Walter Veltroni e la rifondazione della sinistra

Veltronidi Massimo Jasonni

Walter Veltroni delinea su «la Repubblica», 29 agosto, una rifondazione della sinistra che tale, in realtà, non è. In essa si evocano due padri del socialismo, Piero Calamandrei e Altiero Spinelli, ma la citazione è tanto immotivata, quanto impropria alla luce del contesto. Di Calamandrei, che anche Berlusconi vantava fantasticamente essere suo affine, si tace il programma di trasformazione della società, fondato sul diritto al lavoro, sull’effettiva partecipazione dei lavoratori al governo, sul diritto al salario, ovvero l’essenza di un pensiero che si trasfuse in Costituzione repubblicana. Di Altiero Spinelli si omette di dire che l’Europa, di cui l’allievo di Cattaneo fu portavoce a Ventotene, ha a che fare con l’attuale Unione europea come le vongole alla marinara con il brodo dei tortellini.

Sicché la democrazia «veloce e trasparente», che Veltroni propone in contrappunto a una democrazia lenta e debole, non può essere accostata al ricordo di Calamandrei o di Spinelli, semmai rimanda a ciò che è rock e ciò che rock non è, di Adriano Celentano.

Il Nostro si appella poi a papa Francesco, sul cui pacifismo nessuno dubita, trattandosi di dogma basilare della teologia cristiana. Ma è pur vero che la storia del socialismo racchiude al suo interno un antimilitarismo di matrice politica ben vivo e pulsante, forse meritevole di una riconsiderazione che in Veltroni non c’è. Anche quanto al tema della memoria, sicuramente derelitta nell’universo del dominio delle oligarchie finanziarie sul Diritto e sulla Politica, il richiamo veltroniano a Enzo Bianchi ci sta, ma è sintomatico che esso non faccia minimo appello alle pagine di Aldo Capitini sulla nonviolenza e sulla compresenza, nella storia, dei vivi e dei morti. Pagine che gradiremmo sapere se Veltroni amerebbe fossero reinserite nei programmi scolastici.

Non abbiamo alcun motivo per «strologare sulle ragioni» dello scritto di Veltroni. Più semplicemente ne riscontriamo una mancata rifondazione della sinistra, un retroscena, in definitiva, non poi così distante, salva diversità di toni e accenti, dal palco che contestammo, sin dalla prima sua apparizione, della Stazione Leopolda. Il quadro già allora appariva non laico e geneticamente altro rispetto alle tradizioni socialiste del nostro paese.

In ogni caso, non appare rifondativa di un partito che abbia anima “liberalsocialista”, nei termini forgiati da Capitini, una riflessione che non parta dalla spaventosa divaricazione creatasi tra pochi troppo facoltosi e troppi in condizioni di indigenza; e che trascuri di cogliere le cause della desertificazione culturale, il vuoto etico-politico che ammorba il c.d. postmoderno.

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