come insieme di regole di comportamento»iv. Ma l’argomento della coesione e della disciplina è difficilmente applicabile ai crimini internazionali a danno di civili; sarebbe anche strano motivare la giurisdizione militare sui crimini internazionali, fatti gravissimi, invocando quella pronuncia, riguardante l’ingiuria.

Si notano la coincidenza e il susseguirsi di più strutture progettuali, dal 2021 a oggi. La Commissione Corradino è istituita il 9 settembre 2021; la Commissione Palazzo e Pocar il 22 marzo 2022; ad agosto 2022 è costituito, presso il Ministero della difesa, il Gruppo di studio per l’allineamento normativo formale e sostanziale dell’ordinamento giudiziario militare con la riforma dell’ordinamento giudiziario ordinario, presidente Corradino. A gennaio 2023 è istituito al Ministero della giustizia il Gruppo di lavoro sul codice dei crimini internazionali, presidente Antonio Mura, per dare attuazione agli obblighi assunti con lo Statuto di Roma. In quest’ultimo Gruppo non ci sono magistrati ordinari in servizio presso uffici giudiziari italiani, presenti invece nella Commissione Palazzo e Pocar, e si rafforza la componente diplomatica. L’unica persona che fa parte contemporaneamente delle quattro strutture qui indicate è il generale Salvatore Luongo, capo dell’ufficio legislativo alla Difesa. Si sono sovrapposti collegi in cui la rappresentanza di magistrati ordinari, fra Ministeri della difesa e della giustizia, non è proporzionata, e sembra che il dicastero della Giustizia abbia più considerazione per quello della Difesa, che viceversa. Eppure, aumentando la giurisdizione militare si riduce quella ordinaria.

A livello di metodo, il rapporto fra crimini internazionali e perimetro della giustizia militare è ovviamente oggetto di attenzione, anche all’estero. Eugene Fidell, fra i più noti esperti di diritto militare negli Usa, scrive:

«The growth of a body of international criminal law through the work of the International Criminal Court (ICC), the International Criminal Tribunal for the Former Yugoslavia, and other international criminal justice bodies provides an additional impetus for countries to adopt a global perspective when considering reform of their military justice systems»v.

Se è così, il lavoro ravvicinato su più progetti non è sbagliato, in linea di principio. Il punto è che si sarebbe dovuto farlo meglio e coordinarlo. Inoltre, una riforma ha bisogno di rilievi su pendenze e flussi di procedimenti, con un’apposita raccolta di dati, che non c’è neanche per i progetti di aumento della giurisdizione militare in genere.

Nell’intreccio fra norme approvate o delegate, gruppi e commissioni, forse pesano veti, preoccupazioni, conflitti di priorità. Di certo, dopo il consiglio dei ministri del 16 marzo scorso, un comunicato governativo ha assicurato: il codice c’è, sui crimini di guerra c’è una «estensione», quelli contro l’umanità sono stralciati. Poi il codice è stato presentato, non è chiaro con quanto approfondimento, in vari incontri internazionali, a cominciare dalla riunione dei ministri della giustizia, a Londra, il 20 marzo. Magistratura democratica ha parlato di «opzione di segno chiaramente regressivo», si è detta contraria alla riduzione della giurisdizione ordinaria e ha auspicato un ripensamento avvertendo un rischio: la «pericolosa tendenza, che si è già evidenziata in altri settori del diritto umanitario, della progressiva sottrazione alla giurisdizione ordinaria della tutela dei diritti fondamentali»vi. Chantal Meloni, componente della Commissione Palazzo e Pocar, stigmatizzando «un’occasione storica mancata», ha ipotizzato che non si voglia legiferare sui crimini contro l’umanità perché potrebbero risentirne i responsabili del trattamento dei migrantivii. Meloni, in precedenza, ha osservato che proprio in Italia, dove fu ospitata la conferenza diplomatica che portò allo Statuto, gli sforzi per una legislazione non hanno avuto successo; fra le cause, ha indicato sia l’instabilità politica sia una possibile riluttanza dell’apparato militare, e delle forze politiche di riferimento, rispetto a una legislazione potenzialmente fonte di responsabilità per i militari italianiviii.

Ricordiamo l’assetto attuale della giustizia castrense. Con la legge n. 244 del 2007 le sedi giudiziarie sono state ridotte da nove a tre: Roma, Verona e Napoli; il ruolo organico dei magistrati militari è stato ridotto da 103 a 58 unità; il Consiglio della magistratura militare (Cmm) è stato ridotto da nove a sette componenti. In seguito, col decreto-legge n. 78 del 2009, convertito con la legge n. 102 del 2009, il Cmm è stato ulteriormente ridotto a cinque. Queste norme sono state riordinate nel codice dell’ordinamento militare. La giustizia militare segue la stessa procedura di quella ordinaria, ma i due insiemi di reati sono ben diversi: quella ordinaria si occupa di un numero enorme di cose, quella militare quasi soltanto dei reati previsti nei codici militari. L’organico dei magistrati militari è centosettanta volte più piccolo di quello dei magistrati ordinari.

I magistrati militari sono equiparati a quelli ordinari per stato giuridico, trattamento e carriera; ma l’autogoverno e l’indipendenza non sono altrettanto garantiti. Per il Consiglio superiore della magistratura la Costituzione prevede due terzi di magistrati eletti; la legge ordinaria attribuisce i provvedimenti sui magistrati militari al Cmm, e fra i suoi cinque componenti i magistrati eletti sono solo due. Le proporzioni sono inconciliabili. Sul punto bisogna tener conto di cosa chiede l’Europa, ricordando che l’indipendenza effettiva dei giudici è valorizzata da sentenze della Corte di giustizia dell’Unione europeaix. In particolare, per i giudici, rilevano: l’European Charter on the Statute for Judges del Consiglio d’Europa, del 1998; l’Opinion n. 10 del 2007, The Council for the Judiciary at the service of society, del Consultative Council of European Judges (CCJE) del Consiglio d’Europa; la Magna Carta of Judges approvata nel 2010 dallo stesso CCJE; la raccomandazione del Consiglio d’Europa sull’indipendenza, CM/Rec (2010) 12, Judges: independence, efficiency and responsibilities – che invoca i Basic Principles on the Independence of the Judiciary approvati dall’Onu nel 1985, contenenti un richiamo alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo – ; la Rule of Law Checklist del 2016 della European Commission for Democracy through Law (Commissione di Venezia); l’Opinion n. 24 del 2021, Evolution of the Councils for the Judiciary and their role in independent and impartial judicial systems, ancora del CCJE. Questi strumenti suggeriscono per i consigli una composizione togata – misurata sui magistrati eletti e non sui componenti di diritto – integrale o di larga maggioranza («substantial majority»); si riferiscono ai giudici, ma in Italia non sarebbe possibile un regime diverso per i pubblici ministeri.

Quanto all’unico laico nel Cmm, che è il vice presidente, è scelto d’intesa fra i presidenti dei due rami del Parlamento, mentre i laici nel Consiglio superiore sono nominati dal Parlamento in seduta comune; per la magistratura militare la nomina è frutto di un’intesa fra due persone e non coinvolge collegi parlamentari.

La presidente di Medel, Mariarosaria Guglielmi, fra i motivi di crisi della magistratura ordinaria, indica «un groviglio pericoloso [un dangereux enchevêtrement] di “nodi venuti al pettine”» e nel «progetto di scardinare le basi del nostro sistema di rappresentanza» individua un capitolo che riguarda il Csm: «Ridurre le sue potenzialità democratiche, insite nella sua fisionomia di organo “rappresentativo” della magistratura (elettivo per i due terzi, secondo la Costituzione) e del pluralismo culturale che la caratterizza»x. Questi tratti della fisionomia, compreso il pluralismo culturale, il Cmm li ha avuti per poco tempo e da anni li ha persi; adesso, poi, si conciliano male col numero di 58 magistrati; può dirsi, rispetto ai problemi della giustizia, che su quella castrense si sia verificato in anticipo «un dangereux enchevêtrement».

Ancora a proposito di diritto eurounitario, Guglielmi scrive:

«Ciò che oggi l’Europa ci chiede è valutare ogni riforma istituzionale alla luce dei principi dello Stato di diritto, come insieme dei valori non negoziabili che sono a fondamento dell’Unione: fra questi, l’indipendenza dei sistemi giudiziari e degli attori della giurisdizione, che deve garantire l’effettiva tutela dei diritti e dei singoli contro ogni arbitrio del potere»xi.

Il diritto eurounitario prende terreno. Ma la magistratura militare non è coinvolta né nel CCJE, Consultative Council of European Judges, né nel CCPE, Consultative Council of European Prosecutors. Quanto all’ENCJ, European Network of Councils for the Judiciary, fra i suoi membri ci sono il Consiglio superiore della magistratura e il Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, mentre il Cmm ha chiesto l’ammissione ma non l’ha ottenuta. Con l’EPPO, la Procura europea, la Procura generale militare in Cassazione ha un accordo di cooperazione dall’11 luglio 2022. L’accordo precisa che «riguarda unicamente le relazioni tra l’EPPO e la Procura generale militare, non è destinato a creare ulteriori diritti e obblighi ai sensi del diritto dell’Unione, e non pregiudica le disposizioni che disciplinano le funzioni dell’EPPO o della Procura generale militare»; quindi, stabilisce una cooperazione ma non aggiunge nulla allo statuto della giustizia militare italiana. Quanto all’EJTN, European Judicial Training Network, per l’Italia ne fanno parte solo il Csm e la Scuola superiore della magistratura. Ma la Relazione sullo Stato di diritto 2022 prende atto della promessa di riforma della giustizia castrense in Italia: «Law n. 71 of 17 June 2022 […] empowers the Government to reform the justice system and adapt the military justice system»xii.

Con specifico riferimento all’attuale consiliatura del Cmm, si notano singolarità. Di norma la consiliatura deve durare quattro anni, ma è già successo che durasse di più. Quella iniziata nel 2013 durò fino al 2019, perché nel 2017, dopo l’elezione regolare dei nuovi togati, i presidenti delle Camere non nominavano il laico. Finalmente, nel 2019, Alberti Casellati e Fico scelsero David Brunelli, accademico ed ex magistrato militarexiii. Nella magistratura ordinaria, se tutti i laici del Csm fossero ex magistrati diventati professori, ci si preoccuperebbe per l’autoreferenzialità della categoria; nell’autogoverno della giustizia castrense la componente laica è costituita da un ex togato. La consiliatura, in scadenza nel 2023, col decreto-legge n. 198 del 2022, un «milleproroghe» convertito con la legge n. 14 del 2023, è stata prorogata, e su questo si può osservare qualcosa.

La conversione del milleproroghe la tratta per primo il Senato, atto 452. In sede consultiva, nel parere della 3ª Commissione, affari esteri e difesa, 18 gennaio 2023, si ricorda che la legge n. 71 del 2022 prevede l’aumento degli eletti nel Cmm per garantire la maggioranza della componente elettiva. In Commissioni riunite, 1ª affari costituzionali e 5ª bilancio, c’è una proposta di emendamento, la 14.4 dei senatori Liris e Lisei (FdI), che porta subito i consiglieri elettivi da due a quattro, fermo il differimento delle elezioni; è dichiarata improponibile, ma poi Liris dice che «c’è stato un esercizio di democrazia, un esercizio di centralità del Parlamento, un ritorno al dibattito». In aula, il milleproroghe passa al Senato senza approfondimento e alla Camera con la fiducia. Il presidente della Repubblica promulga, però in una lettera ai presidenti delle Camere e alla presidente del Consiglio dei ministri stigmatizza l’abuso dei decreti-legge e rammenta il requisito dell’omogeneità di contenutoxiv.

La proroga, nata così fragile, tecnicamente è un differimento del termine entro cui pubblicare il decreto che convoca le elezioni della consiliatura successiva, che viene fissato al 30 settembre 2023. Le elezioni si potranno anche fare dopo, e la prima seduta più in là. Se si tiene conto di cosa è successo dal 2007, col ridimensionamento della componente togata elettiva e con dilazioni di fatto o di diritto, da molti anni il Cmm non è conforme alle previsioni originarie e da due consiliature è in stato di eccezione.

La proroga è anche di opinabile utilità. Il motivo posto a base della norma è l’esigenza di dare il tempo per modificare l’ordinamento giudiziario militare. Infatti, sul punto la legge n. 71 del 2022 prevede una decretazione legislativa e vuole che il numero dei togati eletti salga da due a quattro, «per garantire la maggioranza di tale componente elettiva» (ciò conferma che attualmente la proporzione fra eletti e non eletti è inadeguata). Eppure, malgrado l’istituzione del Gruppo di studio Corradino, la decretazione non è stata fatta né dal governo Draghi né da quello Meloni.

Sempre sulla consiliatura in carica e prorogata: fra i due componenti elettivi c’è un magistrato militare che, in epoca precedente alla consiliatura attuale, rivolgendosi a una collega, ha fatto riferimento con parole e gestualità aggressive a come si sarebbe comportato, lui, se in seguito avesse fatto parte del Cmm; per questo ha ricevuto dalla consiliatura di allora una condanna disciplinare, confermata in Cassazionexv. Verrebbe da chiedersi l’esito, nella magistratura ordinaria, di una sua candidatura al Consiglio; nella magistratura militare è stato eletto. Giuseppe Santalucia al congresso dell’Anm, in quella che ha chiamato «centralità del discorso sull’etica», ha osservato che in una società democratica la giurisdizione si legittima soprattutto per l’osservanza di «regole di condotta, che a ben vedere non sono che la proiezione minuta degli stessi caratteri di imparzialità, neutralità e indipendenza»xvi.

