Le «Lettere» e le «Satire» dell’Ariosto nello sviluppo e nella crisi del Rinascimento (1978)

È il testo di un intervento tenuto da Binni a Lucca il 30 settembre 1974 in una seduta del Convegno internazionale organizzato dall’Accademia Nazionale dei Lincei in occasione delle celebrazioni del quinto centenario della nascita dell’Ariosto, poi pubblicato negli Atti del convegno (Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 1975) con il titolo Le «Lettere» e le «Satire» dell’Ariosto. Il testo fu quindi pubblicato in «La Rassegna della letteratura italiana», a. 79°, Firenze, gennaio-agosto 1975, pp. 53-84, e successivamente raccolto, in versione ampliata e con il titolo Le «Lettere» e le «Satire» dell’Ariosto nello sviluppo e nella crisi del Rinascimento, in W. Binni, Due studi critici: Ariosto e Foscolo, Roma, Bulzoni, 1978, e in W. Binni, Metodo e poesia di Ludovico Ariosto, e altri scritti ariosteschi cit.

LE «LETTERE» E LE «SATIRE» DELL’ARIOSTO NELLO SVILUPPO E NELLA CRISI DEL RINASCIMENTO

Perché ho unito in questo saggio Lettere e Satire, che rappresentano due direzioni in realtà assai diverse dell’attività ariostesca (le Lettere in direzione di scrittura piú immediata e legata a occasioni pratiche e con destinazione di comunicazione effettiva, le Satire opera a direzione artistico-poetica organicamente calcolata e ispirata)?

Perché in questo convegno ariostesco mi premeva riaffrontare anzitutto, attraverso l’illustrazione e valutazione di queste due direzioni scrittorie, il problema centrale della personalità ariostesca in una prospettiva rinnovata e piú storicamente corretta da cui la stessa valutazione e definizione del suo supremo capolavoro, il Furioso, può prendere nuova luce e presentare nuove dimensioni al di là dell’ambito idealistico e della stessa celebre formula crociana del poema dell’amore per l’armonia cosmica. E in tal senso, e nella scansione e articolazione della personalità ariostesca nelle sue componenti fondamentali e nel suo svolgimento dinamico, Lettere e Satire costituiscono (seppure, ripeto, su due livelli assai diversi) due direzioni essenziali e non prive di un relativo raccordo per quanto esse ci dicono della personalità umano-storica dell’Ariosto e di alcuni momenti decisivi del suo complesso e tormentato sviluppo, mentre un nesso fra Lettere e Satire è pur costituito da quel tanto di volontà comunicativa e colloquiale effettiva che non manca neppure nelle Satire, indirizzate a personaggi reali e variamente significativi nella cerchia di affetti e rapporti familiari, amichevoli e culturali che l’Ariosto ebbe: lontano com’egli era da un individualismo chiuso e privo del bisogno di legami non fittizi con altre concrete persone, diverso com’egli era dal sognatore solitario e insieme dall’uomo umanamente medio e persino mediocre e comune, riscattato solo dalla forza potente della sua fantasia quasi inconsapevole e tutta slegata dalle forze e direzioni complesse di una ben diversa personalità e dalla storia concreta del suo tempo, vissuta, sperimentata, in maniera anch’essa ben diversa da quel rapporto ideale e generico con un Rinascimento altrettanto vago e generico, a cui l’immagine crociana e idealistica si è sostanzialmente limitata.

