La crisi del Csm

Csmdi Giancarlo Scarpari

Per anni ci avevano raccontato che nella magistratura vi era una parte sana, che in silenzio applicava la legge con imparzialità e un’altra invece politicizzata, che volgeva il diritto a fini di parte.

Lo avevano sostenuto per primi quei giudici che, raccolti sotto la sigla di «Magistratura indipendente», non perdevano occasione per sbandierare la loro apoliticità; gli stessi che, quando citavano la Costituzione, intendevano riferirsi a quella parte (gli artt. 104-110) che disciplinava lo status dei magistrati e che, nei fatti, si trovavano sempre allineati a quei governi disposti ad accogliere le loro istanze corporative.

Ne era sorto perciò un contrasto con quell’altra parte della magistratura, ampiamente minoritaria, che aveva “preso sul serio” la Costituzione nella sua interezza, che aveva fatto della “promessa” contenuta nell’art. 3 cpv. – l’impegno di attuare lo Stato sociale di diritto – la propria ragion d’essere e che per questo veniva a trovarsi in logico dissenso con le attività di quei governi che quella promessa disattendevano.

La contrapposizione tra la pretesa neutralità degli uni e l’asserita politicità degli altri, appartenenti questi ultimi a «Magistratura Democratica», era quindi semplicemente strumentale.

Sia i giudici che, ignorando la Costituzione, continuavano ad applicare le norme fasciste del Testo Unico di PS, sia quelli che, invece, le inviavano davanti alla Corte perché le eliminasse dall’ordinamento, facevano infatti delle scelte politiche, che rinviavano a diverse concezioni della democrazia e dello Stato; quanto poi alla presunte torsioni della giurisprudenza derivanti dalla ideologia del singolo magistrato, Giuseppe Borrè aveva chiarito che la doverosa neutralità processuale non dipendeva da una inesistente neutralità culturale, quanto piuttosto dallo scrupoloso rispetto delle regole e dalla raggiunta professionalità del singolo magistrato.

Ma queste “buone ragioni” non erano servite a scalfire l’ideologia dominante, poiché, come osservava allora Dino Greco, negli anni settanta il «circuito della cultura» non aveva sostanziale incidenza sul «circuito del potere».

I magistrati “apolitici”, infatti, grazie alla legge maggioritaria, occuparono il Csm, ipotecando gli uffici direttivi (allora “a vita”) per gli anni successivi. Solo quando fu adottato il sistema proporzionale, «Magistratura Democratica» riuscì a ottenere in Consiglio una rappresentanza, che vi portò i frutti di un’elaborazione culturale “costituzionalmente orientata”, preparata dall’impegno collettivo delle sue riviste, «Quale Giustizia», prima, «Questione Giustizia», poi. Ma se la raggiunta composizione pluralista del Csm ne accrebbe l’incisività e l’autorevolezza, poco cambiò, inizialmente, per quanto riguardava le nomine dei dirigenti degli uffici, dato che, in un organo di 30 membri, i togati “apolitici” («Magistratura Indipendente» e poi anche «Unicost»), in uno con i “laici” di governo, continuarono, con la sistematica maggioranza di 17 voti, a spartirsi tra loro le cariche più rilevanti.

Quando però le indagini condotte dai magistrati di Milano Gherardo Colombo e Giuliano Turone sul “crack Sindona” rivelarono i rapporti segreti che legavano nella P2 politici di governo ed esponenti di vari apparati dello Stato, molti si sorpresero nel leggere, tra le carte processuali, che il presidente e il segretario di «Magistratura Indipendente» erano stati iscritti alla loggia segreta, perché, secondo Gelli, rappresentavano quella parte della magistratura su cui il Venerabile contava per la riuscita del suo (eversivo) Piano di Rinascita nazionale.

