Quer pasticciaccio brutto di Piazza del Quirinale

Piazza del Quirinaledi Massimo Jasonni

Il conflitto intervenuto tra presidente della Repubblica e partiti legittimati dalle elezioni alla prospettazione di un governo, sottoposto alla firma presidenziale, appare di tale importanza e gravità, da imporre rigore di analisi. Occorre distinguere il profilo formale della legittimità costituzionale dal profilo sostanzialmente etico-politico.

La distinzione rievoca quanto Luigi Einaudi e Costantino Mortati sostennero in Assemblea Costituente, nel settembre del ’46, discutendo di opzione presidenzialistica e opzione parlamentaristica. Il problema, precisarono, non è di forma, ma di merito. «Quel che conta – dissero all’unisono quelle due alte voci – è quello che c’è sotto»[1].

Dunque, esamineremo qui, in sintesi, il profilo “tecnicamente” costituzionalistico, ma per poi cercare di far luce su «quello che c’è sotto».

Dal punto di vista costituzionalistico ci sta, più o meno, tutto e il contrario di tutto[2]. Nel senso che la formula usata nel testo costituzionale è ambigua e, nel contempo, polivalente. L’art. 92, secondo comma, dice che «Il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei ministri e, su proposta di questo, i ministri». Un dettato così laconico di per sé esige sguardi più ampi, che ermeneuticamente affondino nella problematica dell’opzione per una repubblica parlamentare, nel rifiuto dell’ipotesi presidenziale. Sul punto Calamandrei, che pure aveva innescato in allora una polemica tendente a valorizzare aspetti positivi, da non trascurarsi, di una repubblica presidenziale[3], finì per essere categorico nel concludere che una repubblica parlamentare si radica nella ferrea distinzione tra le figure del capo di governo e del capo dello Stato. Il potere del presidente della Repubblica andava inteso come mero controllo del rispetto dei capisaldi del programma di trasformazione sociale della società, rappresentati «dal diritto al lavoro, dall’effettiva partecipazione dei lavoratori al governo, dal diritto al salario»[4].

Einaudi e Mortati accolsero con favore tali esiti e aderirono alla drastica distinzione fra il potere politico del presidente del Consiglio, designato per la formazione del governo, e il potere «neutro», di garanzia del presidente della Repubblica. Quanto agli aspetti distintivi del presidenzialismo dal parlamentarismo Einaudi fu esplicito nel collegare la “forza” di una repubblica presidenziale a quei paesi, per eccellenza gli Stati Uniti, ove vige il sistema dei due partiti.

Certo è che, pure all’interno di una considerazione costituzionalistica restrittiva dei poteri del presidente della Repubblica, all’atto della sottoscrizione della nomina del presidente del Consiglio dei ministri e, su proposta di questi[5], dei ministri, non può escludersi che egli verifichi la «dignità e l’onore» delle persone proposte[6]; e possa discrezionalmente incidere, affermando la propria contrarietà a un ministro che abbia, per esempio, espresso giudizi che pongano in sofferenza la sovranità del paese[7]. La dottrina ha adottato, nell’addentrarsi in questo terreno minato, le categorie dell’atto misto, formalmente presidenziale ma sostanzialmente governativo. Altre voci dottrinali hanno optato per la teoria degli “atti complessi”, in quanto

costituiti dal concorso e dalla fusione della sua volontà [del presidente della Repubblica] con quella del presidente del Consiglio, di tutti i ministri o di quelli competenti per singola materia e come tali proponenti e controfirmanti (apponenti cioè la propria firma dopo quella del Capo dello Stato); atti complessi formalmente ineguali perché giuridicamente riferiti (e intitolati) allo stesso Capo dello Stato; mentre da un punto di vista politico (relativo al contenuto) è determinante, almeno di solito, la volontà dei ministri che ne prendono l’iniziativa e ne assumono la responsabilità politica e giuridica[8].

Comunque vi è coincidenza, negli studi sul tema, nel sottolineare la continuità, la riservatezza ma, nel contempo, l’opportunità della pubblicità degli atti con rilevanza esterna, inerenti ai rapporti tra il presidente della Repubblica e il governo, vuoi nella fase di formazione, vuoi nella fase di instaurazione del mandato governativo.