Perciò ad introdurre questo discorso sulle Lettere e sulle Satire è necessario brevemente presentare la prospettiva critica (in cui Lettere e Satire si inseriscono e cui Lettere e Satire portano elementi essenziali) che si è venuta sviluppando, e che è tuttora in via di sviluppo e di consolidamento, puntando su vari momenti e opere o direttamente sull’intera figura ariostesca (su questa linea critica non posso, per falsa modestia, non collocare me stesso e i miei interventi ariosteschi[1]) al di là della zona (seppure con inevitabili rapporti con spunti ben reperibili anche in quella[2]) dominata dal grande e pur tanto discutibile saggio crociano, la cui stessa fortunatissima formula centrale appare ormai troppo generalizzante e generica, al punto che anche chi l’ha ripresa recentemente ha sentito il bisogno di correggerla, persino con una specie di ossimoro, parlando della tempestosa armonia di Ludovico Ariosto, ed altri ha spostato il peso su le dissonanze dell’armonia, comunque recuperando il termine crociano in una forma meno assoluta e totale o rimandandolo al termine di un difficile e tormentato percorso umano e poetico assente dal saggio crociano, responsabile comunque di una perdita della storia concreta personale e storica dell’Ariosto, di un isolamento eccessivo del Furioso rispetto alle sottovalutate opere «minori» (tali pur, alla fine, come risultati nell’economia della poesia ariostesca, ma a quale diversa altezza!), e di un appiattimento della personalità ariostesca (che poi alcuni degustatori edonistici ed evasivi del periodo del totale disimpegno hanno risolto in quella personalità bonaria e addirittura bonacciona, pigra ed inerte, solo contemplativa e sorridente: il «Ludovico della tranquillità», di baldiniana memoria) in forme di comune umanità, magari ancor capace di nuova attrazione per chi consideri il vero poeta simile all’albatros baudelairiano, goffo, impacciato, indifeso sulla tolda della nave su cui è caduto, e liberissimo e possente nel volo (il volo della fantasia del Furioso rispetto al terra-terra della vita pratica e storica e, alla fine, delle cosiddette opere minori).

Viceversa (senza con ciò rovesciare le cose in un’immagine sempre tesa e addirittura eroica, attivistica, e tutta drammatica, che sarebbe grave errore avallare, e senza, indiscriminatamente, valutare allo stesso livello tutto ciò che l’Ariosto scrisse) sarà ormai da affermare con sufficiente sicurezza che la vera personalità ariostesca è una grande personalità complessa (e persino complicata e non priva di contraddizioni, ma estremamente fertili per la sua poesia) e ricca di forze e di energie, di disposizione all’agire là dove ciò è necessario (non dunque un attivista, ma certo un amante dell’energia), e soprattutto alla comprensione dell’agire, cosí come dotata (proprio uno dei punti piú negati dal Croce e dai critici di stretta osservanza idealistica) di un’altissima, acutissima, vigorosa intelligenza, che permette all’Ariosto cosí di avere una sua visione complessa del mondo, sfaccettata dall’ironia (frutto della stessa intelligenza), ma al fondo salda nel possesso di valori essenziali e nella conoscenza e diagnosi di disvalori storicamente ed esistenzialmente concreti, basata su di una potente esperienza della realtà e della storia, capace di vigore polemico e contestativo entro gli aspetti piú esteriori del conformismo e dello scetticismo. Sicché il suo realismo fantastico è poeticamente portatore di valori e poeticamente acutissima esperienza, intelligenza del ritmo vitale, del ritmo di tutta la vita, di tutta la forza dell’uomo in un mondo terreno, laico, antitrascendente e antimetafisico, in cui virtú, intelligenza e fortuna si scontrano o si alleano, ed esperienza illuminata dall’intelligenza e fantasia possono fondersi in una sorta di sopramondo rinascimentale tanto piú libero, possente, elastico, perché scaturito dall’attrito di contrasti non facili, alimentato dalle forze intere della personalità ariostesca e dalla sua partecipazione-esperienza al tempo storico concreto. La passione, la disposizione, la volontà fondamentale è la poesia, ma questa non avrebbe la sua forza e i suoi modi se non fosse alimentata dall’esperienza, dalla realtà, dall’intelligenza, da un’esperienza e visione del mondo che la poetica ariostesca (è uno dei punti che io affermai nel mio libro del ’47 contro la presunta totale ingenuità della poesia del Furioso affermata appunto dal Croce, puristicamente teso a salvare quella «poesia» – da lui comunque cosí amata ed esaltata – da ogni intrusione intellettuale) commuta e indirizza in coerenti modi di realizzazione poetica.