All’epoca il Consiglio Superiore, rinnovato e pluralista, fu tra le poche istituzioni dello Stato che volle e riuscì a processare in via disciplinare i piduisti scoperti nelle sue fila. Il presidente del Consiglio Bettino Craxi, invece, confondendo le acque, ignorò la “corrente” collusa, attaccò i giudici “politicizzati” e il Csm che li aveva difesi. Sulla sua scia, altri magistrati “apolitici”, quelli della Procura di Roma guidati da Achille Gallucci, prima del deposito della sentenza che riguardava i colleghi inquisiti, incriminarono i componenti del Csm per peculato aggravato (il cosiddetto scandalo dei cappuccini), chiedendone la sospensione al presidente della Repubblica: ma la pericolosa iniziativa, che avrebbe determinato la paralisi del Csm, fu prontamente bloccata da Pertini, che, intervenuto personalmente, invitò il Consiglio a proseguire nella sua attività, mentre il procedimento penale per i cappuccini rapidamente si sgonfiava.

Quando poi, negli anni ottanta, magistrati di altre città cominciarono a indagare vari esponenti politici per reati di corruzione o di concussione – a Savona vi fu il caso “Teardo”, a Firenze quello “Falugi”, a Torino quello “Zampini”, a Milano quello “Natali” – i governi del Caf ritirarono la “delega” concessa alla magistratura al tempo della lotta contro il terrorismo e la mafia e alimentarono invece, supportati dai media controllati, la progressiva e sistematica delegittimazione dei magistrati (inquirenti) e del Csm (che li tutelava).

E tentarono più volte di correre ai ripari.

Dapprima il democristiano Giuseppe Gargani cercò di ridurre il pluralismo nel Csm, proponendo la modifica della legge elettorale proporzionale, ottenendo il caloroso sostegno dell’allora segretario di «Magistratura Indipendente» Enrico Ferri, ma l’iniziativa presto si arenò per contrasti interni alla stessa maggioranza. Successivamente il governo, tramite un comitato promotore, dichiarando di voler arginare il peso delle correnti, lanciò un referendum abrogativo di quella stessa legge; ma l’iniziativa si rivelò maldestra perché il referendum fu dichiarato inammissibile in quanto, se il quesito fosse stato approvato, la semplice abrogazione delle norme, in mancanza di un sistema elettorale alternativo, avrebbe determinato la paralisi dell’organo costituzionale.

Il culmine della campagna fu però raggiunto quando il Csm divenne oggetto delle particolari attenzioni del suo stesso presidente, Francesco Cossiga. Questi, che in più occasioni aveva impedito al Consiglio di tutelare i singoli magistrati insultati da esponenti del governo e di formulare pareri, anche previsti dall’ordinamento, sui disegni di legge in discussione alle Camere, il 16.04.1992, rivolgendosi agli italiani dalla tribuna del Gr1, asseriva che non tutti i giudici erano eguali e si augurava che, «per il futuro, la gran parte della magistratura italiana, che fortunatamente è rappresentata da Unità per la Costituzione e Magistratura Indipendente, comprenda quali figuri siedono accanto ad essi nel Ccs» (frase riportata per gli smemorati da due di quei “figuri” presenti in Consiglio, Giovanni Palombarini e Gianfranco Viglietta, in La Costituzione e i diritti. Una storia italiana, Napoli, ESI, 2011, p. 277).

Un linguaggio presidenziale inconsueto, questo, ma un messaggio finalmente chiaro: in primo luogo una netta scelta di campo, la proclamazione “ufficiale” da parte della massima carica dello Stato dell’esistenza di una parte sana della magistratura contrapposta all’altra ritenuta malata (o peggio), l’individuazione di un “Nemico” e, insieme, lo sdoganamento nei suoi confronti della “libertà di insulto”, senza nemmeno la necessità di motivare, con il Consiglio posto nell’impossibilità di difendere, volta per volta, i magistrati aggrediti verbalmente dai protettori degli inquisiti.

Di questa “libertà” farà poi uso sistematico il maggiore imputato degli anni a venire, Silvio Berlsuconi, che potrà così apostrofare i magistrati con epiteti vari (menti distorte, frodatori processuali, manipolatori di pentiti, soggetti antropologicamente diversi dal resto della razza umana, ecc.) e “arruolare” in «Magistratura Democratica» tutti i giudici che indagavano nei suoi confronti; e così questo gruppo minoritario, ingigantito ad arte, per un ventennio e poi nelle autocelebrazioni postume dell’imputato, sarebbe diventato addirittura il protagonista di un avvenuto colpo di Stato.

