CAPITOLO II

LA POETICA DI GABRIELE D’ANNUNZIO E L’ESTETISMO

Tutte le formule tentate per definire D’Annunzio oscillano fra due qualità del suo temperamento: barbarie, panismo, lussuria dell’immaginazione e raffinatezza, bizantinismo.

La poetica dannunziana risente certamente di tutti questi lati di temperamento che si riassommano in una personalità di grande decadente italiano. Si pensa infatti come ad una certa eredità del Monti e si capisce ciò che distingue il D’Annunzio dai decadenti d’oltralpe: la tradizione, svisata, sfigurata, pure agisce nel D’Annunzio come una potentissima molla retorica che non può non avere il suo posto in una valutazione della poetica dannunziana. È quel gusto del sonante, del maestoso, che è una qualità preminente del Monti e non manca in molta poesia del Carducci.

Ma nel D’Annunzio anche ciò che pare sovrapposizione e passività dall’esterno nasce sopra una disposizione naturale che trasforma in una sua unica tinta i momenti in apparenza piú diversi: è impossibile confondere un verso del Poema paradisiaco con qualunque altro verso di crepuscolari, di decadenti languidi, e si riconosce invece fratello di qualunque verso della piú accesa Laus Vitae.

Si potrebbe, credo, battere di piú su un certo piglio religioso che in D’Annunzio è continuamente vicino, o mescolato, all’estrema sensualità, alla retorica magniloquente. Come un bisogno di miti e di divinità da adorare e uno sforzo di essere vate, di fare non solo tutt’uno fra vita e arte, ma addirittura fra la vita propria e quella del mondo sentito oggettivo, antitetico. Ciò che lo distingue appunto dai decadenti francesi, che, come vedremo, egli imita senza intimamente capire, è la mancanza di un approfondimento sostanziale del proprio io e una svalutazione del mondo a parvenza, possibilità di analogie radicate nel mistero soggettivo della sensazione. Perciò i suoi gridi hanno spesso qualcosa di profetico, come di chi vuole valicare un silenzio per giungere ad un altro da sé, sicuro ed esistente come la propria volontà di soggiogarlo. Certe sue frasi, certi suoi atteggiamenti, se pure privi di una coerenza e di una preparazione profonda, hanno una voce religiosa, una convinzione assorta che sta sempre però sul margine dell’oratoria e del vaniloquio. Qui è forse il carattere umano del poeta D’Annunzio: non essere tutto nel mondo della libertà, dove solo si può parlare di religione, non essere tutto nel mondo del mistero, del veggente fra le tenebre, in cui fruttifica ed è giustificato il misticismo decadente.

Il Serra disse della sua arte: «Questo è il punto essenziale del problema dannunziano: una perfezione che suona falso»[1]. Tutto bello, ma non convincente, senza sapore di realtà. Analogamente noi possiamo dire della sua natura ch’essa non manca mai di una religiosità che suona falso, che ci lascia per lo piú titubanti. L’impegno profetico, di salute, è forse la nota costante della sua ispirazione e le dà a volte dei momenti elettissimi, che egli non riesce d’altronde a lasciare incontaminati. Impegno pari alla sua scarsa intelligenza e profondità di problemi, qualcosa di trasvalorato sempre da una ebrezza, da una intuitività che spesso gira a vuoto. L’enfasi, cosí, che riempie tante delle sue pagine (tutta Merope ad esempio), oltre a venire come a riflettere in lui tutta una tradizione di eloquenza montiana (l’accusa mossa dal Serra al D’Annunzio è simile a quella che il Leopardi mosse, nello Zibaldone, al Monti) trova la sua spiegazione in quell’impegno vaticinatore, quando turbina passionalmente senza una necessità poetica, per puro impulso individuale.

Questo temperamento alogico, impulsivo, ricco di risorse religiose non determinate, era adattissimo a ricevere una formazione decadente e a trovare in una completa fusione di arte e vita lo sfogo migliore del proprio bisogno di cogliere il mondo senza pensarlo logicamente, senza viverlo come problema posto volta per volta e di fronte al quale ci si deve sentire praticamente creatori e creati, con una responsabilità di verità e di aderenza. Nella rapita agiografia decadente, Mallarmé è un santo contemplativo, un asceta scarnificato da esercizi sempre piú imponderabili e astrusi, mentre il D’Annunzio potrebbe essere il santo attivo, il santificatore della vita mediante il rito continuo dell’arte, l’arricchitore dell’arte personalmente vissuta.

Wilde, Nietzsche, ma specialmente il primo perché meno tragico, meno vicino ai limiti della follia, e piú fastoso, piú sfatto in una larga lussuria, sembrano i suoi precursori, piú che i poeti maledetti dei cenacoli francesi. E, per esemplificare ancora, piú che Debussy, che pure musicò il Saint Sébastien, gli è vicino Strauss col suo impegno di confusa annunciazione in toni di cupo oro bizantineggiante.

Non si può prevedere astrologicamente che piega avrebbe preso il D’Annunzio, se non fosse venuto a contatto con l’atmosfera della Roma sommarughiana, con il mondo dell’intrigo e del lusso. L’incontro ad ogni modo, visto senza nessuna preoccupazione deterministica, ci appare decisivo, ed è proprio da quel periodo e da quel contatto che comincia a precisarsi decadentisticamente la poetica del D’Annunzio.

Quella certa morbidezza femminile che si può avvertire attentamente in certe svolte blande del Canto novo va prendendo il sopravvento, con il grande vantaggio di svuotare di ogni romanticismo gli atteggiamenti carducciani e di dare ben altro sostegno di sensibilità moderna alle future creazioni del poeta.

Primo vere è ancora immune da ogni influenza che non sia quella dei classici e del Carducci (del resto l’imitazione carducciana è assai esterna, quasi un’eccitazione entusiastica di vita piena e sensuale, una maniera che D’Annunzio ripete per suggestione, talvolta per completa ossessione [Gargiulo]), ma in certi slarghi quasi incoscienti e motivati dalla sua piú intima sensibilità musicale c’è già un accento, un certo legare le parole perifericamente, quasi per una loro congruenza edonistica, che ci fa capire, almeno come capacità genuina, il futuro decadentismo dannunziano.

Lo stesso metro delle Odi barbare, ancora ripetuto nel Canto novo, ha qui la sua giustificazione moderna, legando ad una ricercatezza di metro fastoso e sostenuto tutta una sensibilità lussuosa, godente della propria carnalità:

Curvo a ’l tuo piede, come un tigre dómo,

stringa lo schiavo etïope il lunato

arco d’argento, e ne ’l felino avvampi

occhio un desío.

Alta nel peplo tu...»)[2]

La rapidità stessa con cui D’Annunzio assimila il mondo romano nella propria personalità umana, e accoglie nella sua poetica le influenze straniere, testimonia del suo sostanziale decadentismo: un decadentismo non intellettuale, senza complicazioni di vere profondità mistiche, con forti limiti italiani e provinciali. Ché, attraverso tutte le piú diverse influenze e gli stadi della sua poetica quali li percorreremo in queste pagine, permane l’accento fondamentale di una natura decadente, scarsamente europea, malgrado l’esperienza e il riconoscimento europeo del poeta.

Quando tireremo i conti di questo esame, confermeremo come il D’Annunzio sia restato sempre essenzialmente un provinciale, anche se europeizzato; ché la sua poetica, pur aiutata nel suo sviluppo da quelle straniere, in realtà manca di ciò che costituisce la profondità e la caratteristica teorica di quelle (con ciò non voglio affatto diminuire il D’Annunzio, ma solo vedere i suoi limiti rispetto all’europeizzamento piú completo dei poeti nuovi), ché essa mantiene un tono di maggiore ingenuità, di persuasione pratica che la fa confinare con una sincera retorica.

In Primo vere, a parte esagerazioni da adolescente come Ora satanica, la stessa insistenza sui soggetti erotici ed una compiacenza eccessiva in descrizioni morbide annuncia una sensualità fra panica e languente, facile a complicarsi con la cultura europea e a concretarsi in una definitiva poetica decadente.

Passano in rapidi cocchi e dileguandosi

le beltà pallide da ’l guardo languido

con onde di profumi,

svegliando disii fervidi.

(Sera d’estate su ’l «Lungarno Nuovo» a Firenze)

Si sente che non c’è un abisso fra queste mosse ingenue e la raffinatezza delle «elegie romane»:

Scossa da ’l vento molle la selva de’ tigli frondosa.

Si sente che un temperamento, tale da portare in una costruzione di tipo classico e serrato una serie di sensazioni tendenti alla dissoluzione sintattica, all’onda musicale-oratoria, coltivato in un ambiente di serra come quello romano dell’80, deve acquistare una sicurezza decadente, un tono anticlassico ed antiromantico, e, risolvendo l’arte nella vita e la vita nell’arte, deve intrudere nelle proprie direttive di lavoro un forte stimolo sensuale, una ricerca di musicalità suasiva, mondana. Per l’intima dialettica delle cose spirituali, il soggiorno romano, come le influenze straniere, erano per questa natura poetica necessari, inevitabili.

Nel Canto novo il poeta, diventato tanto piú cosciente di se stesso, non è venuto però ancora a contatto con le correnti straniere; e possiamo dire che la sua ispirazione, chiaritasi, è però genuina, poco disturbata da programmi poetici e ci permette di notare già nel D’Annunzio meno scaltro la necessità dei suoi posteriori sviluppi di poetica, del suo costruire decadente. La ricchezza sensitiva delle immagini è in Canto novo traboccante e tanto esagerata da appesantire ed oscurare tutto il libro con un abisso di parole scarsamente significative, riunite in una musica lussureggiante e disordinata.

Un semicerchio argenteo

pende su’ ceruli monti che paiono

proni atleti cadaveri.

Dicono i petali ne ’l sonno: – oh zefiri!

blandi, pregni di pollini,

freschi! oh freschissime rugiade! oh fervido amor d’una libellula! –

ne ’l sonno i petali chini pispigliano.

(Canto del sole, V)

È un’orgia nata su di un’ebrezza senza centro lirico. Non è certo la poetica classica, e manca di quel carattere sottile di iniziazione e di nascita dal mistero che contraddistingue le poetiche contemporanee. È fondamentalmente la poetica del D’Annunzio in un momento immaturo, giovanile: ma noi la ritroveremo, con ben altra forza lirica, anche nella grande poesia dell’Alcyone.