È per questo che la poesia del Furioso cosí libera e fantastica non nasce sul vuoto di un sogno senza pensiero, energia, esperienza, ed è viceversa cosí densa, concreta (poema sí della potente fantasia, ma insieme di una acutissima intelligenza, di un forte sentimento, di una profonda eticità che quella fantasia rafforzano e alimentano), e perciò nel suo ritmo narrativo-poetico (che tanto si avvale della esperienza e della conoscenza dell’agire umano), pur rifuggendo dallo psicologismo e dalla costruzione di personaggi a tutto tondo, sa ben creare sicure impostazioni eccezionalmente varie di personaggi (con l’implicito valore di una molteplicità di punti di vista umani e dell’inesauribile varietà delle passioni, virtú, follie e malvagità umane), magari facendo vibrare, anche in personaggi fuggevoli e poco fatti entrare in azione, note di profondità psicopoetica degne di un grande conoscitore dell’animo umano sin nelle sue zone piú riposte ed inconscie, sino alle zone oniriche, senza con ciò mai uscire dalla poesia e dalla sua particolare forza ben diversa da una semplice mimesi naturalistica. Basti l’esempio altissimo non solo del celebre episodio della morte di Zerbino (per cui il De Sanctis aveva romanticamente e pur significativamente esclamato – quando non era ancor preso dalla formula dell’arte per l’arte e della completa oggettività della poesia ariostesca – : «Quanto cuore aveva l’Ariosto!»), ma di queste tre ottave che – dopo la battaglia di Lipadusa (prova essa stessa, se occorre, della forza epica che non mancava certo al non sempre sorridente Ariosto) e la morte di Brandimarte – illuminano, fra presentimento di sogno e realtà, il turbamento e il dramma di Fiordiligi:

La notte che precesse a questo giorno,

Fiordiligi sognò che quella vesta

che, per mandarne Brandimarte adorno,

avea trapunta e di sua man contesta,

vedea per mezzo sparsa e d’ogn’intorno

di goccie rosse, a guisa di tempesta:

parea che di sua man cosí l’avesse

riccamata ella, e poi se ne dogliesse.

E parea dir: – Pur hammi il signor mio

commesso ch’io la faccia tutta nera:

or perché dunque riccamata holl’io

contra sua voglia in sí strana maniera?

Di questo sogno fe’ giudicio rio;

poi la novella giunse quella sera:

ma tanto Astolfo ascosa le la tenne,

ch’a lei con Sansonetto se ne venne.

Tosto ch’entraro, e ch’ella loro il viso

vide di gaudio in tal vittoria privo;

senz’altro annunzio sa, senz’altro avviso,

che Brandimarte suo non è piú vivo.

Di ciò le resta il cor cosí conquiso,

e cosí gli occhi hanno la luce a schivo,

e cosí ogn’altro senso se le serra,

che come morta andar si lascia in terra[3].

(XLIII, 155-157)