Molto ancora si potrebbe aggiungere nell’esaminare lo sviluppo della riflessione costituzionalistica, ma un dato preliminare rimane chiaro: l’ipotesi del dissenso presidenziale rispetto alle proposte particolari del presidente del Consiglio incaricato è improbabile, anzi – come ricordava Barbera nel Corso di diritto pubblico edito per il Mulino – da considerare del tutto eccezionale[9]. Non a caso

è il presidente nominato a controfirmare il proprio decreto presidenziale di nomina, subito dopo vengono firmati i decreti di nomina dei ministri (sempre presidenziali e sempre controfirmati, ovviamente, dal nuovo presidente del Consiglio); contestualmente, presidente del Consiglio e ministri giurano davanti al presidente della Repubblica (art. 93 Cost.)[10].

Resta che

il presidente della Repubblica non può essere il portatore di un indirizzo politico personale di qualsiasi genere (né come propulsore di una nuova politica, né come critico di quella in atto) perché invaderebbe evidentemente le competenze costituzionali del Parlamento e del Governo e non sarebbe più il rappresentante della Nazione, la quale, all’interno e soprattutto nei confronti dei Paesi esteri, non può avere che una sola politica, quella del Governo confortata dalla fiducia del Parlamento[11].

Due aspetti del c.d. indirizzo politico sono stati partitamente considerati:

un indirizzo generale o costituzionale, tendente all’attuazione della costituzione, poggiante sulla costituzione materiale e sulla risultante delle forze politiche sottostanti e tendente ad attuare i fini costituzionali permanenti; e un indirizzo politico contingente, di maggioranza, che è anch’esso condizionato e vincolato nei fini dalla Costituzione, ma che la Costituzione tende ad attuare solo parzialmente, in quelle parti che sono a esso congeniali, e non in quelle che avversa, e che comprende poi tutta la gamma dei fini secondari, privi di qualsiasi rilievo costituzionale […]. [Il capo dello Stato] ha per suo precipuo compito quello di controllare l’indirizzo di maggioranza, ed eventualmente di correggerlo per allinearlo all’attuazione dei fini costituzionali. Ora, poiché controllare non è partecipare a una funzione attiva, egli non è contitolare della funzione di indirizzo di maggioranza, ma lo è solo della funzione di indirizzo generale, per meglio esplicare la quale, appunto, è chiamato a controllare l’attività della maggioranza[12].

Quanto sopra non risolve, ma aiuta a comprendere sul piano “tecnico” gli aspetti essenziali su cui muovere, nel tentativo di districare la conflittualità ora drammaticamente emersa. Tuttavia, ciò che conta, come si diceva in apertura, non sta tanto nella finezza dei distinguo, che purtroppo oggi rischia di scadere in un retroscena accademico di consorterie o di affiliazioni parapolitiche, ma in «quel che ci sta sotto».

Nel conflitto insorto giocano, in realtà, due fattori, concorrenti e contrapposti: la mancanza di stile, con ciò intendendosi equilibrio e sensibilità etico-politica di tutti gli animatori del teatro in esame: il signor presidente della Repubblica Mattarella e i segretari dei due partiti proponenti, Di Maio e Salvini. Mattarella si è esposto a una dubbia interpretazione estensiva della Costituzione; Di Maio e Salvini hanno reso il dialogo al vetriolo, finendo, addirittura, il primo, per invocare un impeachment a nostro parere eccessivo e destituito, alla luce di quanto oggi sappiamo, di concreto fondamento. A giungere ai nostri occhi sbalorditi è l’asprezza di un conflitto istituzionale che si poteva e si doveva evitare. E non era poi così difficile evitare.

Gli effetti sociali che ne sono discesi sono molto più incisivi delle disquisizioni, ahimè più accademiche che non ermeneutiche. Tali effetti sono: la bocciatura parlamentare, certa di qui a poco, di un governo coinvolgente e rappresentante la figura del presidente della Repubblica; l’approssimarsi di elezioni caratterizzate dal premio di maggioranza, inevitabilmente istituito; un probabile trionfo della lega; un cemento offerto all’accordo fra Di Maio e Salvini (prima dell’accaduto l’un contro l’altro armati).

Il dubbio che getta benzina sul fuoco del camino sta nell’inammissibilità di interferenze internazionali e finanziarie[13] nella gestione politica del nostro paese, e in un dissenso che può apparire riferito a una persona. Persona, fino a prova contraria, non gravata da precedenti o pendenze penali e partecipe di un percorso culturale non suscettibile di critiche di avventurismo.