Nel Canto novo, che è il libro degli errori preziosi, degli spunti manchevoli e indicatori

(Allor ne ’l sole fuor da le rosee

gemme proruppe súbita a l’aure

l’infanzia gentil de le rame;

e da le rame le foglie, i fiori

[...]

le foglie, i fiori strani proruppero a mille a mille.)

(Canto dell’ospite, X)

la poetica della sensazione fatta guida spirituale alla ricerca della poesia è già in pieno sviluppo: il tessuto, aggravato da quell’eccesso di impressioni sopra notato, è appunto tutto un aggiungersi insistente di sensazioni fitte, che, vere padrone dei sentimenti, sostituiscono in pieno i tempi lirici del poema tradizionale:

Pe’ sicomori argentee

l’acqua fluiscono; ne ’l plenilunio

umido l’aure esalano

olezzi spiriti d’esseri incogniti.

Trepidi ne l’insonnia

d’amor le vergini odon le antilopi

in riva a ’l fiume scendere;

e il lambire avido de le lingue odono.

(Su l’«Egitto» di M. Sala)

Già nel Canto novo c’è dato notare il vizio fondamentale della poetica del D’Annunzio nei suoi sviluppi: la mancanza di un vero pensiero, di veri interessi spirituali in profondo, e d’altronde quell’impeto vitale e indeterminatamente religioso, conducono il poeta a fingersi degli scopi superiori, a introdurre, per la loro stretta comunione, elementi pratici nella sua arte, che istintivamente vi repugna e nei momenti migliori vi sfugge. Ma se la natura reagisce, nella sua poetica questi momenti di sfogo pratico, di compenso della vita nell’arte, si vanno sempre piú intensificando fino alla creazione del superuomo e al dissolvimento dell’arte nella pratica.

Me attende una torva battaglia, me forte recluta

un fratel ritto sovra gli spaldi chiama:

ode ei cupi rantoli di strozze fameliche, a ’l fondo

come un brulichío turpe di vermi umani;

ode ei singulti di laceri petti, infantili

gemiti, aneliti, misere bestemmie...

Non piú sogni, non ozii. L’azza sfavilli ne ’l pugno

salda; guardi l’occhio vigile all’avvenire.

(«Violacee l’onde ne ’l vespero fosco d’Autunno»)

Questi conati, momentanei e volitivi, corrispondenti ad una natura piú bisognosa di affermazioni che di una vera soluzione radicale, non restano però marginali ed innocenti nell’opera artistica. A un certo punto si intruderanno completamente nella poetica e ne formeranno anzi il motivo centrale e corruttore, ma già fin d’ora inficiano sotterraneamente le espressioni in apparenza piú pure: un forte alone volontaristico non manca mai nella produzione meno realizzata del D’Annunzio.

Se già in Canto novo, e poi in Intermezzo (Vecchi pastelli), si può sentire un’ombra di parnassianismo, bisogna avvertire l’assoluta mancanza di quella freddezza implacabile che salva il quadro e la descrizione plastica nei poeti parnassiani[3]: qui invece prevale, oltre ogni possibile intenzione parnassiana, l’autonomia della sensazione musicata da se stessa.

Nell’Intermezzo c’è infatti una piena consapevolezza della propria ispirazione sensuale e, d’altra parte, un avviarsi alle tinte languide e mondane dell’Isotteo e del Poema paradisiaco, sia pure realizzate con qualche stonatura:

Allora fu una molle cascata di viole

ne l’aria. Un solco d’oro s’apriva basso; rotto

il bagliore su i culmini indugiava; di sotto

a i culmini illustrati, già nell’assopimento

grave i tronchi annegavano. Lente nel vapor lento

de la sera le cose perdevano le forme.

Le viole cadevano; era una pioggia enorme.

(Il peccato di Maggio, II)

***

I motivi del languore e della sospirosità sensuale non mancavano nel forte impeto del Canto novo, e nel verismo estetizzante dell’Intermezzo l’accentuazione dello sfinimento sensuale faceva prevedere l’aprirsi di un mondo piú sfatto, di una tecnica sempre meno carducciana anche esteriormente, guidata da una poetica che si incentrava nel bisogno prezioso e decadente di tenero giuoco, di musicalità, vicina ad una specie di suasione amorosa.

La poetica del momento romano è una poetica di società, impinguata di elementi pratici proprio dove sembra piú mirare al puro, all’essenziale. È cresciuta in un poeta che pensa alle persone cui si rivolge, che sente l’ambiente e non vuole affatto ignorarlo, superarlo nella sua creazione. In tante di queste poesie si avverte come l’ombra di una interlocutrice, di una donna cui vanno le parole del poeta: la prima retorica dannunziana è una retorica di seduttore raffinato.

Anche qui è chiara la necessità e il positivo dei cosiddetti plagi dannunziani, che non sono tanto dovuti a un prepotere di autori stranieri su di lui, quanto a un suo effettivo bisogno di appropriarsi, per un sincero momento intimo, dei motivi già espressi e utili alla propria creazione. Ciò può spiegare la natura, in parte pratica, della poetica dannunziana, in cui l’essenziale non è tanto l’esprimersi nel modo piú intimo, quanto l’effetto e la persuasione che bisogna ottenere a qualsiasi costo, come d’altronde risponde al suo essere tutto arte, al poter sentire come cosa propria frammenti di altri poeti, nella sicurezza di rinnovarli (come di fatto avviene sempre nel D’Annunzio) nella propria maniera personale, nella propria musica.

Veramente, come dice il Praz, è utile ricercare le fonti del D’Annunzio «non per detrargli nulla, ma per capire le sue preferenze, il modo con cui rielabora la sua lingua, la sua poesia». Specialmente parlandosi di poetica, l’indicazione delle sue preferenze ha l’utilità di collocare il poeta fra gli altri decadenti che piú sentí affini e di chiarire i suoi indirizzi, le sue intuizioni programmatiche.

Cosí la presenza di un certo verlainianismo nel Poema paradisiaco, privato di quell’empito di tenerezza che porterà il «pauvre Lélian» al misticismo cattolico dei suoi ultimi anni, ci chiarisce la volontà di dare alla propria lirica un tono dimesso, ingenuo, un tessuto di apparenza non eccezionale, di canto piú che di sinfonia.

È certo che il periodo romano è il momento di assimilazione, da parte di D’Annunzio, del decadentismo europeo (entro quei limiti che abbiamo accennati), la chiarificazione dei germi personali di decadentismo nella potente rivoluzione attuata all’estero. Da questo momento la poetica di D’Annunzio è sempre decadente, anche se v’è la reazione, che è poi collaborazione, di una certa vena paesana, di terra.

Per l’assimilazione di quell’atmosfera decadente che circolava inconsciamente entro la vita mondana della Roma umbertina, in cui lo snobismo adottava una notevole imitazione esotica di raffinatezze estetizzanti[4], ci interessa soprattutto l’insieme delle cronache mondane che il Nostro scrisse sulle colonne della «Tribuna» e degli articoletti occasionati dalla vita di società romana, comparsi sulla «Cronaca bizantina»[5].

C’è in essi la preparazione viva dei volumi romani, dell’Isotteo, delle Elegie, del Piacere, e gli indizi di quella famosa stanchezza della carne che il D’Annunzio stravolse poi in conversione morale alla bontà. I personaggi del Piacere si ritrovano qui, e spesso passano nel romanzo con piccoli tocchi di trasformazione (il che spiega il carattere spesso cronachistico di quel lavoro). Ma soprattutto nelle cronache c’è lo spunto pratico e la sfumatura speciale della poetica decadente di questo periodo. E negli articoli letterari, nelle recensioni, il gusto critico su cui si impernia direttamente una poetica, ci si mostra nella sua piú chiara ingenuità. Documenti di cui solo il Praz si è servito e che vanno invece studiati accuratamente per riconoscervi, in relazione con i libri del periodo, la decisiva formazione della poetica dannunziana.

Si può dire che la sua sensibilità decadente si delinea in queste cronache mondane in un ritmo che è già quello delle migliori poesie dell’Isotteo, con un senso abbandonato della frase che è già il tono del Poema paradisiaco.

«Per la via del Corso le signore tiberine passano al trotto stanco dei cavalli, distese nelle carrozze a metà chiuse, e sono pallide, per lo piú nascoste da un velo denso, sprofondate nella mollezza delle pellicce. Salutano lentamente, sorridono debolmente; lasciano che la testa dondoli al moto delle ruote; talvolta paiono assopite e paiono non avere piú forme sotto l’amplitudine dei mantelli... Nulla è piú signorilmente voluttuoso che una pelliccia di lontra già da qualche tempo usata» (11 dicembre 1888, «Tribuna»), in un articolo che, dopo una lunga, preziosa descrizione di pellicce, finisce con la sospirosità di un ritornello decadente: «E nessuna cosa piú che una pelliccia di lontra, in tempo piovoso, suscita nei riguardanti il desiderio dell’intimità dell’amore».

La sua sensibilità, finora eccitata dai colori intensi e dagli assalti ferini di Terra vergine (ma già un forte preziosismo si mescolava alla diretta espressione della foja) trova da macerarsi e da maturarsi esattamente in una esperienza mondana e in una esperienza letteraria (Péladan, Bourget oltre tutti i poeti preraffaelliti e francesi[6]) che la precisano e le tolgono ogni durezza.

In questa cava di materiale decadente, in via di formazione, la parte piú caduca è costituita dai raccontini mondani, alla Musset, che non ebbero nessun seguito nell’opera del poeta. Tutto il resto ha un valore diretto, e soprattutto quelle cronache mondane, quelle notizie di moda che ci fanno ricordare che anche l’ascetico Mallarmé diresse un giornale di moda. Traspaiono in tutte le prime preferenze del poeta applicate ai fatti, alle persone del mondo romano: «Miss Multon pareva una figura ideale del poeta pittore Dante Gabriele Rossetti. Vestiva di velo bianco e su quel bianco il color del volto acquistava una diafanità indefinibile. O beata beatrix!» (25 gennaio 1885).

E c’è di solito in queste cronache, accanto ad uno sdegno estetizzante per le cose moderne, un amore dell’esotico e del raffinato che ci introduce appunto nella poetica che produsse l’Isotteo, il Piacere, le Elegie romane. Una poetica che illuminano alcune parole in cui sembrano raggrumate sensazioni e dettami decadenti: «la piazza di Spagna è un luminoso tepidario cattolico, protetta dalla madonna fons amoris» (25 dicembre 1884). Scegliere delle cose spirituali l’alone sensuale, delle cose sensibili quel certo raffinamento metempirico, e tuffare ogni possibile oggetto di poesia in un’atmosfera voluttuosa, snervante, quasi in un «tepidario cattolico».