D’altra parte – mentre lo stesso svolgimento della vita ariostesca e della sua poesia (coinvolgendo la lunga storia dello stesso capolavoro fra la prima e la terza redazione) è tutt’altro che placido e facilmente continuo, ma scosso da crisi e traumi e persino da incertezze profonde personali e storiche, da scelte e riequilibri virili – un altro punto da chiarire funzionalmente al discorso su Lettere e Satire è questo. Il Croce (preso qui obbiettivamente come momento essenziale di discussione nello svolgimento novecentesco della storia del problema critico ariostesco) aveva isolato il capolavoro rispetto alle opere minori e, come lo aveva depauperato delle forze piú complesse della personalità ariostesca, cosí lo aveva privato dei nessi che corrono (soprattutto nella storia evolutiva della personalità poetica ariostesca) fra il Furioso e la fitta rete e raggiera delle altre direzioni artistico-poetiche, la cui considerazione e valutazione rinforzano in noi la conoscenza e certezza di complessità e presenza di questa grande personalità culturale-poetica sia nel suo inserimento originale nelle principali tradizioni letterarie del suo tempo (dall’angolatura ferrarese a quella italiana e, in parte, europea), sia in una componente importante della sua storicità di scrittore (con ciò che essa implica nelle ragioni di fondo di queste tradizioni e di queste direzioni artistiche ariostesche), sia nel suo bisogno di complessa sperimentazione ed espressione di forze poetiche e di tecniche artistiche. Cosí le opere minori si rivelano ben rappresentative di tensioni ed esperienze (basti pensare poi, per il teatro, all’esperienza persino di regista fatta dall’Ariosto) della complessa personalità ariostesca, e, per quanto riguarda il Furioso, lo caricano (per non dir poi delle esperienze ariostesche in campo figurativo-musicale che acuiscono l’occhio e l’orecchio poetico[4] cosí essenziali nel creatore del poema) di esperienze precedenti e laterali che non ne livellano a queste la grandezza, ma anzi ne potenziano il carattere di piú complessa tensione a contatto con altre tensioni che si intervallano nella sua storia elaborativa e che in esso in parte si ripercuotono e assicurano ancor piú – nella sua base di esperienza vitale, ideologica, culturale, artistica – il legame con tutta la personalità complessa del suo creatore e i nessi di questa con un Rinascimento non generico e sol florido ed armonico, ma irto, pur nel suo splendore, di tensioni, di contraddizioni, teso internamente, già nella sua cresta piú alta, fra valori e disvalori, fra maturità di grande civiltà e crisi storica che lo corrode e che l’Ariosto avverte e comprende, ed a cui, come può, con tutta la sua poesia (e soprattutto col capolavoro) risponde, esaltando i valori e denunciando i disvalori.

È in questa nuova prospettiva piú complessa e storica (qui cosí sommariamente abbozzata) che prendono nuova luce (e portano a loro volta nuova luce a questa prospettiva in avanzata formazione) proprio, fra le altre attività scrittorie e opere «minori», le Lettere e le Satire: le Lettere piú direttamente al rilievo delle componenti complesse della personalità ariostesca (fra biografia e base di poesia, specie in relazione alla importante esperienza concreta del governatorato della Garfagnana), ma, insieme, anche su piano scrittorio, ai caratteri stessi piú radicali e immediati del grande scrittore; le Satire, piú compiutamente al rilievo della complessità di direzioni, di toni, di esperienze del grande intellettuale artista e in relazione ad una particolare poetica internamente motivata da un periodo di crisi cosí importante per riconoscere la natura non facile della superiore saggezza ariostesca, il tipo di svolgimento non placidamente continuo della sua esperienza esistenziale-storica e della sua stessa poesia, specie nella sua zona piú avanzata entro la crisi del tempo storico e nello sviluppo delle sue ultime opere e dello stesso Furioso nella sua ultima redazione del ’32.

Anzitutto le Lettere, che se non sono opera, non sono neppure freddo documento di sola biografia esterna e tanto ci dicono sull’uomo e sullo scrittore. Non a caso la svalutazione delle lettere corrisponde all’epoca dominata dall’immagine tradizionale dell’uomo e del poeta (il Croce le disse: «sono tutte d’affari, secche, sommarie e tirate in fretta, e solo qua e là, scoprono l’intimo dello scrivente»[5], il Fatini nel suo saggio Ariosto prosatore ne parlò come di prosa monotona e pesante, cercandovi invano la «poesia» e sol valutandone qualche elemento di generica umanità), mentre una fertile e positiva valutazione di esse poteva emergere solo dal seno della nuova elaborazione della personalità e della poesia ariostesca, come è avvenuto in quella densa introduzione che Angelo Stella premise nel ’65 alla sua meritoria nuova edizione delle Lettere, appoggiata esplicitamente alle generali posizioni della nuova critica (mie, del Segre e del Caretti) e raccordata ad alcune precisazioni di questa circa le stesse lettere[6].