Vanno considerati alcuni tratti della magistratura che esercita la giurisdizione militare.

I magistrati militari hanno un regime più favorevole sulle attività estranee a quelle dell’ufficio di appartenenza; la magistratura ordinaria ha altri vincoli e divieti posti dalla legge e dal Csm. Il diverso statuto dei magistrati militari riguarda l’insegnamento, anche in strutture privatexvii. Quanto agli incarichi nella giustizia sportiva, che è vicina a grandi interessi, sono persino apprezzati dal Cmm per il conferimento di funzioni direttivexviii. L’italiana Figc aderisce alla Fifa; nel 2022, in occasione dei mondiali di calcio, il Parlamento europeo ha approvato una risoluzione che cita proprio quest’ultima: il Parlamento «recalls its long-held view that corruption within Fifa is rampant, systemic and deep-rooted»xix. Ma il problema non è solo questo. È accaduto, che crimini internazionali avessero punti di contatto con vicende coinvolgenti organizzazioni sportive, specialmente calcistiche: per esempio, le violenze alla partita Dinamo-Stella rossa, nel 1990, furono un punto di non ritorno nella dissoluzione della Jugoslavia (vi partecipò anche Arkan, poi criminale di guerra); l’incendio della Casa dei sindacati di Odessa, nel 2014, ha steso un’ombra sulla storia successiva dell’Ucraina, e vi ebbe un ruolo lo sferragliare di tifoserie.

Si verificano passaggi di magistrati militari a incarichi governativi. Non violano la legge e ce ne sono anche fra i magistrati ordinari, però. L’anno scorso, a novembre, Gabriele Casalena è diventato vice capo del dipartimento affari giuridici e legislativi della Presidenza del consiglio; a dicembre Giuseppe Leotta è diventato capo dell’ufficio legislativo del Ministero del lavoro. Due magistrati sono un trentesimo del ruolo: se trecento fra i magistrati ordinari, che sono quasi diecimila, facessero lo stesso, sarebbe una notizia. Leotta nel 2022 era il presidente dell’Associazione nazionale magistrati militari (Ammi), Casalena lo era stato subito prima di lui, e siccome lo era diventato a ottobre 2013, insieme rappresentano nove anni di presidenza durante due legislature e sei governi, con tutto il bagaglio di relazioni, informazioni, esperienze. Il governo Meloni è politicamente molto segnato (è stato detto che «è tornata la politica»); si insedia, e in poche settimane due presidenti dell’Ammi lavorano per l’esecutivo. Non si conoscono precedenti. Non è un precedente, semmai un antefatto, che Leotta, in passato, abbia avuto lo stesso ufficio al dicastero del Lavoro e, prima, funzioni nell’ufficio di gabinetto e nella segreteria tecnica ai dicasteri della Pubblica amministrazione, dell’Ambiente e sempre del Lavoro. È un altro antefatto, diverso, la condanna disciplinare di Casalena, col suo rilievo sulla stampaxx. I presidenti dell’Ammi esprimono la maggioranza dell’associazione; i crimini internazionali sono politicamente connotati ed è bene che siano giudicati senza neanche l’impressione di vicinanze con la politica.

Fra i magistrati militari, quelli che hanno un familiare o più di uno nella struttura sono numerosi, più che nella magistratura ordinaria, e il fenomeno potrebbe intensificarsi. Ci sono coniugi, ex coniugi ma che hanno insieme prole, cognati eccetera. Quest’anno, per la prima volta, l’Ammi, con la nomina di Giovanni Barone, ha un presidente con questa caratteristica, che già riguardava la vice presidente, riconfermata. Il presidente dell’Ammi è cognato di una componente del collegio dei probiviri, che a sua volta ha un vincolo familiare con un’altra componente dello stesso collegio (in tutto, di tre persone). Le due componenti del collegio dei probiviri sono anche in servizio nello stesso ufficio giudiziario, insieme alla vice presidente della stessa Ammi. Quest’ultima sposò un magistrato militare, che adesso è il capo di quell’ufficio, e i due hanno prole. Si potrebbe continuare. E poi, per il futuro: la figlia di un magistrato militare è risultata idonea in un concorso per la giustizia castrense. Potrebbe entrare in ruolo in seguito, se si attingesse a quella graduatoria o con un nuovo concorso; i vincoli familiari arriverebbero a una proporzione che in questo momento non è precisabile.

Premesso che non si dubita della professionalità di questi magistrati e che i legami affettivi sono doni della vita e non colpe, va tenuto conto dei Principi di Bangalore (Bangalore Principles of Judicial Conduct), riconosciuti dall’ECOSOC, United Nations Economic and Social Council, a luglio 2006, come sviluppo dei citati Basic Principles on the Independence of the Judiciary. Così il par. 4.8 dei Principi, sulla propriety: «A judge shall not allow the judge’s family, social or other relationships improperly to influence the judge’s judicial conduct and judgement as a judge». Una regola da rispettare anche quando l’altro familiare è un magistrato, e il Commentario ufficiale ai Principi vigila persino sull’inconscio: «A judge will need to take special care to ensure that his or her judicial conduct or judgment is not even sub-consciously influenced by these relationships»xxi. Inoltre, come si legge nel par. 3.2 dei Principi, sulla integrity: «Justice must not merely be done but must also be seen to be done». Anche l’apparenza è importante. Il punto, insomma, è se sia opportuno attribuire la giurisdizione sui crimini internazionali a una struttura con larga componente familiare, mentre basta scorrere i nomi dei magistrati alla Corte penale internazionale per rendersi conto di tutt’altro. Certo, il momento è benevolo: per la prima volta, l’Italia repubblicana ha due cognati nel governo. Ma la complementarità non si decide a Palazzo Chigi. Vediamola meglio.

Per lo Statuto di Roma l’attività giudiziaria di uno Stato esclude sì quella della Corte penale internazionale, però non se tale Stato non vuole o non può svolgere correttamente le indagini o il procedimento («unless the State is unwilling or unable genuinely to carry out the investigation or prosecution»). È, appunto, il principio di complementarità. Roberto Bellelli, magistrato militare, sulla verifica in tema di inability scrive: «Such assessment […] needs to take into account all specific evidentiary elements provided under a de facto perspective»xxii. De facto significa concretamente, con visione d’insieme sulle possibilità di giustizia interna. Anche Emanuela Fronza, componente della Commissione Palazzo e Pocar, traccia la linea di verifica della complementarità: «[It] must not only consider the peculiarities of international crimes, but also those of the domestic legal framework in which the ICC Statute is to be implemented»xxiii. La questione è se il domestic legal framework italiano si attagli alla giurisdizione militare.

In punto di complementarità, lo stesso procuratore generale militare in Cassazione, Maurizio Block, convinto certamente in buona fede che la giurisdizione militare in Italia dia garanzie e sia conforme alla Costituzione, è al corrente, perché è emerso in Commissione Palazzo e Pocar, del fatto che alla Corte penale internazionale la giustizia militare, in linea di massima, è malvista: «Sono portati a ritenere che ci sia la inability»xxiv. Certo non aiuta, su questo, il ricordo del comportamento della giustizia castrense italiana sulle stragi nazifasciste: subito dopo la guerra pochi processi con esiti concreti, poi il buio, con l’Armadio della vergogna, e dalla seconda metà degli anni Novanta una ventina di dibattimenti, l’ultimo terminato nel 2015, con condanne non eseguite. L’Armadio della vergogna è un caso esemplare di struttura che è stata unwilling o unable, o entrambe le cose. Quanto ai risarcimenti alle vittime, la giustizia militare è sì giunta, nel 2006, alla condanna patrimoniale dello Stato tedesco – contro le conclusioni, in primo grado, del pubblico ministero – ma in seguito, dopo la pronuncia della Corte internazionale di giustizia del 2012 sfavorevole alle vittime, una delibera del Cmm del 2013, successiva a un monitoraggio presso gli uffici giudiziari militari, dal sapore spiacevole, non ha tutelato i cittadini italiani «vittime dei c.d. crimini di guerra» (cosiddetti)xxv. La strada per il disegno di un nuovo orizzonte giuridico da parte della Corte costituzionale, nel 2014, è stata aperta da una rimessione disposta dalla giustizia ordinaria, non da quella militare.

Ancora in considerazione delle parti lese, ma in genere, sulla giurisdizione militare possono esserci perplessità. La Consulta, sulla costituzione di parte civile nel processo penale militare, nel 1989 ha scritto:

«Non può dimenticarsi che, durante la prima guerra mondiale, fu ammessa la costituzione di parte civile dinanzi ai tribunali militari, dapprima a favore della sola amministrazione dello Stato (cfr. decreto legislativo luogotenenziale 21 ottobre 1915, n. 1513) e di poi a favore di qualunque danneggiato (cfr. decreto legislativo luogotenenziale 6 agosto 1916, n. 1024) “per i reati che in tempo di pace” erano “di competenza dei tribunali ordinari”»xxvi.

Il legislatore della Grande guerra si rendeva conto che, se si spostano reati dinanzi ai tribunali militari, bisogna tener ferma la tutela dei danneggiati, anche non militari. Adesso la costituzione di parte civile nei processi militari è possibile; però la tutela dei danneggiati non è come nella giustizia ordinaria, soprattutto per lo statuto dei magistrati e per la rarefazione degli uffici. Il legislatore di oggi non può essere meno attento alle tutele, rispetto a un secolo fa.

In diritto interno, specificamente sull’attribuzione dei reati ascritti ai militari alla giurisdizione militare o a quella ordinaria, la Corte costituzionale ha riconosciuto al legislatore ordinario un margine di sceltaxxvii. Ma sono pronunce remote, decise nel contesto promettente di allora; la più significativa, del 1995, è di poco successiva alla riforma della giustizia militare: da qualche anno esisteva il Cmm, con nove componenti e maggioranza elettiva. Adesso, attribuire i crimini internazionali ai tribunali militari significherebbe sottrarre i processi a magistrati con autogoverno e indipendenza di livello superiore. Inoltre, trattando reati gravissimi, con molti imputati, misure cautelari e sovrapposizioni di fatti, aumenterebbero le incompatibilità: la ristrettezza dell’organico potrebbe creare problemi di composizione del collegio, forse sino all’incompatibilità di tutti i magistrati militari destinabili al giudizio, che sono meno della metà dell’organicoxxviii.

In ambito internazionale, la giustizia castrense va messa a confronto col Projet de principes sur l’administration de la justice par les tribunaux militaires, in breve Principes Decaux o Decaux Principles, dal nome di Emmanuel Decaux. I Principes Decaux sono stati predisposti nell’ambito della Commissione per i diritti umani, all’Onu, nel 2006; la Corte europea dei diritti dell’uomo vi ha già fatto riferimento, ed è stato osservato che in questo modo li ha considerati «droit pertinent», con importanti implicazionixxix. Nell’introduzione dei Principes Decaux si spiega che «il s’agit de règles minimales, de portée universelle, qui laissent la porte ouverte à la définition de normes plus strictes dans le cadre interne»; cioè che sono compatibili con garanzie maggiori, non minori. Principio 9:

«En toutes circonstances, la compétence des juridictions militaires doit être écartée au profit de celle des juridictions ordinaires pour mener à bien les enquêtes sur les violations graves des droits de l’homme, telles que les exécutions extrajudiciaires, les disparitions forcées, la torture, et poursuivre et juger les auteurs de ces crimes».

Per questi gravi crimini, insomma, la scelta sarebbe obbligata. Principio 20:

«Les codes de justice militaire devraient faire périodiquement l’objet d’une révision systématique, de manière indépendante et transparente, afin de veiller à ce que les compétences des tribunaux militaires répondent à une stricte nécessité fonctionnelle, sans empiéter sur les compétences qui peuvent et doivent revenir aux juridictions civiles de droit commun».

È difficile trovare una giustizia distante da questo più di quella italiana, che applica codici fascisti vecchi di ottant’anni.

Sempre in ambito internazionale, quanto al JRR, Justice Rapid Response, il Cmm ha considerato l’eventualità di farvi partecipare i magistrati, ma ha deciso negativamente con una motivazione poco incline alle novità: prestigio, funzionalità e assenza di normexxx.

Proviamo a considerare come la giustizia militare si pone rispetto alla società; per esempio, in tema di genere. Nella magistratura ordinaria le donne presero servizio per la prima volta nel 1965, da molti anni sono titolari di incarichi importanti e alla presidenza della Cassazione c’è una donna (proprio lei ha presieduto l’accurata decisione del 2021 sulla giurisdizione penale). Nella magistratura militare le prime presero servizio nel 1992, e nel 2022, per la prima volta, una donna ha avuto un ufficio semidirettivo. L’Assemblea generale dell’Onu, con la risoluzione 75/274 del 2021, ha istituito il 10 marzo come giornata internazionale delle donne giudici; Medel quest’anno ha osservato: «This day calls us to reflect on the indissoluble link between women’s emancipation, the rule of law and democracy. Gender equality is an essential feature of any modern democratic society»xxxi. In ambito militare il peso delle questioni di genere è notevole: lo confermano le conseguenze politiche, negli Usa, di un documentario sugli stuprixxxii; una vittima, la capitana Anu Bhagwati: «If we don’t care about women and men in the military, than we don’t care about women and men, girls and boys, in our neighborhood back home».