Tuttavia, al di là della propaganda, il primo obiettivo di quel governo, tramite il ministro Castelli, fu ancora e sempre il Csm, poiché difendeva «i maramaldi in toga» e perché, nel criticare le leggi sulla giustizia in preparazione, si era atteggiato a “terza Camera”, mentre non era altro che un organo che amministrava un apparato di burocrati. E con la legge 28.03.2002 n. 44, il ministro riduceva il numero dei componenti del Csm da 30 a 24 (così i togati avrebbero avuto «meno tempo per far politica») e adottava il principio maggioritario eliminando la votazione su liste contrapposte (sperando che i magistrati “apolitici”, sciolti dai vincoli correntizi ed eliminata la proporzionale, chiudessero la “sinistra” all’angolo: operazione fallita, poiché i gruppi concorrenti erano rimasti ben radicati nel territorio e del resto era illusorio che sparissero di colpo con un semplice tratto di penna).

Poi venne la “riforma dei giudici”. Questa, sin dalle premesse, evidenziava come la ricorrente proclamazione del “contrasto alle correnti” fosse in realtà una mossa strumentale e fuorviante, perché i magistrati “apolitici”, cari a Cossiga, non solo non erano “contrastati”, ma alcuni di essi erano stati anzi cooptati nella maggioranza di governo (e Luigi Bobbio, che con Alfredo Mantovano aderiva ad AN, si è distinto per aver introdotto nella legge l’emendamento volto a impedire a Giancarlo Caselli la nomina a Procuratore Nazionale Antimafia). E proprio per regolare i conti con i magistrati “politicizzati” veniva varata la riforma “epocale” di Castelli, che nella sua stesura originale riportava effettivamente lo stato della magistratura assai indietro nel tempo: la legge, infatti, ripristinava la carriera dei giudici, riproponeva la nuova gerarchia con al vertice la Cassazione, dava nuovo impulso agli spiriti corporativi e promuoveva, al contempo, il protagonismo del ministro, che poteva controllare i PM e vagliare le decisioni del Csm, relegato in secondo piano con funzioni per lo più notarili.

L’intervento del presidente della Repubblica Ciampi eliminava non uno, bensì quattro profili di manifesta incostituzionalità della legge (tra gli altri quello che consentiva al ministro di ricorrere al Tar contro le nomine dei dirigenti varate dal Csm); il successivo governo Prodi cercava di limitare i danni, ma la riforma metteva tuttavia solide radici nel rafforzare i poteri dei capi delle Procure e soprattutto nel coltivare le aspirazioni di carriera nei singoli magistrati. Anche la previsione della temporaneità degli incarichi direttivi e semidirettivi, che nella prospettiva “ugualitaria”dell’art. 107 Cost. («I magistrati si distinguono tra loro solo per diversità di funzioni») configurava il dirigente come primus inter pares, soggetto a periodici controlli delle sue capacità, veniva invece sempre più vissuta dalla maggioranza dei magistrati come la possibilità offerta loro di scalare, ogni 4 anni, i successivi gradi della carriera.

La riforma alimentava dunque un diffuso spirito impiegatizio e, visti i numerosi posti periodicamente messi a disposizione degli aspiranti, aumentava la competizione interna nella corporazione e determinava la frequente e affannosa ricerca, da parte dei singoli, di “protezioni”al momento delle nomine (e il moltiplicarsi dei ricorsi al Tar e al Consiglio di Stato coltivati dai “perdenti”, aumentata negli anni, ha registrato impietosamente l’intensità del fenomeno). Ma, oltre a questo, la legge ha comportato, nell’immediato, un ulteriore effetto negativo: perché quel Csm, ridotto nei suoi componenti, ha dovuto affrontare subito la questione della permanenza dei circa 300 dirigenti in carica oltre la temporaneità prevista dalla nuova normativa e, dovendo risolverla in tempi rapidi, ha incentivato la prassi, già esistente, delle nomine “a pacchetto”, suscitando critiche spesso fondate per le scelte di conseguenza effettuate; le stesse si sono poi riprodotte in seguito, in occasione delle designazioni dei nuovi dirigenti e delle successive valutazioni del loro operato, apparse sovente viziate da una logica corporativa sempre più vincente.

