Un fratello europeo

«Il Corriere di Perugia», organo del Comitato provinciale di liberazione nazionale, a. I, n. 1, Perugia, 15 luglio 1944, p. 2.

UN FRATELLO EUROPEO

C’è nel cimitero di Perugia, vicino al monumento ai caduti nelle guerre d’indipendenza, una piccola lapide che in questi anni tante volte abbiamo ricercato e che ha sempre suscitato in noi una commozione vivissima e dolorosa.

È la lapide che il libero municipio di Perugia eresse a un giovane cecoslovacco, Joseph Matuska morto nel 1917 nella nostra città mentre si addestrava al lancio delle bombe a mano nel reggimento ceco che poi combatté sul nostro fronte accanto ai nostri soldati contro i nemici comuni. L’epigrafe nella sua conclusione esorta i cittadini di Perugia a non dimenticare questo straniero caduto nella lotta comune delle nazioni libere contro la tirannide e l’oppressione.

Ci ricordammo di questa lapide quando per le vie di Vienna vedemmo passare nel marzo del ’39 le truppe hitleriane che andavano ad occupare Praga dopo la beffa di Monaco e le promesse solenni di non volere neppure un cecoslovacco nel corpo del sacro popolo dei signori di razza pura; e ci parve che con la sopraffazione della libera Cecoslovacchia si compisse già la distruzione della nostra Italia.

Ci ricordammo di questa lapide ad ogni nuova aggressione tedesca e ad ogni adesione fascista a quell’opera di mostruosa violenza e sentimmo quel nome del giovane morto come un rimprovero e un’intollerabile vergogna per tutto il popolo italiano costretto da una minoranza a tradire le stesse idee per cui era sorto ad unità nazionale, per cui aveva combattuto nel ’15-18 una guerra cosí sanguinosa. Tutta la nostra tradizione di popolo libero e veramente europeo, tutti i nostri testi piú sacri, da Mazzini a Cattaneo, da Foscolo a Manzoni, erano stati sconfessati e noi ci sentivamo di fronte agli uomini degli altri paesi o schiavi commiserati o partecipi aborriti dell’oppressione tedesca. La funzione europea di un paese di alta dignità era stata annullata da una politica antidemocratica e rovinosa, e tutta una storia di fedeltà alla libertà e all’umanità era stata macchiata da gesti che solo ancora lacrime e sangue avrebbero potuto cancellare.

L’Italia di quel Garibaldi che, contro ogni risentimento personale ed ogni calcolo nazionalistico, era corso a combattere in Francia contro i tedeschi nel ’70, l’Italia del Mazzini della Giovane Europa, l’Italia che nel ’14 aveva fremuto di orrore per l’invasione del piccolo Belgio, non solo assisteva impassibile alla serie di aggressioni naziste, da quella della Cecoslovacchia in poi, ma dava la mano all’aggressore, lo adulava sui suoi giornali, lo imitava ridicolmente dall’antisemitismo al passo dell’oca (passo romano), entrava in guerra al suo fianco sacrificando il sangue delle sue giovani generazioni, esponendo un territorio vulnerabile alle prevedibilissime conseguenze di una guerra totale, giocando in un solo colpo pazzesco l’eredità di decenni di fatica e di lavoro. Come un figlio degenere che sperpera l’eredità di un padre laborioso e finisce in prigione per debiti e per truffa, l’Italia mussoliniana bruciava allegramente le risorse nazionali e una reputazione che la poneva in primissima linea tra i popoli liberi.

Legata ad un cadavere (una conoscenza anche sommaria della forza dell’Impero britannico, della Russia e dell’America rendeva come sicuro un arresto piú o meno rapido delle avanzate tedesche e un crollo della potenza nazista), l’Italia apponeva la firma ad una odiosa sfida al mondo civile, si imbrancava con i militaristi giapponesi, con tutti i miserabili fautori di un ordine carcerario e medioevale, rinnegava tutto ciò che i nostri avi e i nostri padri avevano desiderato e realizzato. Non c’è pagina dei nostri scrittori piú alti dell’Ottocento che non suoni come una terribile accusa a quel tradimento dei valori essenziali della vita politica e internazionale operata dal fascismo, non c’è punto del nostro interesse che non ci ponesse accanto alle nazioni in lotta contro la Germania di Hitler.

Ma a quell’Italia ufficiale (l’Italia degli illuminati, degli integerrimi Starace, Ciano) che ci sembrava un grottesco ritratto dell’Italia tradizionale non corrispose, per fortuna di tutta la nazione, l’anima dei migliori italiani che hanno opposto una resistenza sempre piú fiera e sempre piú fruttuosa al fascismo, e alla sua guerra. Perciò i migliori italiani, fedeli alla vera Italia, erano profondamente tristi il giorno tragico della caduta di Varsavia, il giorno in cui i tedeschi sfilavano sotto l’Arco della Pace a Parigi o distruggevano Belgrado o piantavano la croce uncinata sull’Acropoli di Atene, e fremevano di gioia alla notizia della resistenza sublime di Stalingrado, alle notizie delle offensive vittoriose di quelli che ufficialmente erano i loro nemici. Perciò le radio inglesi, americane, russe erano ascoltate appassionatamente (una propaganda nemica non potrebbe attecchire se non trovasse già una disposizione nettamente favorevole negli ascoltatori), perciò gli italiani vedevano nella vittoria delle nazioni unite non solo la fine di una guerra disastrosa, ma la fine di una vergogna per il nome italiano, la fine di una alleanza mostruosa. Quando poi, dopo la caduta del regime corrotto e corruttore e la palese occupazione tedesca del settembre ’43, la parte migliore degli italiani si rifiutò in ogni modo di servire l’oppressore e i suoi piccoli complici nostrani, a noi parve che l’ora piú triste fosse passata e che nelle miserie terribili imposte da un’occupazione brutale coadiuvata da una ripugnante masnada di cialtroni e di sanguinari cominciasse di nuovo per l’Italia una onorevole partecipazione alla vita europea, che l’Italia riprendesse il suo posto tra le nazioni in lotta contro il male, contro l’oppressione. A mano a mano che la resistenza cresceva, che il sangue dei patrioti era versato in una lotta sempre piú aperta, la nostra fiducia nell’avvenire dell’Italia cresceva: l’Italia caduta definitivamente fra le nazioni oppresse dalla Germania lottava ormai per la sua libertà e ritornava accanto alla Polonia, alla Cecoslovacchia, alla Jugoslavia, alla Francia, riprendeva il suo volto di nazione onorata per cui era meglio soffrire e lottare che opprimere e fare da serva sciocca all’oppressore. L’Italia che ha dimostrato chiaramente di ripudiare il fascismo e di voler combattere contro la Germania ci appare ora ben degna dell’Italia che fino al ’22 figurava fra le libere nazioni europee.

Il ricordo del fratello cecoslovacco caduto per la causa della sua nazione libera contro la tirannide tedesca non provoca piú in noi quel senso di amarezza, di umiliazione e sdegno di altri tempi: ora possiamo guardare serenamente gli altri uomini delle nazioni in lotta contro il nazismo per il trionfo di interessi e di idee che sono sul vero cammino del mondo moderno.