In effetti, entro la complessa immagine della personalità dell’Ariosto, le lettere contribuiscono anzitutto a rafforzare e documentare la prospettiva di una personalità tutt’altro che inerte, passiva, solamente contemplativa, priva di capacità di azione, smarrita nella rugosa e aborrita realtà pratica, come priva di valori consistenti e persuasi, e insieme slegata dagli aspetti ideologici e sin latamente politici del suo tempo. Anche se (sia ben chiaro) le lettere stesse non mancano di far avvertire come la disposizione all’agire non si scompagni da un piú vagheggiato bisogno di quiete, d’agio propizio all’attività culturale e poetica e all’esercizio di affetti; anche se esse, insieme, non mancano di mettere in luce componenti essenziali di tipo antieroico (nessuno si sogna certo di fare dell’Ariosto un personaggio tutto teso e costantemente volitivo ed attivo, o, peggio, infatuato dell’azione per l’azione), debolezze, preoccupazioni personali prudenti, e un certo margine di conformismo e di acquiescenza (quando non entrino in giuoco i valori della propria piú intima dignità e moralità ed i valori di giustizia e di «util comune»), la cui stessa evidenziazione sincera da parte dell’Ariosto rende del resto il profilo della personalità ariostesca tanto piú umano e autentico, antiretorico, e antiretoricamente complesso e dominato dalla schiettezza della sua matura, difficile e alta saggezza.

Quel che qui si vuol dire è che appunto le lettere ben documentano questa complessità della personalità ariostesca e, in questa, gli elementi non solo della disposizione all’agire, ma della acutissima intelligenza e conoscenza delle leggi della realtà e dei sentimenti e interessi umani, del meccanismo dell’azione persino politica, delle passioni che muovono gli uomini, in accordo e disaccordo, con prospettive delle ideologie del suo tempo (si pensa, a volte, addirittura a Machiavelli[7]). Mentre ciò che le lettere ci vengono dicendo dell’uomo non resterà, ad una valutazione intera e storico-critica, sul piano della pura documentarietà, ma si prospetterà tutto interno alla forza e ai modi dello scrittore, valido anche in questa direzione pratico-comunicativa, presente nell’atto dello scrivere, tanto interessante per noi perché il suo stile, al suo livello piú immediato, meno intenzionalmente letterario, meno soggetto a meditata elaborazione (sicché la forza della scrittura dell’Ariosto qui vien colta proprio alla sua radice, al punto in cui lo scrittore non si impone un alto proposito artistico, e anzi rifiuta la piú generale e non perciò certo totale direzione di genere epistolografico retorico-letterario, dell’epoca umanistico-rinascimentale[8]), il suo stile, dico, non perciò risulta sciatto ed incondito, ma dominato dalla volontà e capacità di lucidità e di espressività-impressività.

Anzi, proprio in quanto le lettere non vogliono essere generalmente un esercizio di bella scrittura, tanto piú esse ci assicurano – al livello pratico su cui si muovono – di come la stessa grande poesia ariostesca sia sorretta da quella trama solida di intellettuale lucidità narrativa ed espositiva, di quell’attrito diretto con l’esperienza in atto, con la realtà pratica, che nelle Lettere appunto possiamo cogliere nella loro prima e piú immediata estrinsecazione, che insieme fa già nelle Lettere vibrare (fra necessità e forza scrittoria tanto funzionalizzata ai suoi scopi epistolari) gli scatti, gli umori e i toni della personalità umana e poetica dell’Ariosto.

In tal senso (inseparabile da quello della rivelazione delle qualità e dei caratteri, già in questa direzione ricordati, della personalità umana e storica ariostesca) non c’è dubbio che soprattutto importante è il folto, continuo gruppo delle lettere dalla Garfagnana, vera e appassionante storia dinamica di un’azione e di una prosa nel loro movimento cosí continuo e nel loro carattere di un’esperienza in svolgimento, cosí significativa nella storia intera dello sviluppo ariostesco e nel profilo della personalità dell’uomo e dello scrittore.

