La lettera del 20 febbraio 1823 (1963)

W. Binni, Note leopardiane I. La lettera del 20 febbraio 1823, «La Rassegna della letteratura italiana», a. LXVII, serie VII, n. 2, Firenze, maggio-settembre 1963, pp. 193-199, poi in W. Binni, La protesta di Leopardi cit.

LA LETTERA DEL 20 FEBBRAIO 1823

Tutti i lettori del Leopardi conoscono certo la lettera che egli indirizzò al fratello Carlo, da Roma, il 20 febbraio 1823, descrivendogli la sua visita alla tomba del Tasso[1].

Essa spicca infatti nel periodo romano come un momento eccezionale di tensione umana e poetica, che riassume molti degli elementi piú importanti dell’esperienza romana del Leopardi e li proietta in un intenso nesso di immagini, sentimenti, pensieri a cui tutto l’animo leopardiano partecipa nei suoi modi supremamente schietti e profondi, assoluti e perfetti, con tutta la sua moralità, con tutto il suo potente e appassionato senso del vero e del grande, con il suo contrasto energico fra valore e disvalore: in una misura che supera ormai le forme piú giovanili di sdegno e di disperazione, ben valide e autentiche, ma spesso sconfinanti piú facilmente in impeto eloquente e in una pragmaticità piú velleitaria.

Come ben si sa, il Leitmotiv del periodo romano è la delusione di un’aspettativa di vita socievole in una grande città: aspettativa frustrata anzitutto da quella disposizione di «absence», di solitudine, di modo di vita di sé a sé contratta nella prigione di Recanati, e di cui il Leopardi preciserà lucidamente le condizioni e l’origine come la difficoltà di un contatto con la società, giunto «troppo tardi» rispetto alla sua abitudine di intimità assoluta e di vita solitaria.

Il tema autobiografico della solitudine, che aveva vagheggiato a lungo nei pensieri dello Zibaldone del 1820 e che viceversa in un pensiero del 1827 rivedrà come un errore[2], riaffiora presto nelle lettere del periodo romano come costatazione di un habitus invincibile e immutabile[3] di fronte al quale la vita di società, tutta al di fuori e all’esterno, appare al Leopardi intollerabile e tale da abbattere ed estinguere tutte le sue facoltà. Mentre poi, chiuso il soggiorno romano, nella lettera al Giordani del 4 agosto 1823 il poeta meglio definiva appunto la vera natura e gli stessi limiti di quella sua condizione cosí drammaticamente verificata a Roma: «In verità era troppo tardi per cominciarsi ad assuefare alla vita non avendone avuto mai niun sentore, e gli abiti in me sono radicati per modo, che niuna forza gli può svellere»[4].

Ma pur quella delusione e quel rimpianto della vita solitaria si alimentavano concretamente di un giudizio deciso e particolare sulla società romana di quel tempo. Al di là del generale fastidio per una grande città che, cosí vasta e spopolata come la Roma d’allora, moltiplicava la situazione delle piccole città e ne rompeva insieme i vantaggi di una società piú stretta e comunicabile, al di là della riprova della vanità dei piaceri che si risolvono in noia, il giudizio su quella Roma si fa preciso e particolareggiato. Tutta la società romana è investita da questo giudizio violento e reciso sia per la natura oziosa e parassitaria della sua popolazione, sia per la sua cultura-incultura, frivola, accademica, puramente antiquaria[5], sia per la presenza corruttrice della corte papale viva solo di intrighi e centro di spirito superstizioso[6], sia per la sciocchezza delle valutazioni sproporzionate di attività risibili, come nell’episodio gustosissimo delle grandi lodi tributate ad un prelato per il suo modo di cantare e gestire una messa[7].

Né mancano duri accenni alla volgarità e indifferenza delle donne romane[8], e al ristagnare generale della vita a cui il Leopardi oppone il suo «bisogno di entusiasmo, di amore, di vita», come egli dice nella lettera sopraricordata a Carlo, del 25 novembre 1822, rivelando bene come la delusione romana fosse anche dovuta alle precise condizioni di quella società cosí diversa dalle aspirazioni e dai criteri di valore del poeta.

E tutti gli spunti polemici delle varie lettere di quei mesi si risolvono in un generale circolare attacco che contribuisce ad accentuare, su quella base di esperienza particolare, il carattere di sproporzione fra le aspirazioni e la realtà, ad approfondire il disgusto per «il secol tetro» di cui il Leopardi parlerà nella canzone Alla sua donna, frutto poetico altissimo alla cui concreta genesi ha tanto contribuito la delusione romana.