Consideriamo anche come l’autorità politica si pone rispetto alla giustizia militare. Per esempio, quest’anno al Ministero della difesa è stato costituito il Comitato per lo sviluppo e la valorizzazione della cultura della difesa, con giornalisti, economisti, professori, l’Aspen, l’Associazione produttori audiovisivi, l’Associazione Big Data e Leonardoxxxiii. Lo scopo è «creare una mutua contaminazione [sic] reciprocamente vantaggiosa con il mondo civile». Si vuole «comunicazione che valorizzi al massimo le capacità della Difesa», e fra queste le «“funzioni giurisdizionali” mediante le strutture della magistratura militare». Escluso che la giustizia castrense sia coinvolta nel comunicare, valorizzare o contaminare, c’è da domandarsi come le funzioni sui crimini internazionali si concilierebbero con questo modo di intenderla.

Le scelte in tema di crimini internazionali sono serie. Margherita Cassano ha auspicato dalle istituzioni italiane «una risposta unitaria, argomentata, senza gelosie di giurisdizione, perché il nostro obiettivo fondamentale deve essere quello di fornire risposte effettive a tutela delle persone»xxxiv. Fuori discussione le qualità tecniche professionali dei singoli magistrati militari, bisogna tener conto delle caratteristiche della giustizia castrense, rapportate alle esigenze di indipendenza, agli obblighi internazionali ed eurounitari, ai principi costituzionali e a considerazioni di opportunità.

i Maria Crippa, L’approvazione di un codice dei crimini internazionali “dimezzato”. Le ragioni di un (dis)atteso intervento normativo, «www.questionegiustizia.it», 21 marzo 2023: «l’implementazione domestica dei crimini internazionali consente di attuare, in senso più ampio, la piena adesione degli Stati parte allo “spirito” dello Statuto Cpi». L’idea di «Geist des Statuts» è in Gerhard Werle e Florian Jessberger, Principles of International Criminal Law, Oxford University Press, Oxford 2020.

ii Cass. (sez. un. pen.) 25 novembre 2021, dep. 9 marzo 2022 n. 8193, presidente Margherita Cassano, che cita adesivamente Cass. (sez. un. pen.) 24 novembre 1999, dep. 6 dicembre 1999 n. 25, secondo cui va riconosciuto nei «confini delineati dall’art. 1 c.p.p. per la “giurisdizione penale”» un «sistema chiuso che quella disposizione configura con funzione ricognitiva, analoga e simmetrica a quella assegnata dall’ordinamento alla norma dell’art. 1 c.p.c. per delineare i contorni del separato ramo della “giurisdizione civile”».

iii Mi permetto di rinviare a Luca Baiada, I crimini internazionali e i tribunali militari italiani, in questa Rivista, LXXVIII n. 4 (luglio-agosto 2022), pp. 21-30.

iv Corte costituzionale, n. 215 del 2017.

v Eugene R. Fidell, Military Justice. A Very Short Introduction, Oxford University Press, New York 2016, p. 99.

vi Magistratura democratica, comunicato 18 marzo 2023, I crimini internazionali come questione prioritaria e qualificante.

vii Liana Milella, La giurista Meloni: «Con questo codice l’Italia non potrà perseguire i crimini contro l’umanità commessi da Putin», «www.repubblica.it», 18 marzo 2023.

viii Emanuela Fronza e Chantal Meloni, The Draft Italian Code of International Crimes, «Journal of International Criminal Justice» 20 (2022), pp. 1027–1048, specialmente p. 1029.

ix Corte di giustizia dell’Unione europea: 27 febbraio 2018, C-64/16; 24 giugno 2019, C-619/18; 5 novembre 2019, C-192/18; 17 dicembre 2020, C-354-20 e C-412/20. La Corte di Lussemburgo applica l’art. 19 del Trattato sull’Unione europea interpretandolo insieme alla nozione di Stato di diritto, di cui all’art. 2, e basandosi sul principio dell’indipendenza dei giudici di cui all’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.

x Mariarosaria Guglielmi, Il CSM italiano e lo «scandalo delle nomine», «www.questionegiustizia.it», 20 dicembre 2022, traduzione di Le CSM italien et le «scandale des nominations», «Délibérée, revue de réflexion critique animée par le Syndicat de la magistrature», 2022/3 (n. 17), pp. 75-80.

xi Mariarosaria Guglielmi, Un pubblico ministero “finalmente separato”? Una scelta poco o per nulla consapevole della posta in gioco. E l’Europa ce lo dimostra, «www.questionegiustizia.it», 17 settembre 2022.

xii Relazione sullo Stato di diritto 2022, 13 luglio 2022, p. 3, nota 4.

xiii Brunelli ha fra i suoi meriti di essere stato l’estensore della sentenza di appello nel processo sulle Fosse Ardeatine: Corte mil. d’appello Roma, 7 marzo 1998 dep. 15 aprile 1998, n. 24, imputati Hass e Priebke, presidente Giuseppe Monica.

xiv Lettera del presidente della Repubblica, 24 febbraio 2023, «www.quirinale.it».

xv Cmm, 2012 n. 1, incolpato M.D.L. Poi, Cass. (sez. un. civ.) 8 ottobre 2013, dep. 20 novembre 2013, n. 26033.

xvi Giuseppe Santalucia, Relazione al XXXV congresso dell’Anm, Roma, 14-16 ottobre 2022.

xvii Dopo l’istituzione del Gruppo di studio Corradino, l’Ammi ha invitato ad avanzare suggerimenti. A settembre 2022 chi scrive ha proposto, fra l’altro, che gli incarichi di insegnamento siano permessi solo nelle scuole militari e in altre istituzioni pubbliche, e che una parte dei guadagni sia destinata agli orfani dei militari caduti in servizio. La proposta per ora non ha avuto seguito.

xviii Cmm, delibera n. 7865 del 17 novembre 2022.

xix Parlamento europeo, risoluzione 2948/2022, punto 3.

xx Valeria Pacelli, Poltrone. Casalena a novembre è stato nominato al Dipartimento affari giuridici. Nel 2020 la censura: «Manifestato scarso equilibrio». Palazzo Chigi dà l’incarico al pm militare «sanzionato», «il Fatto Quotidiano», 14 aprile 2023, p. 15.

xxi Onu, Commentary on The Bangalore Principles of Judicial Conduct, settembre 2007, par. 143.

xxii Roberto Bellelli, The Establishment of the System of International Criminal Justice, in Roberto Bellelli (ed.), International Criminal Justice. Law and Practice from the Rome Statute to Its Review, Ashgate, Farnham-Burlington 2010, p. 53.

xxiii Fronza e Meloni, The Draft Italian Code of International Crimes, cit., p. 1031.

xxiv Maurizio Block, Il punto di vista della giustizia militare, intervento al convegno Quale futuro per la giustizia penale internazionale? Venti anni di Corte penale internazionale, in Cassazione, 15 novembre 2022.

xxv Cmm, delibera n. 4739 del 18 giugno 2013.

xxvi Corte costituzionale, n. 78 del 1989.

xxvii Corte costituzionale, n. 81 del 1980 e n. 298 del 1995.

xxviii Il decreto del ministro della difesa 28 febbraio 2008, Determinazione delle piante organiche degli uffici giudiziari militari ai sensi dell’articolo 2, comma 607, della legge 24 dicembre 2007, n. 244, prevede 27 magistrati giudicanti, comprendendo il primo grado e l’appello.

xxix CEDU, Ergin c. Turchia, 4 maggio 2006 (47533/99), e Maszni c. Romania, 21 settembre 2006 (59892/00). Mulry Mondélice, L’apport de la Convention européenne des droits de l’homme à l’encadrement de la justice militaire sur le fondement des exigences de l’état de droit: entre humanisation et civilisation, «RQDI, Revue québécoise de droit international», dicembre 2020, p. 184: «Alors que la coopération internationale touche la réforme du secteur de la sécurité dans le cadre de la promotion de l’État de droit, sans exagérer la portée des Principes Decaux, il va sans dire que dans la coopération avec l’État en démocratisation, des États du Nord global embrassant la civilisation de la justice militaire peuvent insuffler des réformes du secteur de la sécurité dans le cadre de la coopération bilatérale ou multilatérale touchant l’État en démocratisation, d’autant que des acteurs non étatiques soutiennent de telles réformes entreprises par les États».

xxx Cmm, delibera n. 5042 dell’8 maggio 2014.

xxxi Medel, comunicato 9 marzo 2023, The International Day of Women Judges – March 10, 2023.

xxxii The invisible war, regia di Kirby Dick, 2012.

xxxiii Istituito il Comitato per lo sviluppo e la valorizzazione della cultura della Difesa, «www.difesa.it», 6 marzo 2023.

xxxiv Convegno Il codice dei crimini internazionali: impegno per una giustizia internazionale effettiva, in Cassazione, 16 maggio 2023.

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2 Giugno 1946: la pace https://www.ilponterivista.com/blog/2023/06/02/2-giugno-1946-la-pace-2/ Fri, 02 Jun 2023 15:12:59 +0000 https://www.ilponterivista.com/?p=4019 Leggi tutto "2 Giugno 1946: la pace"]]> Il giorno della pace1: pace nazionale, premessa necessaria per affrontar quella esterna.

L’Italia pazienta da quasi tre anni in regime di armistizio. Ma non tutti ricordano che gli armistizi sono due: quello internazionale coi vincitori, e quello interno, chiamato finora «tregua istituzionale». Tregua, non pace: la guerra di liberazione, che non è stata condotta soltanto contro i nemici di fuori, aspetta ancora, di dentro, la sua conferenza di pace, che si chiamerà costituente, e il suo trattato, che si chiamerà repubblica.

Le dinastie pagano fatalmente col trono le guerre perdute, anche quelle onorevoli e accettate dal popolo: perché solo nella nemesi storica, che cancella dalla bandiera il simbolo della sconfitta, il popolo ritrova l’unità e la fiducia. Ma qui non è stata soltanto perduta una guerra: siamo stati portati sul punto di perdere una civiltà. Il custode statutario ha gettato nel folle giuoco non soltanto i nostri beni e le nostre vite, ma, sopra tutto, le nostre anime. Dire che la monarchia ha giuocato l’onore d’Italia, è dir poco: ha giuocato la nostra umanità. Quello che più atterrisce d’intorno non son le rovine materiali: le città si rifanno, e a compensarci dell’arte perduta lavora, ignaro archeologo, il bifolco, che vede affiorare ogni giorno da questa terra magica le statue dei sepolcreti. Ma il crollo più pauroso è stato quello dello spirito: la rottura brutale di millenni di ragione e di gentilezza, l’irrisione demente di quella solidarietà cristiana per cui ogni uomo è una creatura unica fatta di coscienza più che di carne, che ha dentro di sé, insopprimibile e irriproducibile, una sua dignità, una sua fiammella, un suo miracolo. Questa tradizione è la nostra patria più vera: a questa nostra patria profonda la dinastia sabauda, in nome dell’Italia, ha dichiarato guerra.

Nei terribili ricordi di questo ventennio ciascuno di noi ritrova episodi che non sa ripensare senza raccapriccio: in Italia e fuori d’Italia, con un crescendo di diabolica follia, ci siamo accorti che non era più guerra militare di eserciti contro eserciti, ma furia di belve contro creature innocenti, dell’orda selvaggia contro le conquiste, che ci erano sembrate eterne ed imprescrittibili, della ragione e della umana pietà. E un giorno il popolo italiano, in questa guerra tra la belva e l’uomo, si è trovato, per decreto reale, schierato ufficialmente dalla parte della belva. Questo è il crimine, non contro lo statuto soltanto ma contro l’umanità, che deve essere espiato.

Oggi le signore sensibili, che sospirano sulla sorte della monarchia, a udir raccontar questi episodi fanno una smorfia di incredulità e di disgusto: basta con questi orrori. Basta, sì: ma chi fino ad ieri associò a questi orrori il nome d’Italia? chi fece credere al mondo che il popolo italiano ne fosse complice? chi firmò l’alleanza coi carnefici? Oggi troppi dimenticano che il dispregio della persona umana diventò in Italia metodo di governo per decreto del re costituzionale: e che dal manganello e dalle verniciature tricolori degli antifascisti esposti alla berlina, si arrivò logicamente, senza soluzione di continuità, alle camere a gas e ai forni crematori.

Vogliamo riacquistare la pace: quella delle coscienze tranquille prima che quella dei trattati; ma come potremmo riaver questo senso di pacata giustizia, se il simbolo araldico di chi associò l’Italia a quella guerra contro lo spirito rimanesse sulla nostra bandiera? Non chiediamo punizioni rigorose: le ville principesche in riva ai mari tropicali non sono prigioni crudeli. Ci lascino a ricostruire da noi queste povere catapecchie crollate. Ma se ne vadano, tutta la famiglia: comprendano, una volta tanto, il loro dovere di discrezione. Spariscano: ci liberino da questa loro sciagurata presenza che è il ricordo vivente di una spaventosa sconfitta morale.

Il 2 giugno non saranno elezioni: sarà la riconciliazione di un popolo. Attenderanno, alle porte dei seggi elettorali, ancor prima che arrivino gli elettori, lunghissime file di ombre: i nostri morti, lontani e recenti; i giovinetti partigiani caduti alla macchia, i vecchi che non parlarono sotto la tortura, le donne e i bambini spariti nelle nebbie della deportazione. Chiederanno la pace: e l’avranno.

La pace con giustizia: la repubblica.