Cosí la scelta delle situazioni (il critico dannunziano non può davvero godere l’arte se non vicino ad una donna, che «con fine prudenza non parla d’arte, non dice che parole d’amore»), dei luoghi, degli oggetti (tutto è un po’ visto come soprammobile, con amore di raccoglitore), delle ore, è dovuta a questa ricerca non di dramma, di energia, ma di sontuosità languente, conscie della propria squisitezza. Dei tre attributi dati da Nietzsche ai decadenti: brutalità, candore, artificio, in questo momento è il primo che meno si avverte nella poetica dannunziana.

Pare che D’Annunzio reagisse a quel primo suo tono barbarico, improntato di carduccianesimo esteriore, e si spingesse al corno opposto della sua natura, alla languidezza mondana e al senso della carne stanca. Certamente in tutto il periodo romano la poetica decadente è chiarissima e il D’Annunzio rientra perfettamente nel quadro del decadentismo fin de siècle.

Ogni poetica si potrebbe proiettare in un paesaggio: ebbene, per la poetica del D’Annunzio romano, il paesaggio ci è offerto da un misto dell’appartamento di Andrea Sperelli e della villa di Schifanoia. E l’ora non è piú il mezzogiorno di Canto novo o dell’Alcyone, ma è il crepuscolo o l’alba, in cui le sensazioni sono piú leggere e raffinate. Questa poetica della sensualità signorile non cerca impegni assoluti, approfondimenti di uno stato lirico; li sfiora e ne trae sensazioni, stravolge ogni possibilità di pensiero in passività sensuale.

C’è come una sottile retorica del seduttore: «potete insinuarvi in mille modi nel suo cuore, suscitare in lei una sensazione dolce e candida, muovere in lei la sentimentalità, che in questi giorni cristiani galleggia in tutte le anime muliebri» (25 novembre 1884). La poetica del D’Annunzio è press’a poco tale: suscitare delle sensazioni sui limiti della commozione, muovere piú la sentimentalità che il sentimento, condurre ad un interesse della persona sensuale, ad una soddisfazione, non ad un puro interesse estetico. Come tutti gli estetizzanti D’Annunzio è legato continuamente al mondo, non sente di essere solo come un Leopardi, ma è sempre come eccitato dalla lettura ad alta voce che gli altri faranno delle sue opere. In questa poetica preziosa non c’è ancora l’immediata creazione della musica come nelle esperienze piú moderne, né la poesia muove piú dal contenuto: è un contenuto pretesto ad una corposità delle singole parole carezzate, elette con una cura che si manterrà perfino nella musica dell’Alcyone.

La cura particolare e sensuale della parola è continua in D’Annunzio, ma soprattutto caratteristica del periodo romano, mentre è già minore nel Poema paradisiaco di fronte alla ricerca degli smorzati, dei toni di nenia. Come giudica D’Annunzio il Carducci? «Le parole sono simboli senza possibile sinonimia, che soltanto concedono intero il loro splendore all’artefice il quale sappia scrutare le loro origini. E G. Carducci è il piú profondo conoscitor di parole che abbia oggi l’Italia ed è certamente il piú ricco. La dovizia della sua lingua è larga come la sua sapienza nell’adoperarle» (9 aprile 1888). E in un articolo intitolato (si badi bene) Note sulla vita: «C’è una sola scienza al mondo, suprema: la scienza delle parole. Chi conosce questa, conosce tutto, perché tutto esiste solamente per mezzo del verbo. La trascrizione materiale di certe sillabe talvolta opera cosí violentemente sul cervello che ne trae larghi getti subitanei d’immagini e di pensiero» (23 settembre 1888). Qui l’artista era veramente sincero, enunciava la sua poetica e la sua morale panestetica, senza complicazioni sopraggiunte. La seconda frase citata ci guida poi a comprendere il valore della parola tutto sensibile, suggestivo in un senso quasi fisico. E ci spiega l’arbitrarietà, la non necessità lirica di tante parti dell’opera dannunziana: una parola, uno spunto semantico, e una suggestione fonica scatenano la sensibilità (non il cervello, come dice D’Annunzio, semmai sarebbe piú giusto dire: la sensibilità viziata dal cervello) del poeta in una sequenza di altre parole elette secondo la loro corposità, ma prive di una coesione che superi la semplice aderenza dell’animazione momentanea. I due momenti della cura preziosa della parola e della generazione puramente eccitatoria delle frasi sono coesistenti e precisano nel modo migliore la poetica del D’Annunzio in genere e del D’Annunzio romano in particolare. Nel D’Annunzio posteriore tanti altri motivi di ricerca poetica si aggiungeranno, ma non escluderanno mai la cura della parola e l’ebrezza anticlassica della creazione verbale.

In generale si è calcato solo sulla cura della parola e non s’è visto come spessissimo quella certa provvisorietà che si avverte in contrasto con la squisitezza della parola ricercata deriva proprio dall’abbandono con cui il poeta segue il predominio di una prima parola in una musica di sovrabbondanza.

Nelle cronache mondane del periodo romano molte dichiarazioni interessano la poetica dannunziana. Noi ne estrarremo due importantissime. Parlando di Filippo Palizzi, nel «Mattino» del 25 luglio 1888, il D’Annunzio dice: «Egli non cerca di là. Non è come noi sovreccitato dall’eccesso della vita cerebrale. È piú puro, piú ingenuo, piú sano, piú sincero di noi». È un’adesione al decadentismo, una confessione di coscienza decadente che ci mostra come il D’Annunzio per programma fosse del tutto sulla strada degli europei, anche se noi troviamo in lui una forte dose di provincialismo e di ingenuità: ma per la poetica è essenziale la dichiarata intenzione. Del resto un’altra citazione ci spiegherà meglio la particolare posizione del nostro: «V’è una specie di sensualità spirituale che non tocca affatto il corpo. V’è una voluttà tanto sottile che non ha, dirò cosí, ripercussione organica. Ma pochi comprendono e ammettono che il candore d’una spalla, la polita curva d’un ventre non deturpato dalla maternità, il palpito visibile d’un seno, la lunghezza quasi fluente d’una gamba, il perfetto arco d’una schiena, possano profondamente dilettare certi uomini senza farli desiosi» (1 novembre 1887, «Cronaca bizantina»).

Si tratta di un estetismo, di un raffinamento sensuale caratteristico del D’Annunzio e di quell’ambiente decadente che si riunisce intorno al «Convito» di Adolfo De Bosis.

***

È proprio nell’Isotteo, il primo libro veramente romano, che ricorrono i famosi versi diretti al Marradi:

O poeta, divina è la Parola;

ne la pura bellezza il ciel ripose

ogni nostra letizia; e il Verso è tutto.

(Epodo, IV)

Versi che fermano la poetica dannunziana nel suo momento di maggior letizia mondana, di decadentismo sorridente, snobistico, di una barbarie domata soavemente.

Il particolare atteggiamento della poetica dell’Isotteo e della Chimera è, come dicevo, di una tenuità snobistica, non ancora soppiantata dal languore del Poema paradisiaco, né dalla barbarie sadica del superuomo, i due corni estremi tra cui giuoca la natura dannunziana.

È ancora un decadentismo cortigiano, piacevole, di scarso impegno, di voluto riflesso stilnovista e preraffaellita. Ché è proprio della poetica dannunziana far sentire l’origine della frase, il tono del mondo poetico da cui essa proviene, per sfumarne nostalgicamente il componimento ed aggiungere alla malia della parola e del verso il profumo del passato e di altri climi poetici. Cosí pure le forme metriche antiche con grande cura distinte (rondò alla Marot, alla Villon, alla D’Orléans) non sono che mezzi suggestivi di questa poetica. Sono espedienti cari ai decadenti e li ritroveremo, con altra giustificazione, nel Pascoli.

Cosí pure quel tirare in ballo dei grandi artisti per accrescere l’atmosfera eccezionale e carica di sfarzo estetico:

Dormono a presso i veltri da ’l sottile

muso di luccio, candidi, eleganti,

snelli, che Paol Veronese amava.

(Donna Clara, III)

... come la donna dell’allegoria

apparve in sogno a Sandro Botticelli.

(Due Beatrici)

Il dilettantismo di D’Annunzio non è stato mai maggiore, ma bisogna notare che sotto le complicazioni di alcuni momenti posteriori non si cela una piú esatta compiutezza artistica.

Qui si può sostanzialmente dire che la poesia si adegua alla poetica interamente, che il poeta raggiunge ciò che vuole: una facilità senza intoppi, una musica benigna, di raffinatezza non dolorosa. Rare volte ricorre il poeta alla semplice suggestione fonica ed anche allora:

O Viviana May de Penuele,

gelida virgo prerafaelita,

(Due Beatrici, II)

è piú accarezzamento di parole corpose che pura musica. La poetica dell’Isotteo non tendeva se non alla ricerca di una atmosfera leggera, preziosa, piacevole, sfuggendo il piú chiaro abbandono del Poema paradisiaco, e non avendo afferrato le conclusioni dei simbolisti.

A questo punto si deve insistere sulla qualità del decadentismo dannunziano, sulla sua diversità dal piú sottile simbolismo, sul suo carattere prettamente italiano. D’Annunzio non cerca il sotterraneo sapore dell’ignoto quanto l’evidenza di una musica sensuale. C’è in lui, malgrado il suo sforzo di europeismo, un forte residuo provinciale che lo distacca anche dalla nostra ultima, piú raffinata poesia, e ne fa sentire le radici ottocentesche.

Le influenze straniere sono perciò in funzione della sua natura, e, quando sono dissimili, vengono rifiutate decisamente. Sono cultura che deve fare i conti col gusto del poeta prima e poi con la sua effettiva sincerità artistica. Per modo che possono anche viziare contingentemente la sua poetica, ma restano morte scorie nell’opera concreta della poesia.

Nei grandi poeti il gusto e la cultura fanno tutt’uno con la poesia; in D’Annunzio il gusto spesso predomina e rovina la poesia, ingigantisce, deformandola, la sua vera natura poetica: la barbarie diventa sadismo, la stanchezza sfinimento. Ed a causa del suo gusto, della sua intellettualità inadeguata, sfiora continuamente la falsità e non riesce a reagire ai propri atteggiamenti psicologici, che diventano cosí guide e insieme falsatrici della sua poetica.

