Da São Paulo (3)

Olof Palmedi Rino Genovese

Non è da poco quello che è successo in Brasile negli ultimi dieci-dodici anni, perché è il primo esperimento socialdemocratico ad ampio raggio che si sia visto sul continente sudamericano e in un paese di oltre duecento milioni di abitanti. La “socialdemocrazia reale”, quella che abbiamo conosciuto nei paesi nordici europei, appariva qualcosa di locale, buona per paesi ricchi abitati da quattro gatti, di forte tradizione protestante. Così è stata “vissuta” la Svezia: lo slogan “dalla culla alla tomba” (che indica la pervasività finanche un poco totalitaria dello Stato sociale, capace di accompagnare il cittadino lungo l’intero percorso della propria vita) è stato letto nei termini di uno statalismo eccessivo, che finiva non soltanto con l’addormentare le contraddizioni del capitalismo (questa era la critica da sinistra) ma anche con lo svuotare l’individuo della sua responsabilità (e questa era la critica da destra). Nel modello svedese, tuttavia, né il problema degli sviluppi ulteriori verso forme più avanzate di socialismo è mai stato precluso – Olof Palme poneva ancora la questione di un superamento del capitalismo –, né l’individuo è mai diventato un puro involucro vuoto, come sa chiunque abbia visto i film di Ingmar Bergman con i suoi conflitti morali e interpersonali.

Questa però sul vecchio continente è una storia chiusa. Da una parte, il difettosissimo processo d’integrazione europea – fin qui confiscato da un’élite tecnoburocratica e intralciato dai nazionalismi – impedisce qualsiasi possibilità di politiche economiche ridistributive a livello di una sovranità statale sovranazionale su basi federative (l’unica che potrebbe competere con i centri di potere neoliberisti, anch’essi sovranazionali), dall’altra, lo spegnersi, dopo l’Ottantanove, di qualsiasi discorso anche moderatamente anticapitalistico ha tagliato le gambe al socialismo europeo, incapace di progettualità in una maniera che ci ostiniamo, comunque, a considerare non irreversibile.

La fine della guerra fredda, invece, in Sudamerica ha aperto nuove prospettive. È un armamentario del passato il mito guerrigliero (che – lo si ricorderà – era tuttavia particolarmente inviso a Mosca), ed è sulla via della riforma sociale che si è attestata la sinistra sudamericana. In varie versioni: se in Venezuela non sono stati dismessi i panni del tradizionale caudillismo, e in Argentina è ancora il peronismo con le sue correnti alternativamente di destra e di sinistra a farla da padrone, nel subcontinente brasiliano, al contrario, è stata reinventata la formula europea di un partito del lavoro che si fa partito di governo.

La prospettiva brasiliana, che pure al momento conosce le sue difficoltà pratiche, c’interessa in modo particolare sul piano teorico in quanto sinistra italiana alla ricerca di un’identità. L’insegnamento da trarne è il seguente: l’idea di una forza politica che punti al governo è giusta, ma al tempo stesso è necessaria la consapevolezza che il governo non può essere un fine in sé, che il suo significato sta nelle politiche ridistributive che riesce a realizzare. Queste vanno condotte utilizzando la leva dell’intervento statale, nel quadro di un’economia mista pubblica e privata; quando però ciò diventi difficile o impossibile – per una crisi nello sviluppo, o perché lo Stato ridistributore non riesce più a farcela –, bisogna pensare alle alternative dal basso, quelle offerte da una socialità solidale extrastatale, come a fonti di energia rinnovabile adatte a dare una spinta ulteriore al processo riformatore.

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