1 Il Ponte [ma Piero Calamandrei], 2 giugno 1946: la pace, «Il Ponte», a. II, n. 6, giugno 1946.

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La scienza della guerra, oltre la presunta geopolitica https://www.ilponterivista.com/blog/2023/02/28/la-scienza-della-guerra-oltre-la-presunta-geopolitica/ Tue, 28 Feb 2023 16:34:21 +0000 https://www.ilponterivista.com/?p=4014 Leggi tutto "La scienza della guerra, oltre la presunta geopolitica"]]> 1. Il saggio di Emiliano Brancaccio, Raffaele Giammetti e Stefano Lucarelli, dal titolo La guerra capitalista (Mimesis 2022),1 ruota intorno alla tesi della centralizzazione del capitale, non in quanto fenomeno più o meno occasionale, transitorio e sostanzialmente casuale, quando non addirittura inesistente, bensì quale vera e propria “legge” di tendenza del capitalismo.

Partendo da questo assunto, che rappresenta il vero e proprio fil rouge del volume, ne vengono quindi sviluppate alcune conseguenze dirette, che vanno dal conflitto fra capitali deboli e capitali forti, fra imperialismi “debitori” e “creditori”, fino alla disgregazione dell’ordine democratico, o, meglio, liberal-democratico, e allo sfociare in vere e proprie guerre militari. Insomma, come già si può intuire da questi brevi accenni, un testo decisamente non banale e di non comune vision.

Il libro è strutturato in tre sezioni, ciascuna con una propria natura e struttura.

Nella prima viene sviluppata la tesi della centralizzazione del capitale, partendo da una constatazione per certi versi sorprendente: Marx, ormai pressoché dimenticato dagli eredi della tradizione del movimento operaio, viene riscoperto e citato copiosamente proprio dai sacerdoti del capitale. Dal Financial Times all’Economist, passando per illustri economisti e accademici, fino ai grandi magnati della finanza, non si contano le citazioni di Marx (in realtà il libro le ha ben contate: il solo Financial Times cita Marx 2.644 volte in 13 anni). E, ciò che è più singolare, si tratta spesso di citazioni positive: “Karl Marx aveva ragione” afferma l’economista statunitense Nouriel Roubini in un intervista del 2011 a The Wall Street Journal; “Marx resta una figura monumentale”, recita inaspettatamente un articolo di The Economist del 2018. A cosa è dovuta questa riscoperta delle tesi marxiste da parte del “nemico”? Gli Autori non hanno dubbi: “oggi più che in passato il capitale si trova costretto a interrogarsi su sé stesso, sulla sua potenza e sulla sua stessa fragilità riproduttiva” (p. 19).

Viene quindi analizzato il concetto di centralizzazione del capitale (si badi bene centralizzazione, non già concentrazione) ed il suo sviluppo in dottrina, con una ricca analisi che parte proprio da Marx e passa per Hilferding, Lenin fino a Shumpeter. Particolarmente efficace, in questo ambito, è l’illustrazione dello sviluppo del capitale da pura proprietà diretta, a proprietà parcellizzata fra più piccoli proprietari ma gestita dai grandi players finanziari, fino ai gruppi di controllo che governano masse di capitale più grandi di quelle effettivamente possedute, al punto che “per mezzo di fitte trame di relazioni proprietarie, intricate da partecipazioni condivise, reciproche, indirette, i titolari di pacchetti di maggioranza anche solo relativa sono capaci di governare le decisioni riguardanti tutto il capitale” (p. 34).

Nell’ambito della centralizzazione del capitale, un’analisi specifica è poi dedicata alla centralizzazione finanziaria, con una ricerca davvero esaustiva sull’argomento, ancora una volta a partire da Marx e fino ai più recenti approfondimenti dottrinali e non. A sua volta, all’interno della centralizzazione finanziaria, viene sviluppata una sezione a parte che riguarda la concentrazione nel settore bancario ed esamina particolarmente le relazioni fra efficienza, tassi di interesse, concorrenza e deregulation rispetto al rischio di crisi. Dall’analisi delle connessioni tra centralizzazione e crisi gli Autori si soffermano sia sulla possibilità che la prima induca le seconde, ma anche, al contrario, che le crisi possano a loro volta influenzare la tendenza alla centralizzazione.

Una menzione a parte, poi, merita il ricchissimo capitolo, probabilmente il primo del genere, dedicato al dibattito italiano sulla centralizzazione del capitale, che ripercorre con completezza e lucidità argomentativa le posizioni di studiosi da Arturo Labriola a Francesco Saverio Nitti, Achille Loria, Luigi Negro, fino a Paolo Sylos Labini e lo stesso Emiliano Brancaccio.

 

2. Passando al tema della solvibilità, gli Autori ricordano che le teorie “classiche” vedono l’insolvenza come un sano strumento di pulizia delle imprese inefficienti, che il capitalismo espelle in quanto scorie che non meritano di riprodursi. Esiste però una teoria alternativa, secondo la quale “la solvibilità capitalistica è condizione non semplicemente tecnica ma anche inesorabilmente politica, di lotta intestina alla classe capitalista, con continui riverberi sulla classe lavoratrice” (p. 80) per cui “nell’ambito del paradigma alternativo la solvibilità incarna un inesorabile conflitto interno alla classe capitalista, tra capitali deboli a rischio di insolvenza e acquisizioni, che lottano per la sopravvivenza e contro la forza distruttiva della centralizzazione, e capitali forti e solvibili che dalla centralizzazione traggono sempre maggiore forza e potere” (p. 79).

In questa lotta un ruolo decisivo è quello assunto dalle banche centrali, oggetto privilegiato di un’attenta e rigorosa analisi. Secondo la teoria dominante oggi, le banche centrali tendono a seguire una “regola ottima” che fissa i tassi verso un valore che assicuri l’equilibrio naturale di inflazione e reddito. Ma esistono voci critiche, che evidenziano “la difficoltà di trovare una relazione causale tra la regolazione del tasso di interesse da un lato, e l’andamento del PIL e dell’inflazione dall’altro” (p. 82). In questa visione alternativa, il banchiere centrale è “regolatore sociale del conflitto tra creditori e debitori”. Ad esempio, in caso di inflazione, “dovrà (…) decidere se e in che misura compensare i creditori dall’erosione di capitale causata dall’aumento dei prezzi”, agendo come una sorta di “scala mobile” per il capitale creditore, una scala mobile che paradossalmente “i lavoratori non hanno (ce l’hanno) più, i capitalisti sì” (p. 84). Viene quindi presentata una “regola di solvibilità”, alternativa alla classica regola di Taylor, che, oltre a determinare il tasso di interesse in funzione di inflazione e PIL (che, come noto, rappresentano i parametri classici), lo lega anche ad altre variabili, in particolare alle sofferenze finanziarie. In sostanza, il banchiere centrale, alzando o abbassando i tassi, ostacola o agevola la capacità dei debitori di rimborsare i debiti, “regolando” quindi il maggiore o minore numero di fallimenti. La verifica empirica di queste due teorie, basata ovviamente sui dati, mostra che, contrariamente a quanto previsto dalla c.d. “regola Taylor”, “il banchiere centrale non risulta mai in grado di controllare l’inflazione regolando i tassi d’interesse” (p. 85) . Viceversa, risulta confermata una relazione fra tassi d’interesse e non performing loans, in accordo con la regola di solvibilità.

Quindi il banchiere centrale non è un “agente «neutrale», che cioè si limiterebbe ad accompagnare il sistema verso il cosiddetto «equilibrio naturale», senza mai pretendere di incidere su quest’ultimo” (p. 86). Egli, piuttosto, determinando il livello di fallimenti, stabilisce il vantaggio per le imprese solvibili che riescono a rimanere sul mercato e “che potrebbero decidere di acquisire a buon mercato i concorrenti sulla via dell’insolvenza” con la conseguenza che emerge “quella circostanza decisiva che Marx definiva con l’espressione «centralizzazione dei capitali». Il banchiere centrale, governando la solvibilità, regola il conflitto tra capitali e con esso anche il ritmo della centralizzazione” (p. 87).

In questo contesto, il libro esamina gli interessanti risvolti di questa teoria sui recenti eventi economici, politici, bellici, con una speciale attenzione all’Europa, attraverso una rilettura suggestiva delle politiche monetarie, in particolare di Mario Draghi, orientate “in modo da allentare le condizioni di solvibilità al livello minimo necessario per evitare un’ondata di bancarotte di tale portata da far perdere del tutto il controllo della crisi e del connesso ritmo della centralizzazione dei capitali” (p. 90). Ciò che emerge è un “ribaltamento generale, sia pur temporaneo, dei rapporti di forza tra finanza e politica”: non sono più “le politiche economiche soggette alla cosiddetta «dittatura dei mercati finanziari», come si soleva dire, ma al contrario la sottomissione dei mercati finanziari alla disciplina imposta dalle autorità monetarie e di governo” (p. 91). Con la conseguenza che la regolazione politica delle autorità monetarie “ha messo sotto controllo la solvibilità e con essa anche il ritmo della centralizzazione capitalistica” (ibidem). Con una felice espressione, dal 2012 in poi si è avuto in Europa il “decennio eretico dei banchieri centrali” (p. 91).

La prima sezione del libro si chiude con l’auspicio di uno studio di una compiuta e scientifica teoria della centralizzazione, che tenga conto della complessità della lotta interna alla classe capitalista, delle posizioni dei banchieri centrali e, in ultima analisi, dei rapporti fra l’economia e lo Stato e tra l’economia e la politica.

La seconda sezione è formalmente più “tecnica”, e si propone di misurare sperimentalmente la concentrazione del controllo delle imprese e quindi, in definitiva, il grado di centralizzazione del capitale e la bontà stessa della teoria esposta nella prima sezione. La verifica sperimentale è basata principalmente su recenti studi che, utilizzando tecniche e strumenti di varie discipline (fisica, matematica, informatica), analizzando la topologia degli assetti proprietari di un numero assai rilevante di società e introducendo una prima innovativa misura del controllo delle società stesse (il c.d. net control), hanno consentito di confermare empiricamente la bontà delle intuizioni di Marx sulla centralizzazione del capitale, in particolare sotto due profili.

In primo luogo “tra il 2001 e il 2016 il controllo del capitale globale risulta altamente concentrato nelle mani di un ristretto manipolo di azionisti, sempre inferiore al 2 per cento del totale; in secondo luogo, prosegue la tendenza verso una ulteriore centralizzazione del capitale, che aumenta di circa 25 punti percentuali negli anni considerati e si intensifica soprattutto a ridosso della grande crisi mondiale del 2007” (p. 116). Un’altra importante verifica di tesi teoriche riguarda il rapporto fra centralizzazione e crisi: dalle analisi dei dati si evince infatti che “la crisi sembra avere avuto un impatto rilevante sulla distribuzione delle quote proprietarie, che ha favorito società e azionisti già situati nel cuore della rete dei legami a discapito dei nodi più deboli” (p. 118).

In termini qualitativi, si scopre poi che i primi tre posti sono occupati da colossi della finanza e sono stabili nel tempo, tanto che gli Autori possono affermare che “nel turbine della centralizzazione dei capitali sembra dunque sussistere un nocciolo duro, una costante gravitazionale. Lontani anni luce dall’idealizzato capitalismo concorrenziale delle origini, i proprietari che escono vincitori dal meccanismo della centralizzazione somigliano sempre più a un club esclusivo e sclerotizzato, in cui è difficilissimo entrare ma sembra piuttosto complicato anche uscire. Una nuova oligarchia capitalista” (p. 120).

Infine, sempre le analisi dei dati confermano anche la bontà della regola di solvibilità sulle politiche monetarie: alti tassi di interesse favoriscono fallimenti e acquisizioni perché “una politica monetaria restrittiva, ovvero un innalzamento dei tassi di interesse, conduce a una riduzione del net control, ovvero alla riduzione della frazione di azionisti di controllo del capitale e dunque all’aumento della centralizzazione del capitale” (p. 124). Un’affermazione, quest’ultima, che andrebbe studiata e approfondita con particolare attenzione soprattutto dall’attuale classe politica italiana, specie una certa “pseudo” sinistra (liberista quando non più propriamente capitalista) che, dopo aver abdicato al proprio ruolo politico e istituzionale, si è rivelata sempre più incurante di – o, forse, connivente con- quanto sta accadendo a livello sovranazionale, assecondando le scellerate politiche monetarie della BCE, che rischiano di portare il nostro Paese in un baratro dal quale sarà sempre più difficile uscire.

La terza sezione, infine, che riprende articoli ed interviste già apparse nel corso del 2022, analizza il rapporto tra centralizzazione del capitale e conflitti imperialistici e, dunque, con la guerra in Ucraina, ruotando attorno ad alcune tesi centrali:

  1. L’“imperialismo dei debitori” (USA e Paesi occidentali), in crisi di risultati e prossimo al limite massimo di espansione, si sta scontrando con l’imperialismo dei creditori, che sono alla ricerca continua di sbocchi per la loro espansione mondiale, preferibilmente acquisendo il controllo di aziende occidentali;
  2. Il blocco occidentale sta cercando da tempo di frenare l’imperialismo di Cina (e Russia) adottando misure protezionistiche a livello economico e soprattutto finanziario;
  3. Le conseguenti difficoltà all’esportazione dei capitali genera tensioni che devono trovare sbocchi, anche con la forza. Come giustamente sottolineato, infatti, è proprio da queste difficoltà di esportazione dei capitali che “nasce la tentazione dei grandi creditori orientali di dare nuovi sbocchi ai loro flussi finanziari attraverso la forza, a mezzo di interventi militari. Ossia, sorgono i primi cenni di un imperialismo emergente da parte dei creditori orientali, incoraggiati anche dai limiti di espansione dell’imperialismo militare del grande debitore americano” (p. 154).