Cosí il Piacere nasce dall’atteggiamento snobistico, estetizzante e con il solito intento di un romanzo poco romanzo e molto raffinata descrizione di ambienti, situazioni, oggetti, con un forte accento pratico. Certo non rispondeva affatto alle parole che il poeta gli preponeva: «Libro, nel quale io studio, non senza tristezza, tanta corruzione e tanta depravazione e tanta sottilità e falsità e crudeltà vane»; in coerenza con i sonetti dell’anima, le poesie di Andrea Sperelli che chiudono la Chimera.

Fa che raccolga ogni dolor del mondo (...)

Corra improvviso un caldo flutto umano

per le tue strofe...

(Al poeta Andrea Sperelli)

Troppo in un malsano

artifizio di suoni io perseguii

a lungo de l’amor le larve infide.

Ora un lucido senso alto ed umano

me invade...

(Al poeta Giulio Salvadori)

«Si sente attratto (dice dello Sperelli nella prosa autobiografica di congedo alla Chimera) verso la grande salvezza di questi anacoreti della società moderna, verso la Vita multipla e multiforme, vibrante, sonante, trascinante, e verso la grande Arte rispecchiatrice dei fenomeni e delle passioni del mondo». La confusione che c’è in questo periodo interviene, nella poetica dannunziana, nei romanzi posteriori al Piacere, il quale, malgrado questa e la frase della prefazione, resta il romanzo della poetica romana, dell’estetismo gioioso. Lo Sperelli è anzi (dato l’intimo scambio di vita e poesia, di morale e arte) la poetica in atto, la personalizzazione di un ideale artistico-morale. E non è perciò veramente una realtà poetica, ma un insieme di desideri, di regole per raggiungere l’arte e la vita.

«Il rimpianto è il vano pascolo d’uno spirito disoccupato. Bisogna soprattutto evitare il rimpianto occupando sempre lo spirito con nuove sensazioni e con nuove immaginazioni». È evidente che in questa frase non c’è solo la regola morale, ma soprattutto una regola di poetica; affidarsi tutto alle sensazioni, tramare l’opera artistica esclusivamente sulle sensazioni. E il rimpianto vano è come l’approfondimento dell’animus poetico fino a quella radice di universalità che dà un centro umano alla poesia.

Ed infatti il Piacere è tutto sensazione e nuove immaginazioni, conservanti qualcosa della regola che le dettò e non collegate dalla musica che troviamo nelle Elegie romane. Del resto tutti i romanzi di D’Annunzio valgono piú che altro come documenti della sua poetica, perché mostrano piú patenti i vizi di costruzione e perché in essi l’autobiografia è piú realistica, piú antropomorfica, e rispecchia meglio la sua poetica tradotta in morale, in guida d’azione.

L’apparenza di una maggiore serietà umana e un timido allontanarsi dal modo giocoso dell’Isotteo, nella descrizione d’una fine d’amore, disorientò il pubblico di fronte alle Elegie romane. Esse sfuggono alla poetica del periodo romano, ma accentuano una certa intimità dolorosa che si sfarà nel languore del Poema paradisiaco:

Aspra nel gran silenzio fería l’invisibile scure;

non il ferito tronco udíasi gemere.

Ella, ella a un tratto, come ferita, ruppe in singhiozzi:

ruppe ella in disperate lacrime; ed io la vidi

nel mio pensiero, quasi nel guizzo d’un lampo, io la vidi úmile

sanguinare, úmile boccheggiare,

stesa tra ’l sangue, e alzare le supplici mani dal rosso lago; e

dicea con gli occhi: – Io non ti feci male.

(Villa Chigi, VI)

Il Praz cita questo brano come esempio di sadismo, ma a noi interessa soprattutto per il carattere doloroso che vi assume la sensazione. Il ritmo, con cui la sensazione riempie la poesia, cambia: passa dalla levità colorita dell’Isotteo alla lentezza sognata, malata del Poema paradisiaco.

***

Come preannunziavano certi atteggiamenti dell’ultima Chimera e certi suoi toni cadenti:

Fratello. Questa è la vita. Procedi in pace,

anche nel Piacere alcune frasi isolate paiono già versi del Poema paradisiaco:

né la pelle del volto era men bianca di quella fascia.

D’Annunzio si trovò, dopo un’orgia di soddisfazione, in una crisi di stanchezza, che lo rese sensibile alla influenza dei russi e dei decadenti tipo Verlaine.

Si tratta di uno stato di scontentezza carnale che egli stesso pare definire in un punto del Piacere: «Qualche volta, egli diceva a lei, la comunione del mio spirito col tuo mi par cosí casta ch’io ti chiamerei sorella baciandoti le mani. Queste fallaci purificazioni ed elevazioni del sentimento avvenivano sempre nei languidi intervalli del piacere, quando nel riposo della carne l’anima provava un bisogno vago di idealismo». Si tratta di un istintivo senso di convalescenza che assume, agli occhi del poeta, il valore di un rinnovamento, di una conquista morale. Su questa trama psicologica, si inserisce la conoscenza dei russi e di quei decadenti francesi e fiamminghi: Jammes, Rodenbach, Maeterlinck, che piú avevano sentito i limiti delle possibilità sensuali e si erano ritirati in un angolo della propria sentimentalità a guardare la vita nei suoi aspetti piú ombrati, patinati di noia e consuetudine.

Il pretesto moralistico del rinnovamento (nella prefazione del Giovanni Episcopo, alla Serao, il poeta dice: «Questo piccolo libro che io vi dedico, non ha per me importanza d’arte, ma è un semplice documento letterario, pubblicato a indicare il primo sforzo istintivo di un artefice inquieto verso una finale rinnovazione») si mescolava con l’influenza dei metodi psicologici del romanzo russo, del povero diavolo condotto dalla propria debolezza al delitto o dell’intellettuale che si purifica mediante le sofferenze che infligge alle persone piú care.

L’accento del Poema paradisiaco ha fatto prendere quest’opera come l’unica veramente decadente del D’Annunzio, per la sua chiara parentela con i decadenti francesi e per il fatto che in Italia l’atteggiamento decadente è stato identificato senz’altro con quello dei crepuscolari, degli stanchi, dei languidi. Prevale insomma, di fronte alla stanchezza del Poema paradisiaco, l’accezione deteriore di decadentismo. Infatti qui D’Annunzio tocca un estremo del suo carattere, e perciò l’elemento psicologico, extraestetico vi è fortissimo, tanto che spesso la poetica del Poema paradisiaco prende l’aspetto di una vera e propria pratica sensuale, diretta a cullare, a sfiorare i sensi stanchi, a portare in un regno di sfinimento soave, di debolezze da convalescenti.

Anche la troppo famosa Passeggiata si riduce per lo piú a questo voler toccare i residui piú pallidi della sensualità, smuovere la tristezza smagata, nata nel desiderio di godere la sofferenza. Produrre una tenerezza per tutti gli spiriti raffinati, condurre chi legge a non chiedersi le ragioni della sua commozione, a non discutere sul valore estetico dell’opera, ma ad accettare, a trasferirsi nella musica che lenisca un dolore che non esiste. Perciò la scelta dei soggetti – ospedali, malati, distacchi, giovinezze sfiorite – come pretesti a questo languore della carne.

In proposito la costruzione dell’Incurabile è tipica: quell’immagine non è che un tormento di tristezza creato per soffrire e godere della propria sottile tristezza. Cosí che sempre nell’Incurabile, che è una delle poesie piú rispondenti alle intenzioni di questa poetica, passano senza urtarci certe frasi pesanti opache:

... Continuamente

quante d’innanzi a lei passono vite!

tanto questa retorica sentimentale è asservita ad un fine pratico di commozione. Specialmente qui la quasi completa trascrizione di certe poesie dal francese[7] non turba menomamente questa poetica: sono espedienti per la formazione della musica dello sfinimento, decadono anch’esse a pretesti. Sempre coerentemente al bisogno di consolazione del poeta e al centro fondamentale della musica verbale si articolano i precetti di questa poetica: evitare degli impegni chiari, vivere al margine dell’anima e della sensualità, nei sentimenti incerti, passati, malati:

Voi non mi amate ed io non v’amo. Pure

qualche dolcezza è nella nostra vita

da ieri: una dolcezza indefinita

che vela un poco, sembra, le sventure

nostre, e le fa, sembra, quasi lontane.

(La passeggiata)

trasformare i modi dell’amore in una specie di liturgia profana che era già, un po’ sorridente, nell’Isotteo, insistere su di una nota fino ad estenuarla come nella poesia Sopra un Erotik (di Edvard Grieg).

Frequenza delle rime, dirette a concentrare l’attenzione su di uno stesso suono, su di una stessa mossa psicologica:

Socchiusa è la finestra, sul giardino.

Un’ora passa lenta, sonnolenta.

Ed ella, ch’era attenta, s’addormenta

a quella voce che giú si lamenta,

che si lamenta in fondo a quel giardino.

(Aprile)

Snodamento di versi rallentati da enjambements frequenti e pur ritardati dalla misura regolare:

evocherò, come piú tristamente

non volli mai – con una melodia

infinita, continua, che sia

senza numero quasi –, un grande amore

passato, un grande lontano dolore.

(Nell’estate dei morti)

Parentesi di stupita meraviglia che facciano stagnare il periodo senza spezzarlo:

No, non soffro. Se sono taciturno,

la sera, quando mi ti seggo ai piedi,

(oh il terrore del prossimo notturno

supplizio in quel gran letto bianco!), credi...

(L’inganno)

sempre con l’intenzione di realizzare una musica che simuli la lentezza di uno stanco discorso amoroso.

Quando il poeta riesce a dominare la sua poetica – che ha il potere di trascinarlo, come un vizio –, da questa specie di musica discorsiva può nascere una cosa bella come la Sera, in cui finalmente il senso del crepuscolo, la tristezza dei sensi riescono a concretarsi in poesia. In questo discorso musicale debbono acquistare rilievo per l’intenzione del poeta versi staccati, nati dopo silenzi di meditazione voluttuosa e mistica, tali da concentrare in attesa essenziale la musica precedente.