Orbene, tutti gli elementi di questa dolorosa esperienza, presa fra la disposizione contratta alla solitudine e il desiderio inesausto di una piú vera società (si pensi alla società vagheggiata nel Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani, e si pensi al parziale conforto degli incontri romani con studiosi stranieri come lo Jacopssen) vengono di colpo condensati e violentemente confrontati con quell’eccezionale momento di singolare piacere dell’animo costituito dalla visita alla tomba del Tasso.

Dopo le prime battute della lettera, che vengono approfondendosi da piú svagati accenni a una lettera di Carlo verso il tema delle sperate nozze della sorella Paolina (in cui l’immagine della vita della sorella con un «giovane» e fuori della casa paterna è spia della convinzione leopardiana che, malgrado ogni delusione, la vita piena, libera dalla prigione domestica, occupata di cose e di affetti è pur sempre desiderabile), il tema piú vero si apre decisamente e improvvisamente contrapponendo subito la delusiva esperienza della società e delle «magnificenze» di Roma a questo unico piacere provato nella capitale cattolica. E il piacere delle lagrime, anche se breve[9], accentuato fino al margine di una sentimentalità ultraromantica, è opposto alla inutilità delle immense spese fatte dai romani per conseguire vani piaceri che si risolvono in noia:

«Venerdí 15 febbraio 1823 [la data è fissata intera come una data storica dell’animo leopardiano] fui a visitare il sepolcro del Tasso e ci piansi. Questo è il primo e l’unico piacere [la sottolineatura ne evidenzia la realtà e l’eccezionalità] che ho provato in Roma. La strada per andarvi è lunga, e non si va a quel luogo che per vedere questo sepolcro; ma non si potrebbe venire anche dall’America per gustare il piacere delle lagrime lo spazio di due minuti? È pur certissimo che le immense spese che qui vedo fare non per altro che per procurarsi uno o un altro piacere, sono tutte quante gettate all’aria, perché in luogo del piacere non s’ottiene altro che noia».

Poi, in contrasto con una lunga tradizione di lamentele sull’ingratitudine umana che aveva misconosciuto la grandezza tassesca con un cosí povero sepolcro, il tema si rafforza (resecando il di piú del languore delle lacrime, ma sempre concretamente appoggiato al sentimento di un piacere vero e alla schiettezza delle sensazioni) nella individuazione centrale dell’eccezionale significato di quella tomba e della grandezza del Tasso, del contrasto fra la «magnificenza e vastità dei monumenti romani» e la «piccolezza e nudità di questo sepolcro», fra la tomba del Tasso e quella presuntuosa del Guidi.

«Molti provano un sentimento d’indignazione vedendo il cenere del Tasso, coperto e indicato non da altro che da una pietra larga e lunga circa un palmo e mezzo, e posta in un cantoncino d’una chiesuccia. Io non vorrei in nessun modo trovar questo cenere sotto un mausoleo. Tu comprendi la gran folla di affetti che nasce dal considerare il contrasto fra la grandezza del Tasso e l’umiltà della sua sepoltura. Ma tu non puoi avere idea d’un altro contrasto, cioè di quello che prova un occhio avvezzo all’infinita magnificenza e vastità de’ monumenti romani, paragonandoli alla piccolezza e nudità di questo sepolcro. Si sente una trista e fremebonda consolazione pensando che questa povertà è pur sufficiente ad interessare e animar la posterità, laddove i superbissimi mausolei, che Roma racchiude, si osservano con perfetta indifferenza per la persona a cui furono innalzati, della quale o non si domanda neppur il nome, o si domanda non come della persona ma del monumento. Vicino al sepolcro del Tasso è quello del poeta Guidi, che volle giacere prope magnos Torquati cineres, come dice l’iscrizione. Fece molto male. Non mi restò per lui nemmeno un sospiro. Appena soffrii di guardare il suo monumento, temendo di soffocare le sensazioni che avevo provate alla tomba del Tasso».

Quel sepolcro, tanto piú affascinante perché cosí nudo, e che tanto piú esalta l’animo leopardiano per la sproporzione sua con la grandezza dell’uomo che vi è sepolto, è certo il centro potente e mestoluminoso di questa grande pagina in cui l’onda delle sensazioni dell’animo sale fino al moto vibrante della «triste e fremebonda consolazione», come commossa verifica di una rivincita sul mondo sciocco e vano, retorico e falso e come ristabilimento della vera proporzione fra grandezza reale e monumentalità esteriore.