La posta in gioco, pertanto, è altissima e consiste nel controllo delle regole dell’assetto finanziario (e geopolitico) mondiale e che dipende dalla sopravvivenza o dalla cancellazione “delle regole del circuito militar-monetario internazionale, fino a oggi continuamente scritte e riscritte a piacimento dai soli Stati Uniti e dai loro alleati, e subite da tutti gli altri” (Ibidem).

La centralizzazione del capitale, insomma, determina anche la concentrazione del potere politico ed una sostanziale drammatica ed inesorabile perdita di democrazia, che si evince anche e soprattutto da fenomeni quali l’esautoramento delle rappresentanze popolari, la preferenza per la governabilità a scapito della rappresentatività che sfocia nell’esecutivizzazione delle decisioni politiche, la “ricerca spasmodica di grandi risolutori, di uomini forti cui affidare i destini collettivi” (p. 174).

Come detto al principio di queste brevi riflessioni, ci troviamo di fronte ad un libro tutt’altro che banale, che si stacca (meglio, che si eleva) dalla marea di testi di presunta geopolitica sulle cause della guerra russo-ucraina, da cui siamo sommersi ormai da mesi.

Con uno stile asciutto, estremamente “succoso”, pur nel rigore scientifico, il libro poggia su basi teoriche amplissime e su riferimenti scientifici solidissimi, il tutto venato qua e là da momenti di pungente ironia. Insomma, una lettura importante e scientificamente granitica, ma allo stesso tempo godibilissima anche per profani.

1 Emiliano Brancaccio, Raffaele Giammetti, Stefano Lucarelli, La guerra capitalista. Competizione, centralizzazione, nuovo conflitto imperialista (Mimesis 2022).

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La matrice fascista https://www.ilponterivista.com/blog/2023/02/10/la-matrice-fascista/ Fri, 10 Feb 2023 16:00:30 +0000 https://www.ilponterivista.com/?p=4007 Leggi tutto "La matrice fascista"]]> La motivazione della sentenza con cui il Tribunale di Roma l’11.07.2022 ha condannato, con rito abbreviato, alcuni manifestanti che il 09.10.2021 avevano assaltato la sede della Cgil, l’avevano invasa e saccheggiata, presenta vari motivi di interesse.

Innanzitutto per la gravità dei fatti accaduti, poi per la singolare gestione dell’ordine pubblico praticata in quella occasione, infine per l’interpretazione che di quei fatti e di quella gestione ha dato il Tribunale di Roma nella sua, peraltro concisa, decisione.

I fatti, innanzitutto, così come descritti in sentenza.

Nel pomeriggio del 09.10.2021 si svolge in Piazza del Popolo, a Roma, una manifestazione autorizzata «in forma statica» dal Questore, diretta a protestare contro l’obbligo del Green Pass sul luogo di lavoro deciso dal governo Draghi e per la quale è prevista una partecipazione di 1.000 persone. Senonché, come accertato dalla Polizia su «fonti aperte», in piazza si riuniscono circa 13.000 manifestanti, giunti «anche da altre regioni», in treno o in macchina.

La stampa dell’epoca fornisce ulteriori particolari. La richiesta di autorizzazione per la «manifestazione statica» è presentata a nome di un’associazione poco conosciuta: «Liberi Cittadini»; più nota è invece la persona che la presenta, Pamela Testa, indicata vicina a Forza Nuova, che alla fine di settembre aveva promosso un video via Telegram, nel quale aveva chiamato a raccolta gli oppositori al Green Pass, convocandoli per la manifestazione romana. Non è chiaro perciò in base a quali calcoli coloro che controllavano le «fonti aperte», avvertiti che i manifestanti sarebbero giunti da tutta Italia, avessero previsto una riunione di sole 1.000 persone.

Ma non è che l’inizio.

In piazza, dal palco, prende la parola Giuliano Castellino, indicato in sentenza come «noto leader del movimento politico di estrema destra “Forza Nuova”, sottoposto alla sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno […] che sobilla i presenti e incita la folla ad avviarsi in corteo per raggiungere e assediare la Cgil pronunciando le seguenti frasi: oggi noi andiamo ad assediare la Cgil, oggi noi partiamo ora in corteo e andiamo a prenderci la Cgil. Noi oggi chiamiamo Landini se rivuole il suo palazzo. Se rivuole la sua sede viene a Roma e proclama lo sciopero generale di tutti i lavoratori contro il green pass. Adesso i microfoni si spengono e si parte tutti verso la Cgil».

Orbene: Castellino in questo processo non è imputato, avendo optato per il rito ordinario, ma il ruolo svolto nella vicenda è invece centrale e il giudice lo afferma chiaramente, riportando per esteso la parte saliente del suo intervento; senonché, raffigurandolo solo come esponente di Forza Nuova, ne fornisce un’immagine riduttiva, che non dà conto della sua storia politica, anche istituzionale.

Se infatti, un anno prima dell’assalto alla Cgil, aveva riportato, a Roma, in primo grado, una condanna a 5 anni e 6 mesi di reclusione, insieme a Vincenzo Nardulli di Avanguardia Nazionale, per l’aggressione a due giornalisti di «L’Espresso», in precedenza era stato anche europarlamentare, subentrato nel ruolo ad Alessandra Mussolini, quindi aveva seguito Storace ne «la Destra» e aveva sostenuto Alemanno nell’elezione a sindaco di Roma: in quel settore politico aveva quindi ricoperto ruoli di rilievo ed era quindi persona ben nota. E conosciuto doveva comunque essere ai funzionari della Digos operanti quel giorno, in quanto “sorvegliato speciale” e fresco destinatario di un Daspo che gli impediva, per 5 anni, di partecipare a manifestazioni pubbliche e sportive. Tuttavia nessuno dei dirigenti di P.S., vistolo salire sul palco e prendere la parola, è intervenuto: così Castellino ha potuto continuare ad arringare la folla, indicare l’obiettivo da colpire, per poi mettersi alla testa del corteo.

Ma – osserva il giudice – Castellino «non opera isolatamente, si muove con il sostegno e l’attiva collaborazione di Fiore Roberto e Aronica Luigi – riconosciuti dalle forze dell’ordine perché già noti appartenenti a movimenti politici di estrema destra – il Fiore quale fondatore del movimento “Forza Nuova” e Aronica luigi, già membro dei Nar».

Anche qui l’indicazione del profilo politico dei protagonisti appare, a dir poco, riduttivo: Fiore era conosciuto dalla Digos romana non tanto per la sua militanza in Forza Nuova, quanto piuttosto per aver fondato, a suo tempo, con Marcello De Angelis e Gabriele Adinolfi il gruppo «Terza Posizione» e per essere stato con loro condannato, in via definitiva, a 5 anni e mezzo di reclusione nel processo che li aveva visti imputati di associazione sovversiva e banda armata. Fiore, fuggito in Inghilterra, dopo una tranquilla latitanza, se ne era poi tornato in Italia; Aronica, più che un generico membro dei Nar, gruppo di terroristi neofascisti con a capo Giusva Fioravanti, ne era stato un attivo e pericoloso protagonista, visto che era stato condannato dalla Corte d’Assise Appello di Roma a 17 anni e 4 mesi di reclusione, sempre per partecipazione a banda armata. Definire Aronica e Fiore solo come «appartenenti a movimenti politici di estrema destra» è perciò quasi un eufemismo.

Dopo questa concisa presentazione, il giudice così prosegue: Castellino, Fiore e Aronica «si pongono alla testa del corteo e manifestano in modo animato al Primo Dirigente della Squadra Mobile, dott. Fernandez, l’intenzione di recarsi presso la sede della Cgil, dicendo “Portateci Landini o lo andiamo a prendere noi” e, assieme, chiedono ai funzionari preposti alla gestione dell’ordine pubblico in Piazza del Popolo la possibilità e, dunque, l’autorizzazione a effettuare il predetto spostamento dinamico in corteo verso i locali della Cgil».

Il proposito minaccioso di «andare a prendere Landini» manifestato da quei tre soggetti avrebbe dovuto provocare una netta presa di posizione da parte dei funzionari interpellati: il fatto che quella previsione sia stato addirittura accompagnata dalla richiesta di una qualche “autorizzazione” denota, invece, tutta l’arroganza eversiva di quei facinorosi, convinti evidentemente di non correre rischi di sorta; una consapevolezza che si rafforza ulteriormente quando «le forze dell’ordine rappresentano la necessità di tempo per valutare le possibili soluzioni alle richieste avanzate», dimostrando così di essere incerte sul da farsi e prive di un reale comando operativo sul posto.

Una simile gestione dell’ordine pubblico, più simile a una resa che a un contrasto, lascia interdetto il lettore. Ma non è di questo parere il tribunale, che anzi ritiene «comprensibile che i due dirigenti della Digos abbiano cercato di prendere tempo, chiedendo di temporeggiare per chiedere al Capo di Gabinetto direttive da seguire». Non sappiamo se questa interlocuzione coi superiori gerarchici sia avvenuta, perché il giudice non ne parla; riferisce solo che nel frattempo è in corso «una c.d. trattativa» dei dirigenti Digos coi manifestanti e in particolare con Fiore Aronica e Castellino, trattativa che viene bruscamente interrotta, perché mentre «il comm. Berti, senza esito alcuno, tenta di parlare facendo opera di dissuasione», Castellino supera «fisicamente l’Ag. Scelto Mormile che cerca di sbarrargli la strada e ripetendo devo passà, richiama con le braccia i manifestanti che indirizza verso la sede della Cgil».

La scena è quasi surreale: tre noti “fascisti del terzo millennio” capeggiano un folto gruppo di camerati che vogliono marciare contro la sede del più grande sindacato italiano per “prendere” il suo segretario: davanti a loro, tuttavia, non vi sono agenti schierati a contrasto, né “partono cariche di alleggerimento”, come succede di solito quando in piazza scendono i centri sociali o pressano i cortei studenteschi. Il giudice è un osservatore terzo e si limita a registrare che, superato lo sbarramento costituito dall’agente Mormile, prende forma e si avvia numeroso un corteo «capeggiato da Casalino urlante frasi del tipo lasciateci passà, dovemo entrà», diretto «nella direzione preannunciata», cioè verso la sede della Cgil; «un corteo – precisa – che gli addetti all’ordine pubblico si sono trovati in qualche modo costretti a tollerare, al fine di non esacerbare ulteriormente gli animi, già molto accesi, per evitare che la nutritissima folla confluisse, come si stava prospettando probabile, verso palazzi istituzionali», dove erano stati «prontamente organizzati gli sbarramenti delle Forze di Polizia».

Non sappiamo se una simile tattica (non esacerbare gli animi accesi dei manifestanti, difendere gli “obiettivi” presunti a discapito di quelli dichiarati) sia quella usata dai dirigenti della Digos o se ciò sia frutto dell’interpretazione dei fatti operata dal giudice. L’aver comunque privilegiato la “difesa” dei “palazzi istituzionali” ha fatto sì che il corteo guidato da Fiore, Aronica e Castellino abbia potuto raggiungere invece il palazzo del sindacato e che i più determinati tra i manifestanti abbiano fatto irruzione al suo interno, devastandolo.

«I danni realizzati nel piano terra dello stabile visibili nelle immagini e descritti nell’annotazione in atti – attesta il giudice – consistono in arredi gettati a terra e distrutti, stanze a soqquadro, vetri infranti, documenti, libri, suppellettili sparsi ovunque, stampanti e computer strappati dalle scrivanie e gettati altrove. La durata effettiva dell’azione di invasione e devastazione ha avuto inizio alle h. 17.27 e termine alle h. 18.20» (p. 8).

I sei imputati di questo processo sono personaggi minori: tra di essi vi è il figlio della compagna di Castellino, un paio sono militanti di Forza Nuova, altri due sono attivi nelle curve degli stadi; il tribunale, al termine del processo, individuate grazie ai filmati le singole responsabilità, li condanna per il reato di devastazione e saccheggio (e non per il più blando danneggiamento aggravato, come richiesto dalle difese) a pene varianti da 4 anni e mezzo a 6 anni di reclusione.

Senonché, dovendo provvedere a ristorare i danni subiti alle parti civili costituite, il tribunale ritiene che l’Anpi non abbia diritto ad alcun risarcimento, non avendo subito neppure un «danno morale», poiché tale associazione tutelerebbe solo «l’onore partigiano contro ogni forma di vilipendio e speculazione» e non sarebbe stata comunque lesa nei suoi valori, dato che la protesta non aveva una «matrice fascista».

Orbene, a parte il fatto che l’Anpi non tutela solo «l’onore partigiano», ma più ampiamente i «valori che la Resistenza ha consegnato alle nuove generazioni come elemento fondante della Repubblica e della Costituzione» (art. 23 dello Statuto), tra i quali spicca primario l’antifascismo, stupisce che il giudice non sia stato in grado di definire in modo compiuto la matrice della protesta.

Come ricordava Salvemini nelle sue Lezioni di Harvard, infatti, l’assalto e la distruzione delle sedi del sindacato “rosso” è stata in Italia prerogativa del solo movimento fascista e non di altri partiti («i bolscevichi – aveva puntualizzato – non devastarono neppure una volta gli uffici degli industriali»); e le immagini dello stato della sede della Cgil dopo l’invasione (solo in piccola parte diffuse dalla televisione) rimandano inevitabilmente a quei filmati degli anni venti che hanno immortalato le “eroiche imprese” degli squadristi fascisti che devastavano le Camere del lavoro, filmati che anche la Rai periodicamente manda in onda, come rievocazione, però, di una storia lontana, irripetibile.