Si sfugge al solito ogni accentramento lirico, ogni nucleo, per diffondersi perifericamente, spesso con voluta monotonia nostalgica, come in certi brani di Debussy (La fille aux cheveux de lin). E quindi un errare del discorso musicale con scarsa necessità di principio e fine, una volontà di musica, di nenia, quasi di consolazione. Il vocabolario naturalmente è tutt’uno con questa esigenza di consolazione, ed anzi, per la poetica dannunziana, è alla base di ogni possibilità di musica, anche dove questa sembra piú rarefatta, piú pura: predominano aggettivi che corrispondono a luci bianche, smorte – «essenzial», «spirtale» – e parole elette, ben diverse dal vocabolario dei crepuscolari.

Abbiamo insistito sul Poema paradisiaco, sia per dare un esempio concreto di come si ricava una poetica da una concreta poesia, sia perché il Poema paradisiaco rappresenta un estremo nella poetica dannunziana e nello stesso tempo sembra costituire un D’Annunzio a sé, direttamente influenzato dal decadentismo straniero e a sua volta progenitore del crepuscolarismo. Insomma, storicamente, il Poema paradisiaco occupa un posto importantissimo nello svolgimento del decadentismo italiano. Per D’Annunzio poi questa esperienza è importantissima: la raffinatezza del languore resta essenziale anche nella grande, euforica poesia dell’Alcyone.

***

Dopo il Poema paradisiaco, la storia della poetica dannunziana sembra segnare una forte spinta interiore, un cambiamento essenziale. Ma da troppo tempo la critica s’è accorta dell’abbaglio del barone di Vogüé, e basta ripetere per questo momento il giudizio generale del Croce: «Egli non ha avuto quel che si dice evoluzione o progresso, ma un mutare apparente e un persistere reale». Certo, però, è in questo momento che D’Annunzio ha fatto lo sforzo maggiore per costruire volitivamente la propria poetica, e superare quella poetica innata, potenziandola a significazioni piú che artistiche. La sua umanità lo spinge ad immettere nell’arte il senso della propria vita e a vivere esteticamente la propria poetica nella pratica.

La produzione ispirata dalla poetica del superuomo e l’attività guerriera di D’Annunzio non sono in realtà che due momenti consanguinei di una stessa ispirazione. La sua poetica è sempre piú la sua morale, le regole con cui costruisce i personaggi dei suoi drammi e dei suoi romanzi sono le stesse con cui compie il gesto del passaggio dalla destra all’estrema sinistra, con cui propaganda la guerra e compie l’eccezionale impresa di Fiume. Questa intrusione della volontà nella poetica dannunziana svaluta tutta la produzione romanzesca e teatrale del periodo, stravolgendo l’originaria ricerca della musica in retorica imperialistica, suscitatrice di moti volitivi. Pezzi di bravura non mancano, ma, se hanno qualche valore in sé e per sé, indicano sempre piú la natura retorica di questa poetica. Si sente sempre piú come il decadentismo dannunziano sia fastosamente retorico e intimamente povero, quando si confronti con i decadentismi dei maggiori stranieri. In questi il problema era integrale: fare dell’espressione un sacrificio di vita. In D’Annunzio invece permane qualcosa del retore montiano e quel suo impulso che dicemmo religioso, in sostanza non riesce a concretarsi né in un’esperienza assoluta come quella di Rimbaud, né in una rarefazione di poesia come in Mallarmé. Naturalmente i confronti sono impari a farci cogliere la qualità esatta del decadentismo dannunziano, ma accennano a quel provincialismo di cui abbiamo parlato. In D’Annunzio non c’è generalmente sintesi, sintesi di tutte le sue forze spirituali in qualcosa che superi un’avventura ed un gesto. La tensione magnifica che noi vi cogliamo, è però un accenno, uno slancio che non si definisce. Il carattere piú evidente della poetica del superuomo è perciò la retorica, un tentativo di dare valori piú che estetici, di dare vita in atto.

Noi vediamo quindi il lavoro precedente alle Laudi come vita, esperienza, mobilitazione di forze, che attendono un atto di sintesi. Nel periodo romano i caratteri poetici, formali, erano la preoccupazione piú evidente; nella poetica del superuomo c’è piú chiara l’aspirazione, il valore funzionale delle esperienze rispetto a quello che sarà il capolavoro del poeta.

L’intenzione e la poetica, come programma complicato da elementi extraestetici, traboccano dopo il Poema paradisiaco, e sono troppo evidenti per insistervi a lungo. Ma questo decadentismo alla Barrès (il Barrès di Du Sang, de la Volupté, de la Mort) è un superamento della calma conclusione del primo periodo: D’Annunzio è una «natura» e la sua poesia, stricto sensu, non è passibile di vero svolgimento, come quella, per esempio, del Leopardi o di Hölderlin, ma per raggiungersi interamente, per diventare assoluta, il fermento del superuomo è stato necessario. Il D’Annunzio dell’Isotteo e del Poema paradisiaco diventava senile: l’empito extraestetico del superuomo ha reso possibile la nuova sintesi dell’Alcyone. I caratteri strettamente poetici permangono nei due periodi, ma l’estetismo dannunziano viene sforzato, teso, esagitato: dopo i deliri del Trionfo della morte o della Gloria, il superamento della Sera fiesolana è una verginità conquistata, una maturità di fronte all’acerba naturalità di Canto novo.

La poetica del superuomo non vuol perdere il suo credo estetizzante, ma completarlo con un intento pratico. Nella prefazione al Trionfo della morte il D’Annunzio dichiara «V’è sopra tutto – sebbene io sembro forse ambire che lo sforzo da me tentato, per rendere la vita interna nella sua copia e nella sua diversità, abbia un valore trascendente quello della pura rappresentazione estetica – v’è, sopra tutto, il proposito di fare opera di bellezza e di poesia, prosa plastica e sinfonica, ricca d’imagini e di musiche».

Ma è certo che nell’attività narrativa e tragica del periodo del superomismo la poetica consiste soprattutto nel ridurre l’interesse del romanzo o del dramma in un gesto grandioso, senza maturazione rispondente (uno sfogo di quella religiosità potenziale che sfiora sempre il ridicolo e l’inconsulto, come i gesti vissuti del D’Annunzio che stanno a un pelo dal sublime e dall’istrionico)[8] se non nella folla dei particolari preziosi, delle sensazioni adunate appunto in vista di un vaticinio e di un annunzio evangelico.

L’impeto religioso lo ha trascinato al vacuo dogma del superomismo e si è fatto guida della sua poetica senza potere esser soccorso da un’intellettualità come la possiedono molti decadenti fino all’esuberante Swinburne[9].

Si spiegano cosí, riconoscendoli all’accento volitivo del superuomo, i caratteri di questa poetica: predominio di accenni a significazioni inesistenti o miserevoli, creazione dei personaggi solo per pretesto di una frase grandiosa e di uno sfogo oratorio, intenzione di creare un tono sublime mediante la sovrabbondanza della frase. In proposito si deve notare come stilisticamente D’Annunzio sia lontano da quel Nietzsche che si scelse a padre spirituale e come invece si avvicini a Wagner, l’odi et amo di Nietzsche. Nella musica di Wagner, come poteva esser compresa da D’Annunzio, c’è una potente sensualità, una maturità disfatta ed un impeto volitivo[10] che dovevano essere ottimo insegnamento per la ricerca di una poesia che non fosse tanto musica in se stessa, quanto preparazione, incitamento alla musica. Malgrado la cura meticolosa delle parole, nella poetica del superuomo pare che l’immagine di per sé non possa soddisfare il poeta e che occorra un piú, un impeto volitivo che si risolve in sovrabbondanza, in secentismo.

Le parole non bastano mai e se ne vuole riempire la deficienza ancora con altre parole:

«Quando il Bonifacio nella parabola del ricco epulone, intona su una nota di fuoco la piú potente armonia di colore in cui siasi mai rivelata l’essenza di un’anima voluttuosa e superba, noi non interroghiamo il sire biondo, che ascolta i suoni assiso tra le due cortigiane magnifiche, i cui volti splendono come lampade di limpido elettro; ma, trapassando il simbolo materiale, ci abbandoniamo con ansia alla vita evocatrice dei profondi accordi in cui il nostro spirito sembra oggi trovare il presentimento di non so quale sera grave di belle fatalità e d’oro autunnale su un porto quieto come un bacino d’olio odorifero, ove una galera palpitante di fiamme entrerà con uno strano silenzio come una farfalla crepuscolare nel calice venato di un gran fiore» (Il fuoco). In tale poetica è inevitabile che la prosa venga concepita come una deficienza di poesia.

Si può sentire una seria esigenza di prosa nella frase citata, quando la si confronti con una frase di Verga o di Stendhal? Doveva naturalmente sboccare nella Laus Vitae e nell’Elettra che sono ancora nell’ambito del superuomo.

Anche la Laus Vitae ha, per me, valore di preparazione rappresentando la trasposizione su un piano veramente poetico, concreto, dei tentativi disordinati del periodo superomista. La ricerca di una musica verbale vi raggiunge il suo parossismo.

C’è nella Laus Vitae il massimo sforzo per raggiungere la musica e la persuasione mediante l’impeto della volontà dell’io direttamente sfrenato: non c’è piú il ridicolo del superuomo come personaggio fittizio; c’è il tragico di un’autobiografia folle di volizioni extraestetiche. È il culmine d’una poetica che vuole l’effetto, un effetto piú che artistico, un accento di rivoluzione, la risposta ad una attesa di religiosità insoddisfatta. Le lunghe file dei vocaboli, lo spreco di parole tra loro simili, che provocano la nausea e danno un senso di provvisorio che contrasta ambiguamente con la preziosa scelta del singolo vocabolo, derivano appunto da questa poetica autobiograficamente oratoria:

O Vita, o Vita

dono terribile del dio,

come una spada fedele,

come una ruggente face,

come la gorgóna,

come la centáurea veste;

o Vita, o Vita,

dono d’oblío,

offerta agreste...

V’è l’intenzione d’uccidere il contenuto, il grezzo, il limite con la smisuranza delle mosse e con il sovraccarico delle parole. Spesso una mossa di volontà scatena il diluvio delle parole:

Ah perché non è infinito

come il desiderio, il potere

umano? Ogni gesto

armonioso e rude,

mi fu d’esempio;

ogni arte mi piacque,

mi sedusse ogni dottrina,

m’attrasse ogni lavoro.