Tutta la grandezza e magnificenza romana che aveva commosso per secoli letterati e politici e avrebbe costituito un elemento di pesante retorica nella successiva tradizione nazionalistica, è qui risolta in esteriorità, anche se Leopardi può pensare oltre che ai mausolei classici ai sepolcri barocchi nelle chiese romane: ma insomma è chiaro che Leopardi rifiuta sia la grandezza della Roma antica sia il fasto della Roma barocca, con possibili implicazioni che sarebbe qui lungo svolgere. Mentre piú mi preme, in questo rapido appunto, portare l’attenzione, di fronte alla comune lettura che tende ad esaurirsi nella parte dedicata direttamente al sepolcro del Tasso (si pensi ancora alla simpatia umana del Leopardi per il Tasso e alla differenziazione leopardiana della risonanza sentimentale della diversa infelicità di Tasso e Dante[10]) sull’ultima parte della lettera che si avvia su modi piú semplici e discorsivi e meno apertamente tesi e sentimentali, anche se non manca il raccordo delle «impressioni del sentimento» e, soprattutto, il piú potente raccordo circa la comune origine delle lacrime e di queste impressioni da ciò che è «vero» in contrasto con il falso e il retorico.

«Anche la strada che conduce a quel luogo, prepara lo spirito alle impressioni del sentimento. È tutta costeggiata di case destinate alle manifatture, e risuona dello strepito de’ telai e d’altri istrumenti, e del canto delle donne e degli operai occupati al lavoro. In una città oziosa, dissipata, senza metodo, come sono le capitali, è pur bello il considerare l’immagine della vita raccolta, ordinata e occupata in professioni utili. Anche le fisionomie e le maniere della gente che s’incontra per quella via, hanno un non so che di piú umano che quelle degli altri; e dimostrano i costumi e il carattere di persone, la cui vita si fonda sul vero e non sul falso, cioè che vivono di travaglio e non d’intrighi, d’impostura e d’inganno, come la massima parte di questa popolazione. La spazio mi manca: t’abbraccio. Addio addio»[11].

Ogni particolare di quest’ultima parte è fondamentale pur nell’apparenza di un’aggiunta descrittiva e inessenziale.

La via che conduce a Sant’Onofrio non è una via pittoresca o una via sontuosa e monumentale (la via Appia del grande Piranesi), ma una via popolare, costeggiata di case destinate alle manifatture, dove lavora, e accompagna col canto il lavoro, gente laboriosa ed attiva. Da quelle case escono rumori di lavoro, strepito di telai e canto (e chi non ricorda subito l’associazione in A Silvia, del rumore del telaio e del canto?) e tutto suggerisce una impressione di commozione e di bellezza senza apparente bellezza (piú tardi il Leopardi scriverà nello Zibaldone del 1828[12]: «in letteratura tutto quello che porta scritto in fronte bellezza, è bellezza falsa, è bruttezza»), tutto conduce ad un sentimento di verità e di concretezza, di umanità e di semplicità contro ogni ricerca dell’eccezionale e dello squisito ozioso e falsamente disinteressato.

E cosí il Leopardi, si potrà aggiungere un po’ divagando, non fu colpito in Roma dai popolani sanfedisti dei rioni trasteverini, come tanti romantici e come il Belli che ne trasse la sua pur possente e sanguigna poesia, ma da quella piccola frazione della popolazione romana operaia colta nel ritmo del suo lavoro utile e di una letizia pacata associata al lavoro.

Ne nasce una delle «vie» piú poetiche del Leopardi, una poesia armonica e severa, mossa dai sentimenti piú profondi del Leopardi poeta del poetico vero, del vago ma fondato sul vero e non sul falso.

Quale lezione per i lettori leopardiani che non vogliano fermarsi al poeta di un idillio evasivo e misticheggiante o adoratore del nulla e solo immerso nella noia esistenziale! Elementi questi ultimi pur presenti nella formidabile presenza storica leopardiana, ma sorretti, e alla fine superati, da una forza di verità e di moralità senza di cui si perde il valore intero dell’esperienza leopardiana.

Cosí quest’ultima parte, di cui non sto a minutamente rilevare tutta la perfetta bellezza, il ritmo profondo che sale dal vero al bello, salda tutto il circolo possente e complesso di questa grande lettera, di questo unico capolavoro romano del Leopardi, e stimola ad una rinnovata attenzione a quel fondo energico, di suprema schiettezza e vigore morale, di bisogno di verità e di realtà che non è mai assente dalle pur diverse posizioni ideali e poetiche del Leopardi.