Ma il giudice, in questa sua valutazione, non è affatto isolato, visto che ha solo ripetuto quanto con ben maggiore peso politico aveva detto “a caldo” Giorgia Meloni (quel giorno a Madrid per partecipare alla convention di Vox), dichiaratasi non in grado di individuare la matrice di quell’episodio di sicuro squadrismo («Il sole 24 ore», 10.10.2021). Difficile crederle, tuttavia, visto che «la maggior parte dei giovani che [avevano dato] vita ai Nar [proveniva] dalle sezioni del Fronte della Gioventù e, soprattutto, dal Fuan romano» (così Nicola Rao, neodirettore del Tg 2, Neofascisti!, 1999, p. 196) e che lei quell’album di famiglia, «Terza Posizione» compresa, lo conosceva di conseguenza assai bene.

Ma tant’è.

Chi ha fatto quelle dichiarazioni, inviando però il cognato Francesco Lollobrigida a manifestare la solidarietà del partito alla Cgil, un anno dopo è diventata presidente del Consiglio (e il cognato ministro); una gran parte dell’opinione pubblica, per anni abituata a conoscere la storia d’Italia attraverso le pagine di Montanelli-Cervi e la cronaca politica attraverso l’annuale libro di Vespa, è stata alla fine persuasa dalla quasi generalità dei media della inutilità di tornare a discutere di fascismo e antifascismo (e, soprattutto, dei valori e delle culture a essi sottesi); i cittadini votanti hanno così premiato i partiti che dell’“anti-antifascismo” hanno fatto una bandiera. E Galli della Loggia, subito dopo l’esito delle elezioni, il 03.10.2022, ha sostenuto sul «Corriere» che in fondo è sbagliato chiedere oggi agli italiani (rectius alla Meloni) un’abiura dal fascismo, visto che i costituenti già avevano chiuso la partita con quel regime con la XII disposizione finale, quella sulla ineleggibilità quinquennale dei gerarchi, definita appunto «transitoria»: l’antifascismo doveva essere temporaneo, dunque.

Bene: è in questa temperie culturale che Castellino, uscito a luglio dal carcere dopo aver trascorso 9 mesi in custodia cautelare, è stato autorizzato da un parlamentare girovago, Francesco Gallo, eletto col partito di Catena De Luca «Sud chiama Nord», a presentare nella sala stampa della Camera dei deputati la nuova sigla «Italia Libera», fondata per l’occasione con l’avv. Taormina, senza che il neopresidente Fontana avesse nulla da obiettare; e solo all’ultimo momento e solo per le proteste insorte, questa ennesima provocazione è stata evitata, l’autorizzazione è stata revocata e a Castellino è stato vietato l’ingresso.

Almeno in Parlamento.

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Partigiani, guerra di Liberazione, Carlo Smuraglia https://www.ilponterivista.com/blog/2023/01/03/partigiani-guerra-di-liberazione-carlo-smuraglia/ Tue, 03 Jan 2023 10:30:09 +0000 https://www.ilponterivista.com/?p=4002 Leggi tutto "Partigiani, guerra di Liberazione, Carlo Smuraglia"]]> «Noi eravamo un esercito in cui tutti i giorni ci si arruolava di nuovo»[i]. Queste parole di un partigiano descrivono un passaggio ai fatti volontario e non cieco, una scelta senza retorica. La libertà si pagava. Dura comunque per il soldato, la vita del partigiano è anche fame, rifugi precari, armamento rimediato, cure mediche di fortuna, nessuna protezione legale.

Poi ci sono i programmi: per i partigiani, ben più della vittoria militare. Un esempio dalla formazione Nevilio Casarosa, sui Monti pisani:

Gli ideali della formazione erano: lotta al nazifascismo e aspirazione ad un mondo di liberi e di uguali. In pratica gli uomini del distaccamento riuscirono ad attuare una sorta di autogoverno, nella futura visione di una società basata sull’amore e sulla fratellanza. […] I partigiani vivevano in definitiva una vita comunitaria da cui erano banditi l’odio e l’egoismo[ii].

E c’è il conflitto sociale, ideologico e di classe; gli studi di Claudio Pavone sulla guerra civile non sono ancora abbastanza apprezzati. Eppure, già Victor Hugo in Novantatré, sulla Vandea: «Sì, è più che la guerra nella patria, è la guerra nella famiglia. Occorre, ed è bene che ciò sia. I grandi ringiovanimenti dei popoli si pagano così».

La differenza tra partigiano e soldato deve essere chiara, anche perché la Resistenza, il combattimento dei civili, comprendendo le donne e i giovanissimi, caratterizza la Seconda guerra mondiale e l’esito di questa pesa sugli anni successivi, sino ad oggi. Adesso, poi, la parola resistenza si usa con disinvoltura, e non è un caso: la confusione fra partigiani e militari va di pari passo con l’offuscamento della sconfitta del nazifascismo.

Carlo Smuraglia, presidente dell’Anpi dal 2011 al 2017, spesso è indicato come partigiano. Vediamo qualcosa a sua firma.

Smuraglia è scosso dal settembre 1943: «Una scuola di formazione per un giovane come me, vissuto fino ad allora con idee politiche molto generiche»[iii]. Studente alla Normale di Pisa, partecipa a riunioni e sceglie di non aderire alla repubblichina: «Per parte mia la scelta fu quella degli “sbandati” – come allora venivano chiamati nei rapporti delle prefetture e delle polizie fasciste – cioè di quei giovani che pensarono che fosse meglio non farsi vedere in giro, nascondersi, cercare qualche altro con cui condurre un percorso insieme»[iv]. Le scelte si concretano in atti, ma la sobrietà del racconto ci priva di tutto:

Non mi dilungo sulle esperienze del periodo “partigiano”, perché per me, più che le vicende specifiche di quel tempo (non particolarmente interessanti, perché non ho avuto né incarichi di comando, né medaglie e poi c’è sempre il pericolo del “reducismo”), conta – in questa sede – il percorso di formazione, e dunque l’esperienza umana e personale e la questione delle scelte[v].

Neppure altri testi, suoi o che riportano sue dichiarazioni, chiariscono meglio[vi]. Mentre si esprime sulla guerra in Ucraina, gli chiedono dove abbia fatto il partigiano ma la risposta non è più precisa[vii].

Prendiamo in considerazione documenti ufficiali. All’Archivio centrale dello Stato, fondo Ricompart (Archivio per il servizio riconoscimento qualifiche e per le ricompense ai partigiani), c’è la sua scheda personale. La formazione è «Gap Ancona dist. Serra San Quirico» (in altre schede il nome è «Gap Serra San Quirico» o equivalenti).

Qualcosa sui Gap di Serra San Quirico, dal Ricompart. Fra partigiani e patrioti si tratta di 74 schede[viii]. Sono riconosciuti gradi a quattro persone: due sottotenenti e due sergenti. Dieci qualifiche sono state revocate. Risultano un ferito, un invalido e un caduto: Augusto Chiorri, fucilato nel 1944, che però secondo la scheda apparteneva al Cln. Molti sono di età elevata: l’uomo più anziano è nato nel 1873, la donna più anziana è del 1887 e ci sono altre tredici persone nate nell’Ottocento. I Gap sono ricordati come formazioni caratterizzate da alto rischio, perdite elevate, presenza di giovani. Ma va detto che la memoria ha privilegiato i Gap urbani e ha evidenziato le azioni audaci[ix].

Il Ricompart contiene un lungo documento intestato Comando V Brigata B Garibaldi (poi si chiamerà Brigata Ancona)[x]. Si deve tener conto di alcune cose. I partigiani erano persone, non macchine:

Molti problemi [sic] s’imposero subito al sorgere delle formazioni partigiane, per la loro enorme importanza […] L’ordinamento e l’inquadramento delle formazioni partigiane subì molte varianti, sia per adattare alle possibilità di vita e alle esigenze della lotta, sia per qualche dissidio interno generato da invadenze politiche o da ambizioni personali, con conseguente nocumento alla effettiva efficienza dei Reparti ed alla loro più intima cooperazione[xi].

I mezzi erano limitati e le pressioni tedesche incalzanti, con effetti sulle formazioni: «Necessità di doversi pertanto sbandare e sciogliere spesso, per sottrarsi alla distruzione, rendendone difficile la comandabilità, molto rischioso l’impiego e determinando periodi di attività molto ridotta»[xii]. Eppure ci sono numerosissime azioni, a partire dal 15 settembre 1943; si notano gruppi come Mario, Porcarella e Ferro. I numeri parlano: oltre ottanta partigiani caduti, più di trecento tedeschi e settanta fascisti italiani eliminati, tre episodi di soppressione di falsi partigiani, salvataggio di oltre mille fra internati politici e prigionieri di guerra. Il testo chiude in caratteri maiuscoli rossi:

La brigata partigiana Ancona ha assolto il suo compito ed ha raggiunta la meta sognata dai caduti, dai martiri e da tutti coloro che, con purezza di intenti, con coscienza di italiani e volontà di riscatto, hanno fedelmente servito nei suoi ranghi. L’Italia, grazie anche all’opera loro, sta duramente e lentamente riconquistando la sua libertà ed il suo prestigio di popolo. […] Lo confermano undici mesi di dura lotta, di durissimi sacrifici, di tormento spirituale, confortato solo dalla speranza che il sangue versato ed i sacrifici compiuti, siano oggi muti interpreti del nostro sacro diritto di italiani, di vivere la nostra libera vita, sul suolo libero e nostro della patria amatissima[xiii].

Nel documento Smuraglia non è nominato. Va considerata la possibilità che azioni dei Gap siano riportate altrove; comunque lo scritto indica una continuità fra i Gap e la formazione, e comprende azioni dei Gap[xiv]. La continuità è confermata da una diversa fonte[xv], anche se un’altra nomina separatamente la «V Brigata B Ancona» e la «Brigata Gap Ancona»[xvi]. Sulla situazione marchigiana, quanto ai Gap, proprio quest’ultima fonte ricorda le insidie e osserva: «I distaccamenti Gap agivano secondo le possibilità che si presentavano; molto spesso avvenivano degli atti sporadici non sempre controllabili, creando confusione e qualche volta anche degli abusi. Si cercò di mandare i commissari politici nei Gap ma le difficoltà stavano perché vi era scarsità di uomini capaci»[xvii]. Un’altra fonte, a proposito di armamento, logistica e vettovagliamento: «Una sola era la soluzione dei problemi: agire alla garibaldina! Per questi e per altri casi del genere è doloroso dover denunciare che i Gruppi di azione patriottica (Gap), sorti per provvedere ai bisogni della brigata, non hanno più risposto e hanno trascurato gli uomini costretti alla dura vita della montagna»[xviii]. Il tema è connesso agli schieramenti politici e alla sostituzione controversa di un comandante; qui non può essere approfondito.

Lo stesso Ricompart comprende «Fascicolo personale di Smuraglia Carlo, n. 8029», che contiene il modulo a sua firma, compilato a mano in nero; si dichiara «caporal maggiore di fanteria volontario nel Gruppo di Combattimento “Cremona” in tutta la guerra di liberazione», con incarico di comando nelle formazioni partigiane «comando del gruppo Sasso-Sant’Elena del dist. Serra San Quirico». Dichiara di aver fatto parte della brigata Gap Ancona, distaccamento Serra San Quirico, «dalla costituzione (ottobre-novembre 1943) fino alla liberazione». Un intervento in blu sovrascrive l’inizio dell’appartenenza con «1.11.43» e aggiunge dopo «liberazione» così: «18.7.44». Sono le date che compaiono nella scheda personale. Di seguito, dove il modulo richiede «fatti d’armi e sabotaggi a cui ha partecipato», si legge:

Il gruppo operava alle dipendenze del distaccamento Serra San Quirico ed ha agito isolatamente nella sua zona per tutti i normali servizi di approvvigionamento, misure di sicurezza, ecc. Ha partecipato alle operazioni di brillamento del ponte di Mergo e alle varie operazioni intorno al [incomprensibile] degli Angeli. Sottrasse all’Ufficio IES delle Ferrovie (in mano dei tedeschi) di Castelplanio stazione il documento con tutto il piano di brillamento delle officine elettriche, portandolo al Comando per provvedimenti. Operazione contro il Segretario politico di Jesi, Riccardo della Bella ed altri noti fascisti, al Sasso.

Subito dopo, in blu: «Visto si conferma poiché fece continuamente staffetta», con la firma «Frillo». È il nome di battaglia di Alfredo Spadellini[xix], con funzioni nella Commissione regionale riconoscimento qualifica partigiani delle Marche[xx].

Gli archivi non bastano, è bene interpellare l’interessato. Smuraglia conferma la contrarietà al reducismo, il disinteresse per i racconti di guerra e la preferenza per la sostanza, i valori, le scelte. Esclude di aver rivendicato riconoscimenti o altro, per quel periodo. Ricorda i suoi meriti nell’Anpi. Elenca libri, quasi tutti a sua cura. Aggiunge: «Spero di aver risposto con chiarezza ai suoi interrogativi, assicurandole – per sua tranquillità – che tutto ciò che ho fatto in quel periodo è ampiamente e pienamente documentato»[xxi].

È possibile un approfondimento più concreto? Secondo una storica, che ha anche intervistato Smuraglia nel 2017, dopo l’arruolamento dei giovani nelle formazioni militari inquadrate con gli Alleati, alcuni sono inviati per l’addestramento a Cesano, altri no: «I contingenti partiti da Perugia, Terni o Ancona all’inizio del 1945 sono mandati direttamente nel Ravennate ed entrano in linea dopo pochi giorni dall’arrivo e dopo aver ricevuto un addestramento sommario all’uso delle armi inglesi»[xxii].