Invidiai l’uomo

che erige un tempio

e l’uomo che aggioga un toro,

e colui che trae dall’antica

forza dell’acque

le forze novelle...

Anche la cultura (vedi la interminabile preghiera ad Ermete) viene adoperata con questo scopo.

È perciò una poetica la piú anticlassica possibile e pure non ancora liberamente moderna; perché in sostanza è sempre il contenuto che crea la musica, non la musica che pervade di sé tutto il poema. Tutta la Laus Vitae ha un carattere febbrile, di materia incandescente che non può trovare altra forma che questa sua musica esagitata e rumorosa. Anche dei momenti piú placidi e sognati,

Furonvi donne serene

con chiari occhi, infinite

nel lor silenzio...

vengono subito presi nelle spire di questa macchina folle. Veramente la sua musa è Energeia, quell’euforia che turbina a vuoto. La coscienza decadente di D’Annunzio, che va crescendo come scaltrezza, trova naturalmente a questo semplice motivo di aspirazione indiscriminata una giustificazione grandiosa: «è composta (la Laus Vitae) con un’arte demoniaca, come quella che foggia gli specchi magici; e opera per continue metamorfosi sulle immagini del mondo visibile, trasmutandole in segni luminosi del mistero interiore. È il ditirambo delle origini e delle profondità».

Ma insomma quella del superuomo, e della Laus Vitae in specialissimo modo, è una poetica volontarista, che vede la poesia come atto di affermazione e sfrenamento della quadriga imperiale:

Volontà, Voluttà

Orgoglio, Istinto.

La vera libertà invece fu conquistata nell’Alcyone: dopo il caos sorgeva l’ordine; non l’ordine classico, ma un mondo nuovo trova in se stesso la propria legge. Anche metricamente l’intenzione della Laus Vitae era proprio quella raggiunta: strofe che vogliono supplire con degli ambigui innovamenti metrici (innovamenti che derivano in gran parte da Verhaeren) alla legge classica. Nell’Alcyone invece non si sente il bisogno di confronti con la metrica passata: la poesia vi ha trovato il suo metro ideale, la sua andatura necessaria, inevitabile.

***

Dopo lo sfogo della Laus Vitae (e in tono minore dell’Elettra), la poetica dannunziana trova il suo centro naturale nell’Alcyone, in cui l’artefice sa quale è il canto della sua anima, e libera il suo accento di religiosità indiscriminata da ogni altro pretesto che non sia la creazione del proprio paesaggio. Si noterà subito che l’Alcyone è purissimo, contrariamente alle altre opere dannunziane, da elementi extraestetici, volitivi, e che non v’è un argomento se non la sensazione, la musica. Perciò nessun libro di D’Annunzio realizza cosí compiutamente la poetica decadente, come per nessun libro quanto per questo D’Annunzio può stare vicino ai nostri grandi poeti.

Le due accezioni di decadentismo qui si distinguono: l’Alcyone è il libro meno decadente del D’Annunzio, se intendiamo con decadentismo malattia e perversione; è il piú decadente, se si significa con decadentismo la nuova poetica come ricerca della musica. Si ripercorra tutto il nostro esame e si vedrà che mai la poetica dannunziana ha riconosciuto come qui la natura su cui sorge, mai ha saputo chiedere una musica cosí nuova e reale. Una poetica decadente che si è maturata attraverso il peggiore estetismo: come certi gesti dannunziani nascono al sommo di avventure folli, dilettantesche.

D’Annunzio ha voluto dare alla sua poetica poteri pratici: di seduzione, di oratoria imperialistica, di affermazione individuale; ed ha trovato invece la sua vera poetica, il fiore di tutte le altre esperienze, quando, servendosi sempre di quei procedimenti, di quei tecnicismi epurati, è ritornato natura, ha agito come la natura.

Dove è il discrimine fra la poetica dell’Alcyone e quella delle opere precedenti? Nella mancanza appunto di scopi pratici, di intrusioni volitive, psicologiche. Gli elementi essenziali della poetica non cambiano, ma il poeta s’abolisce come retore. Non c’è perciò una poetica nuova nell’Alcyone: c’è la sintesi superiore che elimina l’accento pratico dell’estetismo.

L’Alcyone nasce cosí, senza miracoli, sul diffuso terreno estetizzante: non sfugge, ma invera finalmente in arte le intenzioni di tutto un programma. In generale si esagera nell’isolare l’Alcyone, nel farne un miracolo staccato dal resto dell’attività dannunziana. Se invece esaminiamo l’Alcyone dal punto di vista della poetica (e qui si vede l’utilità di questo genere di studi), non si può non avvertire la sostanziale similarità di modi di costruzione: se si eliminano le intenzioni extraestetiche del superuomo o i particolari che derivano dall’atteggiamento della bontà, si vede che l’interesse piú profondo in senso poetico di D’Annunzio non è variato. Anzi la poetica dell’Alcyone è, liberata, purificata, quella stessa che sta in fondo alla piú retorica e sviata opera dannunziana, come la ricerca di una musica verbale e sensuale, non musica del mistero o dell’ineffabile, ma musica che emana dalle parole amate, gustate, e che a sua volta trascina e provoca fiotti di nuove parole.

Cosí ritroviamo nell’Alcyone le lunghe file di frasi ripetute, di vocaboli sempre piú simili, accatastantisi, come nella Laus Vitae:

come i tuoi labbri e le tue dolci canne,

come su letto d’erbe amato e amante,

come i tuoi diti snelli e i sette fóri,

come il mare e le foci,

come nell’ala chiare e negre penne,

come il fior del leandro e le tue tempie,

come il pampino e l’uva,

come la fonte e l’urna,

come la gronda e il nido della rondine,

come l’argilla e il pollice,

come ne’ fiori tuoi la cera e il miele,

come il fuoco e la stipula stridente,

come il sentiere e l’orma,

come la luce ovunque tocca l’ombra,

(Il fanciullo, II)

e ritroviamo alcuni procedimenti propri del Poema paradisiaco:

Bocca di donna non fu mai di tanta

soavità nell’amorosa via

(se non la tua, se non la tua, presente),

(Bocca d’Arno)

ma tutto è rinnovato da un’unica e genuina aspirazione al canto, non alla persuasione.

La diretta richiesta di musica che esprima semplicemente il paesaggio interiore del poeta in un paesaggio che è naturalità extrastorica, musica non ombrata da psicologia, acquista un tono assoluto a procedimenti musicali, che nelle opere del superuomo ottenevano risultati oratori e falsi. Si veda, per esempio, Le stirpi canore, in cui finalmente il susseguirsi lunghissimo di paragoni e immagini vive musicalmente, riesce ad una poesia coerente, reale, e, a suo modo, classica (qualora si dia a classico il valore di assoluto, finito, perfetto). La musica verbale assume nell’Alcyone una specie di calma, un valore, non di esaurimento di un piú extraestetico cui l’uomo D’Annunzio aneli, ma valore di costruzione serena.

Quelle intenzioni di levità e di squisitezza che ossessionavano il D’Annunzio del Poema paradisiaco, trovano qui quella grazia in cui non sentiamo che consolazione:

Chiaro, leggero è l’arbore nell’aria.

E perché l’imo cor la sua bellezza

ci tocchi, tu non sai, noi non sappiamo,

non sa l’ulivo.

[…]

Tenue serto a noi, di poca fronda,

è bastevole: tal che d’alcun peso

non gravi i bei pensieri mattutini

e d’alcuna ombra.

(L’ulivo)

Il desiderio di sorridente intimità, cosí inficiato dall’intento mondano dell’Isotteo, qui raggiunge una tenerezza che supera, presupponendola, ogni squisitezza, ogni ricercatezza («pratora», «tenzone»...):

Le lodolette cantan su le pratora

di San Rossore

e le cicale cantano sui platani d’Arno a tenzone.

[…]

Tutto il mattino per la dolce landa

quinci è un cantare e quindi altro cantare.

(La tenzone)

E il paesaggio, animato sensualmente dalle stornellatrici, di Canto novo, qui assume una forza di mito, di creazione dal nulla, in grazia della musica, che alleggerisce il seguito dei particolari:

Tra i leandri la vidi che si volse.

Come in bronzea mèsse nel falasco

entrò, che richiudeasi strepitoso.

Piú lungi, verso il lido, tra la paglia

marina il piede le si torse in fallo.

Distesa cadde tra le sabbie e l’acque.

Il ponente schiumò ne’ suoi capegli.

Immensa apparve, immensa nudità.

(Stabat nuda aestas)

La sera fiesolana e La pioggia nel pineto sono le prove estreme di questa poetica matura ed epurata da tutto ciò che la turbava, e che la turberà nel periodo posteriore.

Nella Sera fiesolana, la costruzione sembra poco audace, poco nuova, ma ci si avvicini al tessuto della poesia, a quei passaggi, che si presentano a finestre luminose, con valori di musica autonoma:

ne la man di chi le coglie

silenzioso e ancor s’attarda a l’opra lenta

su l’alta scala che s’annera

contro il fusto che s’inargenta

alle soavi pause vocative, che la poetica dannunziana sempre cercò inutilmente come esplosioni eroiche od orgiastiche:

Laudata sii pel tuo viso di perla

o sera, e pe’ tuoi grandi umidi occhi ove si tace

l’acqua del cielo!

e si sentirà chiaramente il tono di discorso superiore che costituisce la musica piú duratura e pacata.

Io ti dirò verso quali reami

d’amor ci chiami il fiume, le cui fonti

eterne all’ombra de gli antichi rami

parlano nel mistero sacro dei monti;

e ti dirò per qual segreto

le colline su i limpidi orizzonti

s’incurvino come labbra che un divieto

chiuda e perché la volontà di dire

le faccia belle

oltre ogni uman desire

e nel silenzio lor sempre novelle

consolatrici, sí che pare

che ogni sera l’anima le possa amare

d’amor piú forte.

Nella Pioggia nel pineto la poetica, nei suoi particolari costruttivi, nella sua maturità, nella sua libertà di fronte ai tentativi precedenti, è piú patente che in ogni altra poesia dell’Alcyone. La natura decadente della poetica dannunziana vi si mostra d’altronde nel miglior modo, inequivocabilmente. È decadente anzitutto per l’assoluta mancanza del contenuto, dell’argomento, sí che a noi non ne resta che un senso preciso di atmosfera musicale, non turbata dalla presenza di un racconto o di un’intrusione psicologica. Vi manca la costruzione in senso classico: non esistono centro e particolari, nucleo e periferia, ma l’anima del poema è per tutto, nella trama continua delle sensazioni che si fanno musica, delle parole che diventano note musicali.