Si è andati avanti così per anni. Poi la crisi è scoppiata.

Le indagini condotte dalla Procura della Repubblica di Firenze su un presunto episodio di corruzione posto in essere da Fabrizio Centofanti, ex capo delle relazioni di Francesco Caltagirone, nei confronti di Luca Palamara, già presidente dell’Anm ed ex componente del Csm, hanno portato alla luce una trama inquietante che ha visto lo stesso magistrato, aspirante al posto di Procuratore aggiunto della Repubblica di Roma, al centro di una serie di rapporti volti a pilotare la nomina del futuro dirigente di quell’Ufficio, a screditare il PM che aveva iniziato le indagini e a organizzare persino una riunione notturna in un hotel cittadino, non solo con vari componenti del Csm, ma anche con due parlamentari del Pd, stretti collaboratori di Renzi: Luca Lotti, imputato proprio davanti all’AG romana e Cosimo Ferri, “erede” di Enrico, capo di «Magistratura Indipendente» e anche lui ex membro del Csm.

Orbene, al di là della vicenda penale ancora in corso di definizione, è indubbio che quanto già appreso dalle intercettazioni pubblicate costituisca un colpo devastante per l’immagine di questa magistratura, apparsa impegnata in lotte di potere personali, frutto di una logica correntizia degenerata. E l’accaduto è stato subito colto al volo dal “governo del cambiamento”, per assestare un colpo definitivo al pluralismo esistente nella magistratura e per ridimensionare così, definitivamente, compiti e ruoli del Csm.

Ma con qualche fretta di troppo. L’attuale vicenda, innanzitutto, non riguarda “tutte le correnti”, ma solo «Unicost» e «Magistratura Indipendente», poiché solo a questi due gruppi appartengono tutti i magistrati coinvolti. Gli sdegnati commentatori odierni hanno sorvolato su questo particolare, dimenticando che sino a ieri avevano considerato (con Craxi, Cossiga, Berlusconi, ecc.) che proprio quei gruppi costituivano «la parte sana della magistratura». Sul punto non vi è stata alcuna riflessione, il ministro Bonafede ha ignorato la cosa e subito ha fatto circolare una bozza di riforma della legge elettorale del Csm, cavalcando la richiesta, oggi assai popolare, del “sorteggio” dei candidati da nominare.

La bozza, che, al solito si propone di eliminare del tutto il peso delle correnti (ma, curiosamente, ricalca un progetto discusso proprio da una di esse, «Autonomia & Indipendenza», quella che fa capo a Piercamillo Davigo, sorta per una scissione da «Magistratura Indipendente») prevede l’istituzione di 20 collegi e la presentazione di singoli candidati “territoriali”, tra cui vengono scelti i 5 più votati; e, tra questi, una Commissione centrale all’uopo costituita, ne estrae uno a sorte, sì da ottenere complessivamente i 20 componenti togati, che, unitamente ai 10 eletti dal Parlamento, verranno a costituire il futuro Csm (nuovamente aumentato nei suoi componenti in vista della creazione di un’autonoma Sezione disciplinare).

A parte la farraginosità della normativa, colpisce il fatto che, con questo sistema, nel singolo collegio potrebbe essere sorteggiato anche il candidato meno votato, con buona pace del principio di rappresentanza, comunque declinato.

Poiché qualcuno glielo ha fatto notare, il disinvolto ministro, nel giro di poche ore, ridistribuisce le carte; e, al lettore del «Corriere», spiega che basterebbe prima sorteggiare i candidati (sic!) e poi votarli e così l’inconveniente sarebbe risolto.

Senonché cambiando l’ordine dei fattori il prodotto (avariato) non cambia. Perché, o prima o poi, la volontà degli elettori verrebbe stravolta al di fuori di ogni criterio razionale, ed è questo che rende inaccettabile il sorteggio e che lo rende incompatibile con la previsione costituzionale. Infatti, l’inserimento di questo elemento di casualità nella procedura ne determina l’evidente illegittimità, configgendo la stessa con lo spirito e la lettera dell’art. 104 c.4 Cost., che, per la designazione dei membri togati, prevede solo l’elezione dei candidati e non già una scelta “cieca” dei predetti (o addirittura degli “eletti”) operata da un’ inedita Commissione centrale.