Infatti guardando ai tre gruppi cronologici delle Lettere – quello che raccoglie piú sparse lettere, ventisette, dal 1498 al 1520, quello garfagnino con centocinquantaquattro lettere, dal ’22 al ’25, quello ultimo, con ventisette lettere, dal ’25 al ’32 – si può osservare che il primo, fra prima gioventú e maturità[9], se già rivela nel «familiare» piú subordinato del cardinale Ippolito (di cui è informatore zelante e attentissimo, specie nei periodi di guerra, sia quando egli è a Ferrara e il cardinale è al campo, sia viceversa quando egli stesso si trova nelle zone di guerra) doti di attività e, piú, di osservazione acuta e precisa della realtà anche economica e sociale della città e del contado di Ferrara[10] e di resa scrittoria efficace del movimento di eserciti, di scorrerie, di saccheggi rovinosi per gli abitanti, di angherie ai danni di questi da parte degli stessi alleati francesi, con lievi acute note tra ironia e sdegno[11], offre notevoli aperture sulla condizione del gentiluomo-funzionario minore, su certi suoi gusti piú personali-ambientali[12] e anche sul grande poeta alle prese con vicende e brighe giudiziarie troppo contrarie al suo impegno centrale di scrittore[13], mentre si apre anche a qualche lettera elaborata in forma piú chiaramente artistico-letteraria e ben notevole per la sua mescolanza di ironia e lieve malinconia.

Cosí si osservi, nella lettera a Ludovico Gonzaga (in cui l’Ariosto gli narra, da Firenze, il primo ottobre 1512, la fuga da Roma con Alfonso I per sottrarsi all’ira di Giulio II), la particolare elaborazione letteraria con la creazione di un ritmo sicuro da vero scrittore, nella narrazione della vicenda intonata a forme tragicomiche e ironiche e appoggiata, per questo preciso scopo, sia alle metafore di caccia, sia alla triplice inserzione di versi dell’Eneide (l’ultima volta in forma abbreviata come a ridurre il peso della citazione dotta e ironicamente nobilitante, divenuta ovvia nel colloquio con il colto destinatario – ormai solo un ammiccamento sorridente – anche perché questa citazione deriva, come la prima, dall’inizio patetico-solenne della narrazione che Enea fa a Didone delle sventure e peripezie proprie e dei Troiani – canto II, v. 12 e poi v. 8 – mentre la seconda deriva dalla parlata di Enea ad Acate nel canto I, vv. 459-460). Mentre la frase «da parte mia non è quieta anchora la paura» richiama a celebri versi danteschi («allor fu la paura un poco queta», Inferno, I, v. 19) e viceversa la clausola dello stesso periodo è impennata in tono di ingigantito spavento e di effettivo sorriso dall’esclamazione popolaresca e parlata («da’ quali Domine ne scampi»). Ne riporto le parti essenziali:

V.S. ex.ma ha certamente de la fada e del negromante, o di che altro piú mirando, nel venirmi a ritrovar qui con la sua lettera del XX augusti, hor hora che sono uscito de le latebre e de’ lustri de le fiere e passato alla conversation de gli homini. De’ nostri periculi non posso anchora parlare: animus meminisse horret, luctuque refugit, e d’altro lato V.S. ne havrà odito già: quis iam locus, quae regio in terris nostri non plena laboris? Da parte mia non è quieta anchora la paura, trovandomi anchora in caccia, ormato da levrieri, da’ quali Domine ne scampi. Ho passata la notte in una casetta da soccorso, vicin di Firenze, col nobile mascherato, l’orecchio all’erta et il cuore in soprassalto. Quis talia fando etc. Il cielo continua tuttavia molto obscuro, onde non metteremoci in via cosí súbeto per non haver anchora ad andar in maschera fuori de stagione e col bordone[14].