Qualcuno potrebbe dire: alla fine questa valutazione leopardiana del lavoro lieto degli operai di una rudimentale industria non giunge a individuare poi lo scontento di quegli sfruttati, la loro antipatia per la macchina a cui veniva legata la loro personalità e via via tante altre cose pur non inutili in una precisazione piú approfondita, ma purché storicamente comprensiva, delle posizioni leopardiane[13]. E questo qualcuno potrebbe arguire che Leopardi ha una concezione «idillica» del lavoro che rimanderebbe alla sua fondamentale natura idillica e ad una sua incomprensione della realtà del proprio tempo ritrovando insieme nelle figure popolari dei grandi idilli delle figurine di maniera vive solo nel riferimento alla dialettica piacere-dolore viva, a sua volta, solo nel caso stesso del poeta («il poeta dell’anima sua»).

Ma sarebbe pura pedanteria di meccanico sociologismo che perderebbe di vista l’autentica simpatia leopardiana per il popolo, sia in chiave di natura e di autenticità sia in chiave poi di fondamento di ogni vera costruzione civile e morale come può precisarsi nella Ginestra[14], dove, abolito ogni riferimento trascendente ad un qualsiasi «sen regale» manzoniano e, ripreso a nuovo livello l’illuministico e romantico appello all’accordo fra «saggi» e popolo (e già da giovane, in una lettera al Montani del ’19 egli verificava la decadenza della letteratura italiana nell’erezione di un muro fra letterati e popolo[15]) il Leopardi vedeva l’inizio di una vera civiltà solo in una educazione del popolo, non mitica, ma spregiudicata e vera, abolendo cosí ogni distinzione fra i saggi cui si deve la verità e il popolo cui si devono farina, feste e forca o miti fantastici adatti alla sua fanciullesca rozzezza, e infrangendo cosí anche lo slogan comune a tanto illuminismo riformatore: «tout pour le peuple, rien par le peuple» e ben superando cosí le posizioni di Alfieri e Foscolo.

E insieme si perderebbe di vista, ciò che soprattutto qui si vuol sottolineare a due mani, la profonda vocazione leopardiana per il «vero» contro il «falso», per la vita legata ad elementi essenziali e primari contro la vita oziosa e parassitaria, frivola, retorica o snobistica (Leopardi è il nostro maggior maestro di opposizione alla retorica e allo snobismo), e alla fine contro ogni concezione evasiva e idillica nel senso piú proprio della parola. L’«idillio» leopardiano non è mai senza fondo di verità, di realtà, di «passione», di profondo riferimento alla verità tragica della vita, di scelta morale e perciò la famosa traduzione dell’idillio quinto di Mosco, a ben guardare, non può assolutamente condurre (malgrado le geniali osservazioni desanctisiane) al cuore di quelle stesse poesie del Leopardi, da lui stesso definite «idilli».

Discorso questo tutto da riprendere non per giungere alla sciocca conclusione che nella poesia leopardiana c’è «sempre» tutto, forza, eroismo, «idillio», e non certo per smantellare una scansione di sviluppo e di fasi (che vanno anzi meglio evidenziate anche nel corso della produzione precedente al periodo dell’ultima poetica leopardiana), ma per alimentare piú profondamente il fascio di forze da cui prendono avvio e storicamente si consolidano, in varie prevalenze ed atteggiamenti, i momenti della poesia leopardiana e per avvertire comunque due cose: primo, che la stessa poetica dei cosiddetti «grandi idilli» va rivista al suo interno con maggior calcolo della sua sintetica realtà, secondo, che in tutta l’esperienza leopardiana preme una vena di ansia di moralità e di verità e una forza di contrasto con aspetti combattuti del tempo e dell’uomo (è chiaro, ad esempio, che la stessa spinta verso la natura non ha caratteri reazionari e puramente evasivi pur sfiorando il limite, come nella Vita solitaria, di un piú letterario vagheggiamento, ed implica una posizione energica di rottura e di attacco storico contro una certa civiltà astratta e convenzionale) e che, alla fine, ogni considerazione su particolari aspetti della posizione leopardiana deve pur ricondursi alla direzione che sfocia nelle scelte finali del Leopardi, quando piú chiara diviene la scelta di una via etico-pratica ben differente dagli esiti schopenhaueriani e anche kierkegaardiani, e toglie al Leopardi ogni possibilità di interpretazione mistico-religiosa.