Il canto comincia e dilegua senza lo stacco delle costruzioni classiche: note in principio:

Taci. Su le soglie

del bosco non odo

parole che dici

umane; ma odo

parole piú nuove

che parlano gocciole e foglie

lontane.

note in fine:

E piove sui nostri vólti

silvani,

piove su le nostre mani

ignude,

su i nostri vestimenti

leggeri,

sui freschi pensieri

che l’anima schiude

novella,

su la favola bella

che ieri

m’illuse, che oggi t’illude,

o Ermione.

Ma, poiché è grande poesia, la trama musicale è costretta da una necessità non minore di quella che vive nella conclusa armonia classica.

Poetica nuova: eppure, nei confronti dei poeti nuovi e del decadentismo piú sottile, manca in questa poetica un valore di suggestione. Ché non c’è suggestione di mondi metafisici, conoscenza di un al di là, ma musica di parole-sensazioni. E vi manca quel certo spirito critico, che è essenziale nella poetica di un Valéry o di un Rilke.

***

Nel D’Annunzio del Novecento, durante e dopo l’esilio in Francia, prevale un superuomo che ricorda e del suo ricordo fa arte: cioè la negazione e la fine del superuomo. In quelle prose, che tanto il Serra lodò per la freschezza, per la «beatitudine lirica diffusa», che circola in pagine scritte senza l’impegno di rinnovare il mondo, ma per scopi immediati e per il desiderio personale di riviversi, la poetica pare cercare una musica meno trionfale, una costruzione piú intima ed attenta alle sfumature psicologiche. In realtà si tratta di un raffinamento marginale della solita poetica, o, meglio, una spiegazione di quella nel suo carattere decadente, con una esemplificazione, del tipo del Martyre o della Vita di Cola di Rienzo.

Nella Leda senza cigno abbondano dichiarazioni di questo genere: «La nostra vita è un’opera magica, che sfugge al riflesso della ragione e tanto è piú ricca quanto piú se ne allontana, attuata per occulto e spesso contro l’ordine delle leggi apparenti», ed è proprio nella musica di questa opera che l’artefice riconosce, con una maturità ormai senile, i caratteri della propria poetica. Con la guerra gli atteggiamenti che si accentuano sono quello dell’eroe-oratore e poi quello del mistico, che cerca, con la solita mancanza di vera intelligenza, giustificazioni alla propria posizione decadente: atteggiamenti che non ci interessano dunque se non come ultima prova dell’originario decadentismo dannunziano.

Nel Notturno ciò si vede ancor meglio: fondere totalmente l’artista e l’uomo in un racconto, che, nella sua ambiguità di presente e di passato, sia quasi vita, vangelo, ricordo.

Nessun momento come quello in cui fu scritto il Notturno sembra poter giovare meglio alla comprensione del decadentismo dannunziano: «Per piú settimane, mentre stavo supino in veglia, mentre soffrivo senza tregua l’insonnia, io ebbi dentro l’occhio leso una fucina di sogni che la volontà non poteva né condurre né rompere. Il nervo ottico attingeva a tutti gli strati della mia cultura e della mia vita anteriore proiettando nella mia visione figure innumerevoli con una rapidità di trapassi ignota al mio piú ardimentoso lirismo» (Annotazione, II).

Quell’essere cieco e non cieco era lo stato di grazia piú desiderabile per un decadente del tipo di D’Annunzio. Era uno stato di ipersensibilità che poteva far cosí equivocare il poeta: «Ora io ho – mi sembra – un orecchio piú sensibile di quello che musicò La pioggia nel pineto». Sensazioni, ma che non sono piú sensazioni normali, sensazioni che, pur essendo evidentissime, carnali, sembrano nascere da un mistero, da un buio.

Il Notturno può far pensare ad una secca concisione (quella che fu detta il futurismo dannunziano), ad un mutamento di poetica, ma quell’apparenza non basta a spezzare il bisogno e l’intenzione piú intimi di musica abbondante. Se si tralascia la notazione piú bruta («Il bacino di S. Marco, azzurro. Il cielo da per tutto. Stupore, disperazione. Il velo immobile delle lacrime. Silenzio. Il battito del motore. Ecco i Giardini. Si volta nel canale»), subito la brevità delle frasi è superata da una musica che noi riconosciamo per la piú genuina musica dannunziana:

Ascolto.

Lo sciaquío alla riva lasciato dal battello che passa.

I colpi sordi dell’onda contro la pietra grommosa.

Le grida rauche dei gabbiani, i loro scrosci chiocci, le

loro rissa stridenti, le loro pause galleggianti.

Il battito di un motore marino.

Il chioccolío sciocco del merlo.

Il ronzío lúgubre d’una mosca che si leva e si posa.

Il ticchettío del pendolo che lega tutti gli intervalli.

La gocciola che cade nella vasca del bagno.

Il gemito del remo nello scalmo.

Le voci umane nel traghetto.

Il rastrello su la ghiaia del giardino.

Il pianto d’un bimbo non racconsolato.

Una voce di donna che parla e non s’intende.

Un’altra voce di donna che dice: «A che ora? a che ora».

(Seconda offerta)

Ancora una volta cosí, una poetica che mira alla pienezza obliosa delle parole, gustate in una musica matura, non scandita, non misurata sul metro di una continuità di pensiero o di fantasia, quanto sulla vita di sensazioni, che si trasformano in parole, conservando il profumo e il peso della loro origine.

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D’Annunzio compendia e supera nella sua opera poetica tutto un periodo e un movimento che in Italia si era formato dopo i primi contatti con gli stranieri (specialmente con i preraffaelliti, con Walter Pater, con Ruskin, cioè con le tendenze piú estetiche che poetiche) e che va sotto il nome esauriente di «estetismo». Dopo le disordinate e per lo piú inconscie esperienze a cavallo fra romanticismo e decadentismo, si forma un nuovo clima italiano, che coincide cronologicamente con il periodo romano di D’Annunzio.

Già la «Cronaca bizantina», cui per altro collaborano artisti di vecchia scuola e perfino il Carducci, rappresenta un ambiente vuoto delle ideologie ottocentesche e del forte spirito romantico italiano, privo di vere energie ben distinte in un senso o in un altro, e perciò propenso ad una letteratura spassionata e sensuale, fra cronaca, polemica e corruzione. Era piú o meno l’ambiente del Piacere, un ambiente bizantino, se pure sempre provinciale e poco intelligente. È proprio, anzi, l’accento di snobismo provinciale, che distingue l’estetismo e ne fa un fenomeno tipico del decadentismo italiano. Ci si sente di fronte ad uno spirito nuovo, ma nello stesso tempo limitato, europeo solo per sentito dire, spregiudicato in maniera tutta esteriore e borghese. E noi lo sentiamo perciò come un periodo tanto lontano, dominato da un malgusto insopportabile: infatti per l’atteggiamento decadente di veder tutto sotto la categoria dell’arte, del bello (si veda l’Armata d’Italia di D’Annunzio per avvertire l’origine di tanto nazionalismo guerrafondaio nell’equivoco estetizzante della bella violenza), la modernità fu fatta consistere nella squisitezza di tutto ciò che, per esser bello, rifuggiva dall’utile. Per timore di borghesia, di utilitarismo, nacque lo stile decorativo e tutto l’arcaicismo peggiore. Sdegno della vita contemporanea, rifugio in preziosità di arte per l’arte e di vita per l’arte, che si vogliono identificare con il Cinquecento, con i secoli di maggiore civiltà artistica. E cosí in letteratura amore per l’arcaico, per l’insolito, per il cesellato, per l’esotico.

Questo atteggiamento ha il suo equivalente in una sorta di misticismo sensuale, che riducendo tutto al valore di rapimento per una sensazione squisita, poteva diventare, e diventava in effetto, estetismo. È quello che si potrebbe chiamare l’estetismo cattolico, di cui massimo rappresentante fu il Fogazzaro. La religione è sentita come possibilità di produrre sensazioni, commozioni intense e squisite, simili in tutto e per tutto a quelle che può suscitare nell’estetizzante un quadro, una sonata, o, senz’altro, una preghiera d’organo.

Questa impostazione spirituale è tale che non si può parlare per essa di sentimento, ma di sentimentalismo, non di religione, ma di misticismo sensuale ed isterico. In ambedue le correnti estetizzanti si ha il diritto di ricorrere ad un giudizio di patologia finché non si entri nella valutazione delle poetiche.

Il Fogazzaro ed i fogazzariani (adunati soprattutto nel «Rinnovamento») fissano il loro credo estetico nella espressione di sensazioni elette, provate nei momenti di grazia mistica, cui conduce un affinamento di nervi e di sensi.

Il mondo ed i personaggi fogazzariani (tutti sanno quanto del migliore Fogazzaro sfugge a questa condanna) dipingono perfettamente questa poetica: situazioni ambigue, che possono scivolare in una preghiera o in un bacio e che in tutti e due i casi risuonano dello stesso accento di sensualità fine e illusa di essere spiritualità; personaggi che non hanno altra coerenza oltre quella delle sensazioni; atmosfera sospirosa e sentimentale che mostra tanti contatti con il piccolo mondo borghese dell’ultimo romanticismo aleardiano e pratiano (specialmente le liriche fogazzariane).

Lungo sarebbe descrivere (il che del resto è stato fatto altre volte ad altro scopo) la qualità sensuale della costruzione fogazzariana, il decadentismo dei suoi romanzi, la sua ricerca di una commozione soprattutto sensuale, da lui scambiata in buona fede per religiosità, ma giova piuttosto osservare quanto di dannunziano ci sia in tale poetica. Certo, se si volesse trovare ad Andrea Sperelli un fratello ravveduto, provinciale, cattolicheggiante, bisognerebbe cercarlo in Piero Maironi: il centro vitale di ambedue e la sostanziale divinità è la sensazione.

Bisognerebbe inoltre rivedere certi pezzi fogazzariani minori, certi bozzetti di società (Il poeta e la dama ad es.) che ricordano, mutatis mutandis, le cronache mondane, tra scherzose e languide, del D’Annunzio romano.