E nella lettera a Benedetto Fantini, del 7 aprile 1513, da Roma, si rilevi soprattutto, nel brano che ne riporto subito dopo, la forza sapientemente ironica della rappresentazione dell’incontro con papa Leone, con il commento argutamente amaro e deluso (e che sarà diversamente intonato – nel ricordo e nella spostata direzione artistica – nel celebre passo della Satira III e nel suo ritmo ironico-mimico) del comportamento del papa e di quello simile dei suoi cortigiani:

È vero che ho baciato il piè al papa, e m’ha mostrato de odir volontera: veduto non credo che m’habbia, ché, dopo che è papa, non porta piú l’occhiale. Offerta alcuna, né da Sua S.tà né da li amici mei divenuti grandi novamente, me è stata fatta, li quali mi pare che tutti imitino il papa in veder poco[15].

Esempi, dunque, ben chiari, di come, anche nel contatto piú diretto con i fatti, il grande scrittore sappia anche nelle Lettere, quando lo vuole, perseguire piú precisi e coscienti intenti artistici e raggiungere risultati di notevole livello letterario e di incantevole grazia amaro-sorridente.

Il terzo gruppo poi, intonato (dopo il ritorno definitivo a Ferrara) al nuovo agio di vita e alla nuova condizione di cortigiano riservato a rare missioni onorifiche e all’attività teatrale della corte estense, si situa su di un ritmo piú disteso e calmo, ma anche meno alacre e mosso. Tali sono tutte le lettere scritte come compiacente e compiaciuto «cancelliero» di Alessandra Benucci, diplomatico saggio e ordinato nel difficile disbrigo di una complicata manovra di nozze di una parente della donna amata o raffinatamente attento nella descrizione di vesti e ornamenti femminili[16]; tali anche sono le lettere inerenti alle sue opere e ai suoi rapporti, in proposito, con illustri personaggi del potere e della cultura, fra deferenza, schietta modestia e ferma convinzione delle proprie scelte artistiche[17]. Né mancano, anche in queste ultime lettere, spunti notevoli per il moralista («sempre mai in tutte le cose lo avvenire è pericoloso»[18], «queste cose – la morte – son tanto generali, che non si può dire altro se non confortarla a conformarsi con la volontà di Dio, et havere patientia»[19]), per il profondo conoscitore degli uomini (come quando, nel dar notizie a Giovan Francesco Strozzi sulla condizione economica di un suo parente, esprime l’opinione che quest’ultimo «piú tosto [...] daria via la moglie che la possessione»[20]), per le risorse ariostesche di ironia e sdegno, come quando indica quale «fera salvatica» una persona che si opponeva alle nozze di cui si occupava Alessandra[21].

Ma certo, ripeto, nelle lettere garfagnine proprio la loro maggiore funzionalità pratica, comunicativa, narrativa, impressiva, il loro agile muoversi su di un registro di base cancelleresco e diplomatico, tanto personalmente risolto e spesso travolto, la loro maggiore aderenza tempestiva a fatti, vicende, decisioni, richieste, la loro stessa rapidità incalzata dal tempo e dall’urgenza della corrispondenza, cosí come la loro continuità e il loro carattere di svolgimento scrittorio di azioni, offrono il valore piú esemplare per la caratterizzazione generale delle lettere in genere e del loro significato personale e scrittorio.

D’altra parte per le lettere dalla Garfagnana dovrà anche osservarsi come l’Ariosto giungesse ad esse dopo una somma di esperienze concrete mature, come dopo un’enorme attività di scrittore che gli metteva in mano una penna espertissima e risorse scrittorie già provate ai livelli piú alti (fino a quella del Furioso 1516). Esse dunque corrispondono ad una maturità piena di tutte le risorse dello scrittore e di tutte le forze e disposizioni, già in parte sperimentate dall’uomo, in parte latenti ed ora piú decisamente evidenziate in forza dell’impegno nuovo di un’attività non piú solo di osservatore, informatore, «familiare», ma di gentiluomo alto funzionario, di governatore, carico di una responsabilità ben maggiore e bisognoso appunto di un impiego tanto maggiore delle sue qualità pratiche ed attive quanto piú il governatorato della Garfagnana rappresentava un compito arduo, tanto era difficile la complessa situazione di quella appendice un po’ trascurata dello stato estense, recentemente ricongiunta ai possessi ducali, confinante in maniera frastagliata e spesso poco definita con altri stati (Lucca e Firenze), dilaniata da due fazioni (italiana e francese), in realtà soprattutto attive in funzione di interessi locali delle maggiori famiglie e «cosche mafiose», a lor volta legate a bande di briganti, con una popolazione contadina e pastorale angariata dalle vessazioni mafiose e banditesche, oppressa dalla miseria e dal fiscalismo ducale, confusa da leggi non chiare.