1 Cfr. V. Imbriani, Passeggiate romane, in «Nuova Antologia», aprile 1961 pp. 465-468, C. Caversazzi Poeti alla tomba del Tasso in «Bergomum», 4, 1939.

2 Tutte le op. cit., II, pp. 1131-1132 e 1136 (pensiero del 24 marzo 1827).

3 Tutte le op. cit., I, pp. 1129-1130 e 1131-1133: lettere a Carlo (25 novembre 1822 e 6 dicembre 1822); p. 1163: al Giordani (26 aprile 1823).

4 Tutte le op. cit., I, pp. 1189-1170: al Giordani (4 agosto 1823); e II, p. 1198 (1 dicembre 1828).

5 Si veda la lettera al padre del 9 dicembre 1822 (in Tutte le op. cit., I, pp. 1133-1134): «Quanto ai letterati, de’ quali Ella mi domanda, io n’ho veramente conosciuto pochi, e questi pochi m’hanno tolta la voglia di conoscerne altri. Tutti pretendono d’arrivare all’immortalità in carrozza, come i cattivi Cristiani al Paradiso. Secondo loro, il sommo della sapienza umana, anzi la sola e vera scienza dell’uomo è l’Antiquaria. Non ho ancora potuto conoscere un letterato Romano che intenda sotto il nome di letteratura altro che l’Archeologia. Filosofia, morale, politica, scienza del cuore umano, eloquenza, poesia, filologia, tutto ciò è straniero in Roma, e pare un giuoco da fanciulli, a paragone del trovare se quel pezzo di rame o di sasso appartenne a Marcantonio o a Marcagrippa. La bella è che non si trova un Romano il quale realmente possieda il latino o il greco; senza la perfetta cognizione delle quali lingue, Ella ben vede che cosa mai possa essere lo studio dell’antichità. Tutto il giorno ciarlano e disputano, e si motteggiano ne’ giornali, e fanno cabale e partiti, e cosí vive e fa progressi la letteratura romana». Del resto anche gli studiosi stranieri residenti a Roma non sono in grado di apprezzare ciò che piú stava a cuore al Leopardi (filosofia e poesia) e questi, non senza disgusto, si sente costretto a ritornare alla erudizione e alla sua qualità di grecista, in un periodo in cui la stessa sua grande filologia gli appare povera cosa di fronte ai suoi interessi piú alti (v. lettera a Carlo, 22 gennaio 1823, in Tutte le op. cit., I, pp. 1143-1145, e quella, pure a Carlo, del 22 marzo 1823, in Tutte le op. cit., I, pp. 1155-1157: «Devi certamente ridere, come io fo, della filologia, della quale mi servo qui in Roma, solamente per le ragioni che ti dissi altra volta, e servendomene, sempre piú ne conosco la frivolezza»).

6 V. lettera a Carlo (le lettere a Carlo sono le piú schiette e libere anche nell’uso di un linguaggio violento e spregiudicato) del 18 dicembre 1822 (in Tutte le op. cit., I, pp. 1135-1136): «Cancellieri mi diverte qualche volta con alcuni racconti spirituali, verbigrazia che il Card. Malvasia b. m. metteva le mani in petto alle Dame della sua conversazione, ed era un débauché di prima sfera, e mandava all’inquisizione i mariti e le figlie di quelle che le resistevano ec. ec. Cose simili del Card. Brancadoro, simili di tutti i Cardinali (che sono le piú schifose persone della terra), simili di tutti i Prelati, nessuno de’ quali fa fortuna se non per mezzo delle donne. Il santo Papa Pio VII deve il Cardinalato e il Papato a una civetta di Roma. Dopo essere andato in estasi, si diverte presentemente a discorrere degli amori e lascivie de’ suoi Cardinali e de’ suoi Prelati, e ci ride, e dice loro de’ bons mots e delle galanterie in questo proposito. La sua conversazione favorita è composta di alcuni secolari, buffoni di professione, de’ quali ho saputo i nomi, ma non me ne ricordo. Una figlia di non so quale artista, già favorita di Lebzeltern, ottenne per mezzo di costui, e gode presentemente una pensione di settecento scudi l’anno, tanto che morto il suo primo marito, si è rimaritata a un Principe. La Magatti, quella famosa puttana di Calcagnini, esiliata a Firenze, ha 700 scudi di pensione dal governo, ottenuti per mezzo del principe Reale di Baviera, stato suo amico. Questo è quel principe ch’ebbe quel miracolo di guarire improvvisamente (come si lesse nelle gazzette) dalla sordità, restando piú sordo di prima».