La poetica del decadentismo cattolico si riduce del resto quasi esclusivamente a quella fogazzariana, non riuscendo noi a dare un valore estetico sufficiente al Gallarati-Scotti in quanto artista, o alla poesia di Giulio Salvadori: non c’è in Italia una poesia decadente cattolica da potersi paragonare a quella dell’ultimo Verlaine.

Ma la corrente piú fruttuosa e diffusa resta quella dei veri e propri estetizzanti, che una rivista famosa, il «Convito», ed un uomo che in quanto poeta superò la sua posizione di gusto per una certa sua saggia pacatezza, De Bosis, raccolsero verso la fine del secolo (1895). Sono i veri contemporanei del D’Annunzio romano e in certo senso anche i suoi piú immediati imitatori[11]. Come D’Annunzio (il deputato della Bellezza), gli estetizzanti del «Convito» si sentono difensori e profeti di una Bellezza che i «barbari» misconoscono, e come lui proclamano «la virtú occulta della Stirpe», si rifanno al Rinascimento, e finiscono da questo culto della Bellezza in atteggiamenti pratici, come Corradini.

Il piú rappresentativo, e d’altronde il piú utile per illuminare la poetica dannunziana, è Angelo Conti, il doctor angelicus, critico d’arte, propugnatore d’un estetismo misticheggiante e schopenhaueriano. La linea della sua opera è schiettamente decadente, con un certo ritegno umanitario che nell’ultimo volume Dopo il canto delle sirene[12] lo porta ad una strana ritrattazione: «mi tornano alla memoria tre sentenze che parvero dogmi a quasi tutti gli scrittori di quindici o venti anni fa: nella poesia il verso è tutto, l’arte non è mai morale né immorale, l’arte non può esser compresa se non da pochi eletti». Era il prepotere delle teorie sociali che lo faceva parlare cosí (1911), ma in tutto il resto della sua opera non v’è una parola che non aderisca interamente al piú genuino credo decadente.

Già del suo Giorgione (1894)[13] egli non fa tanto critica d’arte, quanto presentazione di emozioni che nella sua sensibilità letteraria eccita l’opera del maestro veneto. Critica di emozioni, preparata con pigli di pretta marca decadente: «Voglio ricordare quello che provai entrando per la prima volta nel piccolo museo Ludovisi...», e con lo stesso accento con cui un lussurioso preparerebbe un ricordo di voluttà. Respinge con cura ogni posizione storica, da buon decadente che teme ogni turbamento esterno, mentre poi s’impingua di psicologismo e di sensualità: «È dunque tempo di mettere da parte la stupida teoria delle influenze e l’altra assurdità che, per apprezzare un’opera d’arte, è necessario ricondursi col pensiero ai tempi in cui quell’opera è stata fatta». Era in realtà una preparazione negativa dell’estetica crociana, ma Croce aveva mille ragioni di respingere quella comunanza di scopi che il Conti riteneva per certa nella dedica al Croce del Sul fiume del tempo.

Il Conti si riduce a riprodurre, come fa spesso D’Annunzio, in forma letteraria la sagoma psicologica, l’impressione puramente emotiva dell’opera d’arte. «Nel Concerto la rappresentazione è piú pura. Un frate siede dinanzi a una spinetta. Egli è abbandonato all’armonia e tutta la sua vita di rapimento e d’abbandono è concentrata negli occhi e nelle mani. Questi occhi hanno la indefinibile espressione degli sguardi assorti che quasi non vedono piú le forme esteriori; e quelle mani sottili, nervose, spiritualizzate dalla virtú che le muove, non hanno piú le funzioni cui le ha destinate l’esistenza: sono mani risvegliatrici, mani evocatrici, come nei gesti che indicano o annunziano i prodigi».

La critica decadente del Conti trova il suo massimo valore se viene considerata come riflesso della poetica dannunziana, pseudoteorizzazione di modi viventi ed efficaci solo in una concreta poesia. Il Conti si contrapponeva al D’Annunzio nietzschiano per un suo schopenhauerismo estetico, ma in realtà il tono nirvanico, mistico, di liberazione musicale («L’arte come trattato dell’oblio»), è quello stesso che predomina nel Trionfo della morte o nelle Vergini delle rocce. In ambedue i pretesti sono pseudofilosofici, la ricerca fondamentale è la musica, e il Conti basando tutto su di essa (il capitolo centrale del suo Giorgione si intitola La musica della pittura) mostra di rispecchiare centralmente il nucleo piú duraturo della poetica dannunziana.

La frase di Walter Pater «All art constantly aspires towards the condition of music» è capitale per rannodare queste divagazioni estetizzanti all’intenzione dannunziana. Quale è infatti il fondamento della estetica contiana? «La musica, legame misterioso delle varie forme artistiche, esprime la tendenza della natura a passare da uno stato distinto conoscibile ad uno stato informe ed arcano, dalle condizioni della lotta alla quiete della inesistenza». «Anche nella poesia lirica si vede, piú che in ogni altra forma artistica, che scopo supremo dell’arte è di esprimere la sua intima aspirazione ad avvicinarsi alla musica e a liberarsi dal simbolo. Nella lirica infatti il simbolo si trasforma e raggiunge un tal grado d’idealità che, nei momenti supremi dell’ispirazione, vediamo la parola perdere il senso letterario ed assumere un senso musicale». E non è questa l’aspirazione continua di D’Annunzio? Agire come la natura, acquietarsi in uno stato di grazia, di totalità, che emana dalla parola e si concreta in musica. Le parole del Conti sembrano prevedere, come dettami costruttivi, la tramatura essenziale della Pioggia nel pineto, quel liberarsi sensuale in una condizione di concretezza originale, ultrarazionale, che per approssimazione chiamiamo musica.

C’è anche nei libri del Conti un’accezione dell’arte che ci suggerisce una spiegazione delle deviazioni e complicazioni dannunziane, rannodata a quell’impeto volitivo che abbiamo riconosciuto all’origine di ogni intrusione extrartistica: «L’arte è la natura stessa, la quale per mezzo dell’uomo di genio, supera le miserie dell’individuo e manifesta la propria aspirazione ad una vita piú pura».

D’Annunzio, sentendo l’arte come natura, come forza che agisce con concretezza originale, voleva in essa una specie di vita che soddisfacesse quel suo religioso bisogno di piú: d’altronde il suo connubio estetizzante arte-vita non gli permetteva di vedere come esauriente la naturale catarsi dell’arte, ed egli avrebbe voluto perciò aggiungervi una catarsi allotria, la catarsi di un’intenzione, di uno sforzo umano. Non sentiva cosí interamente il valore sacro dell’espressione, cercava di aiutarlo con un volere personale di altra natura, e con ciò stesso turbava quella serenità che solo nella fiducia dell’Alcyone raggiunse.

Il Conti batte anche sul valore della parola singola, da cui nasce la musica e che s’accorda con la cura estetizzante erudita, arcaicista, libresca: «Si vedon già alcuni poeti consapevoli del valore inestimabile della parola, meditarla nei libri con religiosa intensità, cercando di estrarne, con l’esercizio dello stile, nuove immagini e nuove armonie». Amore della parola e della musica, che è anche però amore della sensazione in concreto, della vita, cosa che il Conti, troppo letterato, non capisce e per cui diverge da D’Annunzio: «Oggetto dell’arte non è l’idea, ma è qualcosa di piú profondo che non sia la stessa idea platonica». «Qual cosa mai?». «La vita, amico mio. La vita intensa e ardente, ricca di piacere e di oblio...».

In questo riflesso, invero un po’ opaco (il Conti non riesce, ad es., a capire il nietzschianesimo di D’Annunzio, sembrandogli che quell’energia contrasti con l’oblio decadente della musica), ma autorizzato («in lui spesso io ritrovo una specie di coscienza rivelatrice e nel commento di lui talvolta una illuminazione impreveduta della mia propria opera» dice del Conti il D’Annunzio nella prefazione a La beata riva) della poetica dannunziana, abbiamo trovato il deciso legame del credo del poeta con un clima che spiega ed è spiegato intimamente da quella poetica.

Un’ultima frase del Conti rannoda il D’Annunzio al Pascoli e ci mostra nel poeta puer un sentimento essenziale del nostro estetismo: «L’artista è come un fanciullo a cui tutte le cose producono un senso di maraviglia».


1 Renato Serra, Le lettere, Bontempelli, Roma, 1914, p. 36 [ora in Scritti, Le Monnier, Firenze, 1958, I].

2 [Tutte le citazioni dannunziane sono state uniformate al testo dell’edizione dei Versi d’amore e di gloria a c. di E. Bianchetti, Milano, Mondadori, 1954²].

3 Il suo parnassianismo è semmai in un certo lato intenzionale del suo lavoro d’orafo («Le lamine del verso auree batto io faticosamente col martello»), in una esattezza che è ricerca di effetti sensuali e lussuriosi.

4 A sua volta va notata, per una storia della vita romana fine di secolo, l’opera di trasfusione decadente che vi esercitò il D’Annunzio.

5 Fondamentale per lo studio del D’Annunzio romano è appunto la raccolta di Pagine disperse, cronache mondane ordinate e annotate a cura di Alighiero Castelli, Lux, Roma 1913, di cui mi sono abbondantemente servito.

6 Si può notare che D’Annunzio conobbe e cercò dei decadenti francesi piú i veri e propri décadents che non i simbolisti. Differenza che era, come dicemmo, soprattutto psicologica e d’intellettualità.

7 V. una volta per tutte E. Thovez, L’arco di Ulisse, Ricciardi, Napoli, 1921.

8 V. la pagina del Fuoco, in cui Stelio Effrena, dopo aver gridato al battelliere: «L’uva e i fichi, Zani!», si installa grandiosamente a poppa di un trabaccolo, mentre il poeta conclude: «E il mondo era suo».

9 V. certi cori dell’Athalanta in Calydon la cui potente sensualità è contenuta da una pari capacità critica.

10 Dice Onofri per la musica di Wagner: «Sembra indicarci un camminare, un procedere, verso qualche cosa che verrà e che supremamente importa per la sorte nostra di creature terrene».

11 V., oltre tutti i numeri della rivista, il programma del «Convito».

12 Treves, Milano, 1911.

13 V. soprattutto: Giorgione, Alinari, Firenze, 1894; La beata riva. Trattato dell’oblio, con un ragionamento di G. Annunzio, Treves, Milano, 1900; Sul fiume del tempo, Ricciardi, Napoli, 1907 e, in special modo, la prefazione del D’Annunzio a La beata riva che dà la misura del suo accordo col Conti.