La grande trasformazione. Dopo la Prima guerra mondiale

Numero 8-9 agosto-settembre 2014 Prezzo € 10.00

Prima guerra mondialea cura di David Bidussa e Andrea Panaccione

Abbiamo intitolato questo monografico La grande trasformazione. Dopo la Prima guerra mondiale perché riteniamo che a un secolo di distanza piú che un bilancio, già piú volte tracciato, sia necessario valutare che cosa si inaugura a partire da quel momento. Siamo convinti che il problema sia indagare le trasformazioni che da allora si avviano e che spesso interessano ancora il nostro presente in Europa come fuori dall’Europa. Non abbiamo una diagnosi e soprattutto pensiamo che occorra pazientemente provare a scavare nel Novecento perché la domanda di sintesi ha spesso accantonato i processi trasformativi, specie quelli che ancora oggi risultato aperti e che si originano a partire da quell’evento, dalle sensibilità che provoca.
Il centenario della Prima guerra mondiale certamente costituisce l’opportunità per riflettere su cosa fosse l’Europa alle soglie del conflitto, ma soprattutto su che cosa sarebbe diventata.

Nella discussione che si sta avviando non solo in Italia, ciò che prevale è l’indagine intorno al “vissuto bellico”. L’attenzione è cosí sulle parole, sulle forme della memoria dei molti che furono coinvolti nel conflitto. Anche in conseguenza delle molte forme del documento (non piú solo lo scritto, ma anche il sonoro; non piú solo il visuale, ma anche il digitale) tornano “a parlare” voci e figure che pure hanno avuto in altri tempi un loro spazio. Lo storytelling di figure canoniche che la guerra di trincea, la mobilitazione collettiva, la realtà delle retrovie hanno messo piú volte al centro della vicenda bellica, vive oggi una nuova stagione.
Si potrebbe ritenere che questa fisionomia sia l’ultimo prodotto di una storiografia che a partire dagli anni ottanta ha ragionato molto per figure, “idealtipi”, funzioni sociali. Il nostro intento è in gran parte diverso e nasce dall’idea che con quel conflitto s’inauguri una lunga stagione politica, culturale, sociale ed economica, la quale attraversa una parte consistente o comunque significativa del Novecento. In alcuni casi fino a innervare o a dare un volto anche all’inizio del XXI secolo.
La nostra idea non è quella di riprendere la periodizzazione introdotta con Il secolo breve di Hobsbawm, ma di prendere spunto dalla Prima guerra mondiale e proporre alcune categorie come capaci di dare un volto o di disegnare una lunga parabola storica, e rispetto alle quali trarre anche un bilancio.
Non necessariamente tutti i temi o le parole-chiave che proponiamo seguono lo stesso percorso cronologico, ma tutte assumono una loro fisionomia con la Prima guerra mondiale. La guerra indubbiamente mette insieme esperienze, categorie e figure sociali che in gran parte emergono come vere e proprie novità, marcano una differenza tra un prima e un dopo. Ne elenchiamo tre che non abbiamo affrontato nei contributi presenti in questo fascicolo ma che costituiscono un elemento di assoluta novità nello scenario che la guerra apre e la fine della guerra consolida.
Il primo punto è costituito dalla figura dello Stato. La questione non riguarda tanto se lo Stato in quel frangente abbandoni la sua pratica liberista e si inauguri una pratica interventista. Il problema è cosa significhi inaugurare quella pratica: una politica che mette in campo principalmente, anche se non esclusivamente, sistemi di protezione e di controllo, piú che di distribuzione della ricchezza. Da questo punto di vista il ruolo dello Stato si configura come una trasformazione che coinvolge non tanto le politiche economiche, ma le forme della tutela e procede parallelamente alla definizione della cittadinanza nel corso del Novecento, anche lontano dalla guerra.
Lo stesso tipo di questione riguarda l’ingresso e l’accredito che la psicoanalisi acquisisce con la guerra. Il problema non è solo nelle terapie che accompagnano il disagio o favoriscono il reinserimento, ma soprattutto la metamorfosi del ruolo assegnato a una disciplina, prima della guerra intravista come un elemento perturbatore dell’ordine e ora assunta come uno strumento necessario per garantirlo. Una disciplina che fonda le politiche di controllo, ma anche modula e definisce la propaganda, le forme della comunicazione (verbale e, soprattutto, iconografica) e influisce sulla costruzione del linguaggio politico pubblico.