7 V. la lettera a Paolina del 3 dicembre 1822, in Tutte le op. cit., I, p. 1131: «S’io volessi raccontare tutti i propositi ridicoli che servono di materia ai loro discorsi, e che sono i loro favoriti, non mi basterebbe un in-foglio. Questa mattina (per dirvene una sola) ho sentito discorrere gravemente e lungamente sopra la buona voce di un Prelato che cantò messa avanti ieri, e sopra la dignità del suo portamento nel fare questa funzione. Gli domandavano come aveva fatto ad acquistare queste belle prerogative, se nel principio della messa si era trovato niente imbarazzato, e cose simili. Il Prelato rispondeva che aveva imparato col lungo assistere alle Cappelle, che questo esercizio gli era stato molto utile, che quella è una scuola necessaria ai loro pari, che non s’era niente imbarazzato, e mille cose spiritosissime. Ho poi saputo che parecchi Cardinali e altri personaggi s’erano rallegrati con lui per il felice esito di quella messa cantata. Fate conto che tutti i propositi de’ discorsi romani sono di questo gusto, e io non esagero nulla». Alcune di queste citazioni delle lettere romane furono già utilizzate da L. Russo in una gustosissima noterella, Le scoperte filologiche e il Leopardi, in «Belfagor», 3, 1961.

8 V. lettera a Carlo del 8 dicembre 1822 già cit. Quasi tutte le lettere citate a tratteggiare il quadro negativo della società romana sono precedenti alla lettera sulla tomba del Tasso che nasce cosí dopo l’analisi intera della propria esperienza romana.

9 Questa della brevità del piacere o degli effetti della sensibilità è motivo profondo del Leopardi e può avvicinarsi a quella «mezz’ora di non viltà» a cui induce la lettura della vera poesia.

10 Cfr. Zibaldone, Tutte le op. cit., II, p. 1134 (17 marzo 1827).

11 La lettera, oggetto di questo breve saggio, si trova in Tutte le op. cit., I, p. 1150.

12 Tutte le op. cit., II, p. 1165 (10 agosto 1828).

13 Si veda ora il sollecitante anche se eccessivo ed enfatico finale della introduzione di C. Muscetta all’edizione dei Canti ecc. (a cura di C. Muscetta e G. Savoca, «Parnaso italiano», IX, Torino, 1968, p. XIV), circa «i fratelli di vita travagliosa», «dagli artigiani di tanti idilli al villanello industre cui si rivolge con un moto di tenerezza suprema Bruto morente, dal faticoso agricoltore della canzone Alla sua donna al pastore errante, al carrettiere del Tramonto della luna». E certo si dovrebbe pur descrivere la storia, lo svolgimento del sentimento democratico prepolitico del Leopardi, che certo ignora la lotta di classe e concetti del successivo socialismo scientifico (si vedano in proposito le osservazioni di S. Timpanaro per la Ginestra in Classicismo e illuminismo nell’ottocento italiano, Pisa 19692, p. 172, esse stesse bisognose di ulteriori precisazioni), ma vive e fonda un profondo sentimento persuaso della comune sorte degli uomini «veri» e della loro solidale battaglia per una diversa società, tanto piú profondo di ogni semplice simpatia per gli «umili», lega la serietà e dignità del lavoro alla serietà della vera cultura e della lotta ideologica (anche nella poesia). Mentre tale prospettiva dovrebbe essere ben scandita nel suo progressivo passaggio (con tutti i nessi generali che comporta rispetto al pensiero e alla poesia del Leopardi) dalla posizione veramente paternalistica rilevabile in certi versi villerecci puerili, su su, fino all’immagine del «villanello» della Ginestra oppresso dalla natura e dall’ordine ingiusto che ripete le leggi della natura ingiusta, contrapposto – pur nella comune catastrofe di Pompei e del suo rinnovarsi parziale ad ogni emozione vesuviana – alla condizione dell’«ozio dei potenti». Ma è un discorso tutto da riprendere storicamente nel chiarimento in atto entro la nuova prospettiva leopardiana che non a caso deve la sua origine e consistenza a studiosi di «sinistra».

14 Cfr. Ginestra, vv. 145-157.

15 Lettera al Montani, 21 maggio 1819, in Tutte le op. cit., I, pp. 1077-1078.