Male l’arbitro, male le squadre in gioco: ne è uscita umiliata la Costituzione repubblicana. Ciò che ne è emerso è una zona buia che conferma lo scadimento, in età di dominio della tecnica e della finanza, di una Politica che non ha saputo approfittare dei sani enzimi che animano il rinnovamento, né costituire fronti che combattano i batteri patologici del populismo.

 

[1] Assemblea Costituente, Commissione per la Costituzione, Seconda Sottocommissione, Resoconto sommario della seduta di giovedì 5 settembre 1946, pp. 123-129. Cfr., sul punto, P. Stancati, Della “neutralità” del Capo dello stato in tempo di crisi: sulla (presunta) “deriva presidenzialista” nella più recente evoluzione della forma di governo parlamentare in Italia, con precipuo raffronto all’esperienza weimariana, in «Costituzionalismo.it» (www.costituzionalismo.it), n. 2 (2013), disponibile all’indirizzo http://www.costituzionalismo.it/articoli/452/.

[2] Si vedano, in particolare, L. Elia, Appunti sulla formazione del governo, in «Giur. cost.», 1957, p. 1170; M. Galizia, Lineamenti generali del rapporto di fiducia fra Parlamento e Governo, Milano, Giuffrè, 1959, p. 40 ss.; G. Cuomo, I poteri del presidente della Repubblica nella risoluzione delle crisi di governo, Napoli, SAV, 1962; G. Zagrebelsky, La formazione del governo nelle prime quattro legislazioni repubblicane, in «Rivista trimestrale di diritto pubblico», 1968, p. 880.

[3] Ivi, pp. 119-120.

[4] P. Calamandrei, Questa nostra Repubblica, in «Il Ponte», n. 10, ottobre 1956, ora in www.ilponterivista.com con nota di M. Rossi all’indirizzo: https://www.ilponterivista.com/ blog/ 2018/05/14/questa-nostra-repubblica/#more-2852.

[5] Sulla incostituzionalità della prassi che la scelta dei ministri sia fatta dai partiti e non dal presidente incaricato si veda M. Ainis, Sul valore della prassi nel diritto costituzionale, in «Rivista trimestrale di diritto pubblico», n. 2 (2007), p. 307 ss., spec. p. 318.

[6] L. Milella, «Il contratto è un patto di potere ma il Colle non è un notaio». Intervista a G. Zagrebelsky, in «Repubblica.it» (www.repubblica.it), 21 maggio 2018, disponibile all’indirizzo http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2018/05/21/il-contratto-e-un-patto-di-potere-ma-il-colle-non-e-un-notaio05.html.

[7] V. M. Luciani, intervista al «Corriere della Sera» cit., in «www.ilpost.it», alla pagina https://www.ilpost.it/2018/05/27/presidente-repubblica-nomina-ministri-costituzione/.

[8] F. Pergolesi, Diritto Costituzionale, vol. I, Padova, Cedam, 1962, p. 396.

[9] A. Barbera, C. Fusaro, Corso di diritto pubblico, Bologna, il Mulino, 2005, p. 294. Secondo l’Autore «In ordine ai ministri, molto si è discusso sulla questione, politica e non giuridica, del margine di autonomia che il presidente del Consiglio appena nominato ha nello scegliere i componenti del suo governo: autonomia giuridicamente piena con il solo temperamento di un eventuale radicale e incoercibile, quanto improbabile, dissenso presidenziale, da considerarsi del tutto eccezionale […]».

[10] Ivi, p. 295.

[11] F. Pergolesi, op. cit., p. 409.

[12] P. Barile, I poteri del Presidente della Repubblica, in «Studi decennale», III, p. 135 ss. Il passo è citato in F. Pergolesi, op. cit., p. 409, nota n. 1.

[13] A. Ruggeri, Art. 94 della Costituzione vivente: «il Governo deve avere la fiducia dei mercati» (nota minima a commento della nascita del Governo Monti), in «Federalismi», n. 23 (2011), p. 5 e ss.: «[…] si tratta di stabilire – conclude l’Autore – se, una volta superata la crisi (sempre che ci si riesca…), si renderà possibile tornare all’originario dettato costituzionale ovvero se la necessaria “fiducia” anche (e soprattutto) dell’Unione europea e dei mercati diventerà un impegno al quale non ci si potrà ormai più e in alcun modo sottrarre».

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