Sempre nel Ricompart, in «Fascicolo personale di Smuraglia Carlo, n. 8029», c’è una lettera del 19 luglio 1946, intestata «Partito comunista italiano, federazione provinciale di Pisa», indirizzata «caro Sarti» e firmata da Smuraglia. Rodolfo Sarti presiede la Commissione regionale per le Marche sino a febbraio 1948[xxiii]. Il mittente chiede aiuto per il riconoscimento della qualifica di partigiano. Prima non gli serviva, ma ora sì, altrimenti dovrebbe pagare tutte le tasse arretrate dell’università; soprattutto, senza la qualifica dovrebbe attendere due anni per fare l’esame di procuratore; la partecipazione alla guerra di liberazione nel Cremona non basta perché è durata troppo poco («ho combattuto solo quattro mesi e non un anno, come è richiesto»). Parole che si conciliano a fatica con quello che ha raccontato in seguito, cioè l’arruolamento nel Cremona dopo la liberazione di Ancona e dopo due mesi di discussioni[xxiv], e la partecipazione alla liberazione di Venezia, a fine aprile 1945[xxv]. Ancona è liberata il 18 luglio 1944[xxvi]; fra la liberazione di Ancona e quella di Venezia ci sono nove mesi abbondanti.

Gli elementi noti, considerando anche l’intervista del 2017, lasciano congetturare così: Smuraglia, dopo la liberazione di Ancona, partì a gennaio del 1945 o, meno verosimilmente, a fine dicembre del 1944, ed è per questo che il suo periodo nel Cremona fu di quattro mesi, come dice nella lettera del 1946. Sono compatibili con questa versione anche due relazioni dell’Ufficio del rappresentante militare dei patrioti: all’arrivo degli Alleati in un primo momento «nessuna banda seguì le truppe nelle successive operazioni militari»; successivamente l’arruolamento proposto dal governo italiano prima ebbe poco ascolto ma poi, sostenuto dal Cln, a gennaio 1945 ebbe successo[xxvii]. Comunque in un certo arco di tempo, prima o dopo la partenza col Cremona, Smuraglia, studente universitario iscritto a Pisa, sostenne esami a Camerino (in tempo di guerra era consentito)[xxviii].

Nel seguito della lettera del 1946 il giovane è in apprensione: «La preoccupazione deriva dal fatto che i fatti d’arma del mio gruppo furono pochi e non tutti di rilievo. Facendo parte del Gruppo di Peppe da Roma, non c’è forse da meravigliarsi che persone oneste si siano trovate isolate». Aggiunge il suo punto di vista sulla sottrazione del piano di distruzione delle officine elettriche: se ne poteva salvare almeno qualcuna, ma quando portarono il documento al «Comandante» (tra virgolette) quello osservò che era un bel disegno ma che non valeva la pena rischiare uomini. Commenta: «E pensa che il lavoro si svolse quasi sempre così». Non è possibile attribuire torti, ragioni o malintesi. Indirettamente lo scritto getta ombre su altri: le persone oneste erano isolate, cioè circondate dalla disonestà. Comunque, un’altra fonte accenna alla costituzione di un gruppo, sulla montagna di Serra San Quirico, comandato da «Peppe Romano», fra il 24 marzo e i primi di aprile 1944, dopo un periodo critico[xxix]. Quanto alla lettera, c’è una difficoltà di raccordo con la scheda: se il comandante era un altro è oscura la rivendicazione di un incarico di comando, ma forse Smuraglia si riferisce all’aver comandato il gruppo Sasso-Sant’Elena; però allora c’è un’incongruenza fra la scheda e il libro già citato («né incarichi di comando, né medaglie»).

Ancora nella lettera: «Certo, il mio contributo sarà stato modesto, ma sono andato poi ancora in guerra con la “Cremona”; dunque, la volontà c’era, dal momento che la guerra di liberazione l’ho fatta fino in fondo e sono stato anche decorato. Credo di non chiedere troppo». Quanto all’essere decorato: sempre nel libro citato, «né incarichi di comando, né medaglie»; ma potrebbe riferirsi al certificato al patriota o «brevetto Alexander», cui accenna poco prima.

Il sostegno chiesto c’è, e le parole in blu ridefiniscono le cose: continuamente staffetta. In cima alla lettera ci sono il timbro «partigiano» e una firma blu uguale a quella sotto la dichiarazione «Visto si conferma poiché fece continuamente staffetta» sul modulo: «Frillo». A intervenire sul modulo e a firmare sulla lettera il timbro col sunto del provvedimento è la stessa persona: Alfredo Spadellini. È stato combattente in Spagna, incarcerato, confinato, partigiano[xxx].

Nel 1946 non si può prevederlo, ma questo avrà un peso. Quanto all’appartenenza di Smuraglia all’Anpi, per capire meglio bisognerebbe sapere a quando risale; comunque, molti anni dopo la guerra lo statuto dell’associazione ha previsto anche l’ammissione dei combattenti militari[xxxi] (ancora dopo, dal 1991, Smuraglia ha fatto parte del consiglio nazionale[xxxii]). Quanto alla sua posizione, sino a ridosso dell’arrivo di Carla Nespolo si dirà che l’Anpi è stata presieduta sempre da partigiani.

È difficile superare un senso di perplessità, leggendo la missiva del 1946. Va riconosciuto che Smuraglia fece pur qualcosa e che si comportò ben diversamente da chi si schierò col nazifascismo, o da chi semplicemente si fece i fatti suoi. Ma la condotta successiva, quando è già attivo in politica e scrive su carta intestata di un partito, ha il sapore di un fardello accorto che si riproduce imperterrito attraverso l’Italia postunitaria, il fascismo e la democrazia, capace di abitare la politica, la prassi e il costume, sciorinando i meriti, tacendo i limiti o ammettendoli solo fra vicini.

Facciamo un’ipotesi: nel 1946 Smuraglia, conoscendo la realtà e le circostanze che lo riguardano fra il settembre 1943 e la liberazione di Ancona, presenta la domanda alla Commissione, coi nudi fatti, senza chiedere appoggi. Forse gli riconoscono lo stesso la qualifica di partigiano, forse no. Alla peggio la domanda è rigettata, e non viene certo trattato come la dittatura trattava i non tesserati: l’esito è che deve pagare le tasse universitarie dall’autunno 1943 e che per fare l’esame di procuratore gli occorrono due anni di pratica. Ma tasse e soprattutto tirocinio sembrano timori insuperabili.

Certo, ci tiene a entrare nel mondo del lavoro. Nel modulo in cui si dichiara «caporal maggiore di fanteria volontario nel Gruppo di Combattimento “Cremona” in tutta la guerra di liberazione», alla voce professione abituale scrive «pratica di procuratore». Questo conferma la voglia di lavorare e, sia chiaro, bisogna essergli riconoscenti se trascurò la pratica legale, si sottrasse all’arruolamento nella repubblichina e dopo combatté nel Cremona: rischiò e lo fece per la nostra libertà. La apprezzo e sono libero di dire il mio disagio: nella lettera del 1946 non vi è cenno a una necessità interiore, a un bisogno di appartenenza; non si parla di politica, si chiude con «saluti fraterni» ma non c’è mai la parola compagno. Si tace sul successo epocale di qualche settimana prima: c’è la Repubblica, i Savoia sono in Portogallo. Non ci sono neanche i desideri umanissimi di un giovane, nell’Italia tornata alla vita, come la voglia di non sfigurare, di avere belle frequentazioni, di far colpo su una ragazza. Il mittente ha scelto: senso pratico e carriera, e per questo il riconoscimento di partigiano fa comodo.

Evitando di fare di Smuraglia il bersaglio di rampogne fuori misura, va detto, più in generale, che un combattimento spontaneo difficilmente va d’accordo con la burocrazia e che questa si concilia male con quello. Così, la questione dei riconoscimenti e degli inquadramenti successivi non è una novità, in Italia. Dopo l’impresa dei Mille l’ingresso dei garibaldini nell’esercito fu contrastato; Raffaello Giolli – prima di essere catturato, torturato e deportato a Mauthausen Gusen, dove morirà – in La disfatta dell’Ottocento ricorda lo zelo selettivo di Genova di Revel:

Neppur fra i veterani permette che s’iscrivano: non bastano ferite e strazi: sono necessari documenti, bolli, certificati. Una folla d’ogni genere, di sciancati e malati, assedia l’ufficio napoletano dello svelto conte piemontese: egli chiede certificati, anche se troppa di quella gente nel giorno d’un’insurrezione aveva preso le armi senza pensar prima a farsi una dichiarazione notarile, anche se era pur noto che la rivoluzione s’era sempre fatta senza verbali autentici[xxxiii].

Quanto a ciò che accadde dopo il 1945, Claudio Pavone osserva:

Per cementare la visione unitaria l’aspetto patriottico fu […] nettamente privilegiato a danno non solo di quello di classe, ma anche di quello “civile”. Corollario ne fu che le truppe messe faticosamente insieme dal regno del Sud – il Corpo italiano di liberazione – e che combatterono a fianco degli Alleati sul fronte italiano sono state in misura sempre maggiore, nelle celebrazioni ufficiali, assimilate ai partigiani, con scarso rispetto della verità storica[xxxiv].

Eppure la distinzione fra partigiani e militari era chiara e gli antifascisti ci tenevano. Per esempio, poco dopo la guerra, così nella prefazione a La Resistenza Italiana, poi compresa nel volume Antologia della Resistenza, frutto di una decisione presa nel 1950 al congresso dei centri del libro popolare:

Il contributo maggiore alla vittoria alleata sul fronte italiano, anche se meno appariscente e meno noto, è stato indubbiamente quello fornito da noi partigiani. Ma non è stato il solo. Dal fronte di Abruzzo sin oltre Bologna combatterono con gli Alleati numerose truppe italiane dell’esercito regolare. […] Erano divisioni organiche: ma furono chiamate “Gruppi di combattimento” perché anche il nome “divisioni” parve compromettente. Furono frazionate tra le grandi unità alleate: non si volle riunirle in un’armata organica perché un esercito italiano non figurasse tra i combattenti e i vincitori[xxxv].

E così nel volume Il secondo Risorgimento d’Italia, nel decennale della Liberazione:

Nella guerra partigiana le regole militari, i manuali di stato maggiore, le formulette imparate alla scuola allievi ufficiali, non hanno alcun valore, e i galloni meno che meno. […] E i concetti militari si rovesciano: una squadra di partigiani può imporre a una divisione corazzata la sua tattica di combattimento, può fermare un’armata, può mettere in crisi un esercito: dipende solo da come essa combatte, dagli obiettivi che sceglie[xxxvi].

La differenza tra partigiani e militari era anche nelle canzoni: «Il bersagliere ha cento penne e l’alpino ne ha una sola, il partigiano ne ha nessuna e sta sui monti a guerreggiar»; più esplicita questa, ossolana: «Non c’è tenente né capitano, né colonnello né general: questa è la marcia dell’ideal, questa è la marcia del partigian».

Sempre sulle differenze, qualche caso noto, cominciando da due presidenti della Repubblica. Carlo Azeglio Ciampi, che combatté come militare, a volte era indicato come appartenente alla Resistenza; a chiarire, con intelligenza inconfondibile, è stato soprattutto Antonio Tabucchi[xxxvii]. Quanto a Giorgio Napolitano, a Napoli, si iscrisse al Pci nel 1945. Invece Giaime Pintor nel 1943 prima raggiunse il Sud, ma poi decise di riattraversare le linee verso Roma per raggiungere i partigiani. La sua lettera da Napoli del 28 novembre 1943 è celebre:

In tutto questo periodo è rimasta in sospeso la necessità di partecipare più da vicino a un ordine di cose che non giustifica i comodi metodi della guerra psicologica; e l’attuale irrigidirsi della situazione militare, la prospettiva che la miseria in cui vive la maggior parte degli italiani debba ancora peggiorare hanno reso più urgente la decisione[xxxviii].

La scelta fu eccezionalmente coraggiosa. Pintor colse un problema e uno spartiacque:

A un certo momento gli intellettuali devono essere capaci di trasferire la loro esperienza sul terreno dell’utilità comune, ciascuno deve saper prendere il suo posto in una organizzazione di combattimento. Questo vale soprattutto per l’Italia. Gli italiani sono un popolo fiacco, profondamente corrotto dalla sua storia recente, sempre sul punto di cedere a una viltà o a una debolezza. Ma essi continuano a esprimere minoranze rivoluzionarie di prim’ordine: filosofi e operai che sono all’avanguardia d’Europa[xxxix].

Chi scriveva con questa lucidità aveva ventiquattro anni e saltò su una mina. Franco Antonicelli, commentando la lettera: «C’è stata questa vera rivoluzione, quel riscatto, quella rigenerazione totale? Cominciò, non fu portata a termine. Cominciò e si chiamò guerra partigiana, vittoria repubblicana, Costituzione democratica. Che ne resta della vittoria, quale autorità, quale fondamento ha la Costituzione?»[xl].

Per Smuraglia né Quirinale né mina, ma una vita lunga quattro volte quella di Pintor e densa: avvocato, cattedra universitaria, Regione Lombardia, Consiglio superiore della magistratura, tre legislature in Senato, presidenza dell’Anpi.