Il terzo elemento è espresso dalla demografia. Le diverse società dell’Europa che entrano in guerra sono caratterizzate da un alto tasso di natalità. Quel tasso di natalità non viene recuperato nel dopoguerra e nel lungo secolo che ci divide da allora non è mai tornato ai livelli antecedenti il 1914, anche in quei regimi (per esempio l’Italia fascista) che trasformano la questione del numero in un obiettivo politico.
Abbiamo cercato, insieme ad altri studiosi, di considerare alcuni lemmi e valutare come la guerra modifichi radicalmente l’organizzazione sociale, la percezione di sé, i contenuti programmatici della propria presenza pubblica.
Ne è emerso un primo set di lemmi e di concetti che riguardano: le forme della rappresentazione delle nazioni e dei caratteri nazionali; il lavoro e la sua inclusione nella tipologia dei diritti e nei sistemi di rappresentanza; i ruoli, le funzioni, i rapporti con il potere degli intellettuali; la nuova diplomazia e gli intrecci con le forme della propaganda; il cinema e la comunicazione visuale come nuovo racconto sulle masse e per le masse; le esperienze, le memorie, gli usi della violenza nella vita sociale. Questi lemmi da soli non definiscono la trasformazione indotta dalla Prima guerra mondiale, ma consentono di dare periodizzazioni diverse ai percorsi culturali, politici, emozionali, identitari, sociali, che hanno attraversato il Novecento.
La Prima guerra mondiale segna il momento in cui molti soggetti fino a quel momento esclusi o marginali entrano nella storia consapevolmente e modificano la loro vita. Misurarsi con la guerra implica mettere in campo scelte, modificare abitudini, definire atteggiamenti, mutare linguaggio, dare nuovo senso a contenuti spesso simbolici.
Quelle trasformazioni hanno contemporaneamente due aspetti: non sono percepite come reversibili, ovvero non sono assunte come “eccezionali” o come una parentesi; inaugurano percorsi con cui ancora ci troviamo a confrontarci.
Non è uno stato d’animo nuovo e per certi aspetti non riguarda se una scena è lontana o meno da noi, ma quanto noi affidiamo a quella scena il ruolo di generatore del nostro presente, talché interrogare quella scena nel passato è un modo di riconsiderare anche ciò che è avvenuto dopo.
Circa cinquant’anni fa, nel corso di un ciclo di lezioni sulla storia, uno storico inglese oggi non molto di moda,  Edward H. Carr, si poneva lo stesso problema. In quel contesto in piena guerra fredda era la questione russa a suscitare quel meccanismo. La risposta di Carr conteneva un nucleo di saggezza che è bene non disperdere.
Cosí si rispondeva Carr: «Lo scorso trimestre ho visto qui a Cambridge l’annuncio di una conferenza cosí concepito: La Rivoluzione russa era inevitabile? Senza dubbio la domanda voleva essere assolutamente seria. Ma se avessimo visto annunciare una conferenza dal titolo La guerra delle Due Rose era inevitabile? avremmo subito sospettato uno scherzo. […] Il fatto è che oggi nessuno vorrebbe davvero distruggere i risultati della conquista normanna o dell’indipendenza americana, o esprimere un’appassionata protesta contro questi fatti: pertanto, nessuno muove obiezioni allo storico che li esamina come un capitolo ormai chiuso della storia. Ma molta gente che ha direttamente o indirettamente sofferto per i risultati della Rivoluzione sovietica, o che ne teme ancora le conseguenze piú lontane, vuole esprimere la propria protesta al riguardo: e quando legge un libro di storia, lascia che la propria immaginazione corra dietro a tutte le belle cose che avrebbero potuto verificarsi, […]. Il pasticcio della storia contemporanea è questo, che la gente si ricorda del tempo in cui tutte le alternative erano ancora aperte, e difficilmente riesce ad assumere l’atteggiamento dello storico per cui ogni alternativa è stata definitivamente bloccata dal fatto compiuto».
Interrogare oggi la Prima guerra mondiale, significa perciò cogliere il momento generativo di una realtà che ha preso forma durante e dopo quell’evento, attraverso molti segni, le loro diverse durate, e i periodici ritorni all’origine nella convinzione che un’altra realtà fosse possibile. Non si tratta di sposare questa o quella diagnosi, ma di vedere come quel quadro abbia una fisionomia instabile e ricorrente, continui ad agire sulle nostre convinzioni, e come a un secolo di distanza quei diversi percorsi disegnino la nostra contemporaneità, come il nostro linguaggio e il vocabolario pubblico che utilizziamo nascano in quei giorni, che cosa duri e che cosa e come si modifichi.

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