Una tale soluzione è certo funzionale, e per questo è perseguita con tenacia, da chi intende derubricare il Csm a semplice organo amministrativo, quasi un “Ufficio del personale” di questa categoria di impiegati statali, gestita per di più nell’ottica dell’«uno vale uno». Senonché anche un organo siffatto è del tutto contrastante con la previsione della Carta, per la quale il Csm è un organo di rilevanza costituzionale ed è tale perché guidato dal presidente della Repubblica, perché conta un terzo di membri di origine parlamentare e perché è posto al vertice del terzo potere dello Stato. Sorteggiarne i componenti più che una delegittimazione è una vera e propria irrisione alla sua collocazione istituzionale; e di questo son ben consapevoli i proponenti che si sono ben guardati dall’applicare la medesima soluzione per i componenti laici dello stesso Csm, che continueranno, anche dopo questa riforma, a essere eletti dal Parlamento, o meglio nominati dai leader dei vari partiti.

Ma l’ iniziativa del ministro è particolarmente grave anche perché non è isolata. Pende infatti in Commissione alla Camera un disegno di legge costituzionale che, riproponendo per l’ennesima volta la separazione delle carriere, prevede la pratica abolizione dell’obbligatorietà dell’azione penale, due distinti e autonomi Csm, l’uno per i giudici e l’altro per i PM, e in essi stabilisce, come elemento qualificante, la parità numerica tra laici a togati. Tutto ciò, si sostiene con involontario umorismo, per “spoliticizzare” l’attività del Csm.

Questo è dunque ciò che “bolle in pentola”. Né tranquillizza il fatto che, per il momento, il progetto sia uscito dai riflettori, riposizionati ora sul rituale alterco dei due diarchi del “governo salvo intese”che tanto sembra appassionare la pubblica opinione.

La dichiarata lotta alle correnti è, ancora una volta, un mero specchietto per le allodole perché coi sistemi a sorteggio verranno invece premiate le correnti più “manovriere” che meglio sapranno creare inedite cordate nei territori. Sotto questo polverone, invece, si scorge la sostanza dell’operazione, l’ attacco sferrato da più parti al Csm, per decapitarlo da organo di vertice della magistratura, per eliminare le “pratiche a tutela” e i fastidiosi “pareri” sulle nuove leggi che questi improbabili legislatori sfornano a ripetizione.

Ma, sia chiaro, se questo obiettivo dovesse essere raggiunto, la responsabilità maggiore per un tale esito ricadrebbe, innanzitutto, sugli stessi magistrati. I componenti togati del Csm si trovano in quel consesso per decisione di migliaia di elettori, che quindi sono i primi responsabili delle scelte fatte. Coloro che hanno votato i consiglieri coinvolti in questa squallida vicenda dovrebbero interrogarsi seriamente sulle conseguenze che possono derivare da quella logica corporativa da essi comunemente accettata, e spesso anzi sollecitata. Coloro che invece giustamente ritengono che questa logica costituisca una malattia, che si sta rivelando mortale, dovrebbero non solo combatterla con le argomentazioni (di cui sono solitamente forniti), ma soprattutto contrastarla con fatti concreti e comportamenti espliciti in tutte le sedi deputate.

Ogni magistrato, infine, dovrebbe tenere ben presente, soprattutto nell’attuale, inquietante congiuntura politica, che l’autogoverno non è un risultato acquisito una volta per sempre; che coloro che si rivolgono al Csm per risolvere solo le proprie esigenze individuali dimenticano, immemori delle vicende passate, che senza un tale organo operante nel pieno rispetto dei principi e dei poteri attribuiti a esso dalla Costituzione, l’indipendenza stessa del singolo magistrato verrebbe continuamente esposta a pronte ingerenze esterne e a gerarchiche pressioni interne.

Cacciare la testa sotto la sabbia, sperare che la tempesta passi velocemente e riavviare poi le precedenti logiche corporative sarebbe, per i componenti dell’attuale Consiglio, una scelta suicida.

La campana è suonata per tutti, ma, nell’immediato, soprattutto per loro.

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