Naturalmente si può dire che si sa come vanno le cose, che l’Italia è fatta così. Gaetano Salvemini nel 1947, tirando le fila, prova a contare i partigiani e chi li sosteneva, ammette l’incertezza, guarda alla sostanza:

E quand’anche gli italiani che sono fatti diversamente fossero non centomila, ma appena mille, cento, dieci, uno solo, quell’uomo solo – degno di rispetto, e non carogna – dovrebbe tener duro e non mollare. E sarebbe dovere approvarlo, incoraggiarlo, sostenerlo e non dirgli: “Pensa alla salute, tira a campare, chi te lo fa fare, bada ai fatti tuoi, lascia correre: gli italiani son fatti così”. Un uomo degno di rispetto è una ricchezza che non si deve buttar via[xli].

Adesso il «chi te lo fa fare» consiglia sia di evitare approfondimenti delicati su una figura conosciuta, sia di non urtare la sensibilità dell’associazione che ha presieduto.

Invece no. Qualcosa mi impedisce di lasciar correre. Dei partigiani che ho incontrato ricordo quello che, arrestato e spedito in Germania, si gettò da un treno in corsa per tornare a lottare; e quello che, bambino, imbracciò il mitra e alla Liberazione lo sotterrò smontato in una latta d’olio. Ricordo lei, che negli anni Ottanta abitava in una casa con due uscite, per quando viene la Gestapo. E lui, il francese: la guerra era finita da decenni, ma al caffè non si sedeva se non poteva vedere la porta; chiesi il motivo, sorrise solo con gli occhi. Ecco, me lo impediscono loro.

La storia della Resistenza è più grande di fatti personali, ma senza fatti e persone non c’è storia. Perché proprio Smuraglia? Nella Commedia Cacciaguida invita a dire la verità («e lascia pur grattar dov’è la rogna») e spiega l’importanza delle «anime che son di fama note»; si direbbe oggi, l’importanza del nome. Non si cattura l’attenzione «per essemplo ch’aia / la sua radice incognita e ascosa». Per parlare di quella generazione e di ciò che le sue vicende hanno fatto sedimentare bisogna prendere un essemplo di fama.

Il bisogno acritico di punti di riferimento non è un tratto esclusivo del fascismo, e l’accettazione di versioni tranquillizzanti, magari guardando con freddezza chi le mette in dubbio, non porta nulla di buono. Questo conta, più di cosa abbia fatto un ragazzo dal 1943 al 1945.

Per chi considera divisivo mettere in discussione queste cose, c’è Partigia, di Primo Levi: «Ci guarderemo senza riconoscerci, / diffidenti l’uno dell’altro, queruli, ombrosi». I partigiani non sono mai stati un blocco uniforme, quelle sono comodità per chi ha voglia di ubbidire; coi partigiani è diverso: «In piedi, vecchi, nemici di voi stessi: / la nostra guerra non è mai finita».

[i] Stragi naziste e fasciste sull’Appennino Tosco-Romagnolo, a cura dell’Istituto di Storia della Resistenza e dell’Età Contemporanea di Forlì-Cesena, Società editrice Il Ponte Vecchio, Cesena 2003, p. 105.

[ii] Renzo Vanni, La Resistenza dalla Maremma alle Apuane, Giardini, Pisa 1972, p. 220.

[iii] Carlo Smuraglia e Francesco Campobello, Con la Costituzione nel cuore. Conversazioni su storia, memoria e politica, Edizioni Gruppo Abele, Torino 2018, p. 15.

[iv] Ivi, pp. 15-16.

[v] Ivi, p. 17.

[vi] «I ragazzi delle scuole dove ci rechiamo a parlare, oggi, tra le tante domande ci chiedono cosa facessimo tutto il giorno nel periodo della Resistenza. Ebbene, c’erano giorni in cui non si faceva nulla, si restava nell’attesa di un’azione di guerriglia, si aspettava e si preparava l’occasione per un attacco. In quei giorni c’era spazio per discutere, confrontando le opinioni e le idee diverse che si andavano formando tra i più anziani e i giovanissimi», Carlo Smuraglia, Riflessioni sulle motivazioni dei volontari provenienti dalle file partigiane e arruolati nell’esercito italiano, in Carlo Smuraglia (a cura di), I volontari partigiani nel rinnovato esercito italiano, viella, Roma 2018, p. 23; il libro è realizzato col finanziamento del Ministero della difesa. In Gad Lerner e Laura Gnocchi (a cura di), Noi partigiani. Memoriale della Resistenza italiana, Feltrinelli, Milano 2020, pp. 85-86, Smuraglia racconta che nelle Marche si formò un gruppo; «Progressivamente, il gruppo si organizzò, tentò di collegarsi a formazioni più grandi, ma senza successo. Quindi, finimmo per organizzarci in forma di Gap (Gruppo di azione patriottica), impegnandoci per alcuni mesi nella guerra partigiana sulle montagne delle Marche. Non mi addentro nei particolari, perché non facemmo nulla di eccezionale né di diverso da tanti altri».

[vii] «Nelle mie Marche. Ero alla Normale di Pisa, lasciai perdere gli studi e tornai a casa per sottrarmi alla leva. Il fascismo mi aveva richiamato alle armi, ma io disertai nascondendomi. Conobbi dei partigiani e decisi di aderire anch’io alla lotta contro il nazifascismo», in Concetto Vecchio, Anpi, il partigiano Smuraglia: «Quella dell’Ucraina è Resistenza e va aiutata anche con le armi», www.repubblica.it, 18 marzo 2022, accesso 4 aprile 2022.

[viii] All’Archivio centrale dello Stato (d’ora in avanti ACS), fondo Ricompart, le schede sono 75 ma due sono della stessa persona. Ancora in ACS, fondo Ricompart, busta «Ricompart Marche AN 3 elenco formazioni Ancona», la rubrica «Ancona XIV, brig. Garibaldi Serra San Quirico», coi nomi in ordine alfabetico, che comprende anche Smuraglia, contiene un riepilogo in cui i Gap di Serra San Quirico consistono di 50 partigiani e 28 patrioti, totale 78, con 18 «non pubblicati». Sempre in ACS, fondo Ricompart, il documento Comando V Brigata B Garibaldi, citato in seguito, p. 23, per il periodo dal 12 giugno 1944 indica il distaccamento Serra San Quirico come composto da 100 uomini.

[ix] Così Luigi Longo, Un popolo alla macchia, Mondadori, Milano 1952, pp. 177-183.

[x] ACS, fondo Ricompart, busta «Ricompart Marche, formazioni partigiane Marche, 1) relazioni sulla attività svolta nella provincia di Ancona, 2) relazioni di 45 distaccamenti. 18», fascicolo «1 Formazioni partigiane, Marche, Relazione sull’attività svolta nella provincia di Ancona», Comando V Brigata B Garibaldi, comprendente l’ordine di operazione n. 1, del 19 giugno 1944, e una relazione a firma del commissario politico Gino Grilli e del comandante colonnello Remo Corradi. La relazione, col titolo Relazione sulla vita e l’attività della Brigata Garibaldi poi V Brigata Garibaldi Ancona, è anche in Istituto di storia contemporanea della Provincia di Pesaro e Urbino, fondo Mari Giuseppe (in memoriedimarca.it, accesso 5 maggio 2022).

[xi] Comando V Brigata B Garibaldi, cit., p. 3.

[xii] Ivi, p. 4.

[xiii] Ivi, p. 44.

[xiv] Ivi, p. 2.

[xv] Istituto di storia contemporanea della Provincia di Pesaro e Urbino, fondo Mari Giuseppe, Schema della vita della brigata Ancona dall’ottobre 1943 al giugno 1944, 15 agosto 1944 (in memoriedimarca.it, accesso 5 maggio 2022), p. 1.

[xvi] Istituto di storia contemporanea della Provincia di Pesaro e Urbino, fondo Mari Giuseppe, Per la storia della divisione Marche, a firma di Rodolfo Sarti (in memoriedimarca.it, accesso 5 maggio 2022), p. 24.

[xvii] Ivi, p. 22.

[xviii] Istituto di storia contemporanea della Provincia di Pesaro e Urbino, fondo Mari Giuseppe, Relazione brigata Ancona, 25 ottobre 1944, a firma di Amato Tiraboschi (in memoriedimarca.it, accesso 5 maggio 2022), p. 5.

[xix] Comando V Brigata B Garibaldi, cit., p. 24.

[xx] ACS, fondo Ricompart, busta «Ricompart Commissione marchigiana, carteggio 46-47, 47-48, 48-49», Relazione sulla ispezione alla Commissione regionale riconoscimento qualifica partigiani delle Marche, p. 1; Spadellini è indicato come segretario dal 27 febbraio 1948.

[xxi] Carlo Smuraglia, lettera a Luca Baiada, 27 settembre 2021.

[xxii] Roberta Mira, Dalla Resistenza all’esercito. Volontari partigiani nelle truppe regolari durante la campagna d’Italia, in Smuraglia (a cura di), I volontari partigiani nel rinnovato esercito italiano, cit., p. 102 (in nota cita un’intervista a Smuraglia fatta dall’autrice il 13 novembre 2017).

[xxiii] Relazione sulla ispezione alla Commissione regionale riconoscimento qualifica partigiani delle Marche, cit., p. 1.

[xxiv] «Mi riferisco alla scelta fatta molti mesi dopo, nell’estate del 1944, quando venne liberata Ancona. […] Trascorsero due mesi in discussioni fra quelli che, come me, erano tornati a casa dopo aver fatto, in varie forme, la Resistenza», Smuraglia e Campobello, Con la Costituzione nel cuore, cit., pp. 18-19.

[xxv] «Abbiamo innalzato la bandiera italiana solo quattro ore prima dell’arrivo degli Alleati. […] Se non erro, a Venezia siamo arrivati il 28-29 aprile», ivi, pp. 21 e 25. La partecipazione alla liberazione di Venezia è anche in Smuraglia, Riflessioni sulle motivazioni dei volontari provenienti dalle file partigiane e arruolati nell’esercito italiano, cit., p. 26.

[xxvi] Massimo Coltrinari, I percorsi di ricostruzione delle forze armate dopo l’8 settembre 1943, in Smuraglia (a cura di), I volontari partigiani nel rinnovato esercito italiano, cit., p. 17.

[xxvii] ACS, fondo Ricompart, busta «Ricompart Marche, formazioni partigiane Marche, 1) relazioni sulla attività svolta nella provincia di Ancona, 2) relazioni di 45 distaccamenti. 18», fascicolo «2 Formazioni partigiane Marche (AN), Relazioni di 45 distaccamenti», «Ancona, Relazioni bande», sottofascicolo «Collegamenti fra VIII Armata e Bande patrioti», Ufficio del rappresentante militare dei patrioti, relazione alla Commissione alleata e alla Presidenza del consiglio, firmata dal capitano Corrado Scoto, senza data ma con protocollo 3 marzo 1945, e Ufficio del rappresentante militare dei patrioti, relazione del 15 gennaio 1945 alla Presidenza del consiglio, firmata dallo stesso Scoto.

[xxviii] Smuraglia, Riflessioni sulle motivazioni dei volontari provenienti dalle file partigiane e arruolati nell’esercito italiano, cit., p. 24.

[xxix] Schema della vita della brigata Ancona dall’ottobre 1943 al giugno 1944, cit., p. 2.

[xxx] www.antifascistispagna.it, accesso 12 aprile 2022.

[xxxi] Lo statuto approvato col d. luog. 5 aprile 1945 n. 224 è stato modificato col d.p.r. 26 febbraio 1970 n. 199.

[xxxii] Lucio Cecchini, Per la libertà d’Italia, per l’Italia delle libertà. Profilo storico dell’Associazione nazionale partigiani d’Italia, Arti grafiche Jasillo, Roma 1998, volume secondo, 1961-1997, pp. 399 e 407.

[xxxiii] Raffaello Giolli, La disfatta dell’Ottocento, Einaudi, Torino 1961, p. 213.

[xxxiv] Claudio Pavone, La Resistenza in Italia: memoria e rimozione, in «Rivista di storia contemporanea», XXIII-XXIV, 4 (1994-1995), pp. 484-492 (testo di una relazione al convegno La Guerre civile entre histoire et mémoire, La Roche-sur-Yon, ottobre 1994), specialmente p. 488.

[xxxv] Ferruccio Parri, Raffaele Cadorna, Luigi Longo, Giovanni Battista Stucchi, Enrico Mattei, Mario Argenton, Che cosa fu la Resistenza in Italia, prefazione a La Résistance Italienne (pubblicato anche col titolo La Resistenza Italiana), in Luisa Sturani Monti, Antologia della Resistenza. Dalla Marcia su Roma al 25 aprile, Edizioni Gruppo Abele, Torino 2012, pp. 125-126.

[xxxvi] Fausto Vighi, La Resistenza in Corsica, nei Balcani e nell’Egeo, in Aa.Vv., Il secondo Risorgimento d’Italia, Centro Editoriale d’Iniziativa, 1955, p. 43. Il volume comprende contributi di Francesco Flora, Luigi Longo, Ferruccio Parri, Raffaele Cadorna, Joyce Lussu, Giuseppe Mari, Italo Calvino, Renata Viganò, Mario Socrate e altri.

[xxxvii] Antonio Tabucchi, L’oca al passo. Notizie dal buio che stiamo attraversando, Feltrinelli, Milano 2006, p. 18.

[xxxviii] L’ultima lettera di Giaime Pintor, in Sturani Monti, Antologia della Resistenza, cit., p. 172.

[xxxix] Ivi, p. 174.

[xl] Cecchini, Per la libertà d’Italia, per l’Italia delle libertà, cit., volume primo, 1944-1960, p. 124.

[xli] Gaetano Salvemini, Gli italiani son fatti così, in Sturani Monti, Antologia della Resistenza, cit., p. 47.

 

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