Un compito cosí arduo spiega l’iniziale smarrimento, lo choc che l’Ariosto ne ricavò, spesso cedendo allo scoraggiamento e al prevalere di considerazioni della propria inettitudine, per la propria eccessiva bontà: «io non son homo da governare altri homini, ché ho troppo pietà, e non ho fronte di negare cosa che mi sia domandata», com’egli dice in una sua lettera al segretario del duca[22].

Ma in realtà la capacità di intelligenza concreta, di azione, di decisione (cosí come di un’abile azione diplomatica nei confronti di Lucca – in modi piú cordiali e fiduciosi – e di Firenze – in modi piú guardinghi e rigidi) e l’impegno volenteroso nell’azione, appaiono chiaramente in queste lettere che tutte sostanzialmente documentano le qualità dell’Ariosto governatore, di cui non si dovrà solo rilevare (come pur va fatto) la concreta umanità pietosa, la rettitudine, il senso fermo della giustizia[23], la dichiarata preferenza dell’utile pubblico al proprio interesse e guadagno[24], ma appunto il fondo energico, virile, la capacità dell’intelligenza dell’azione e delle sue leggi anche utilitaristiche (con qualcosa di machiavelliana unione e alternanza di «forza e astuzia»[25]), la profonda conoscenza degli uomini e della natura umana entro situazioni storiche concrete. Donde la fertilità intellettuale-pratica di progettare e in parte attuare disegni atti a cambiare la situazione disastrosa della terra datagli da governare, perseguiti con lucida persuasione: dal disegno diplomatico (in parte portato a compimento già nel ’23[26]), di stabilire precise convenzioni con gli stati confinanti per impedire lo sconfinamento reciproco di briganti e malfattori e di bande armate, a quello, non accettato dal duca, di creare una vera e propria milizia locale atta a sopperire alla debolezza e pochezza dei balestrieri ducali (non si può non pensare all’«ordinanza» di Machiavelli seppur su un piano piú modesto[27]), a quello di ridurre la possibilità di movimento e di azione dei briganti e delle bande faziose sin duramente bruciando case, abbattendo canoniche e campanili e devastando terreni troppo ospitali – per connivenza od omertà paurosa – a briganti e assassini.

Ma qui non debbo illustrare l’attività dell’Ariosto e i suoi esiti in sede storica[28], quanto piuttosto ancor piú da vicino rilevare come le lettere garfagnine siano insieme scrittoriamente attive, e scrittoriamente rivelatrici di aspetti di solito meno considerati della personalità ariostesca, vivi proprio nella loro traduzione sulla pagina e nell’energia e lucidità di intelligenza della scrittura.

Da qui il valore che proprio lo scrittore di queste lettere assume entro la gamma e la raggiera di direzioni scrittorie del grande Ariosto, la forza e la presenza ineliminabile delle Lettere e della loro prosa nell’opera ariostesca. Perché in questa prosa, tutt’altro che monotona e grigia, opaca, impersonale, convergono a loro modo pure tutte le forze vive della vera personalità ariostesca ed essa ci assicura (al suo livello di prosa stringente e radicalmente legata all’azione e quindi coerentemente antiornamentale, antidescrittiva, antipittoresca, e pur fertile di varietà di movimento, di costruzioni sintattiche, di impulsi e scatti vibranti, di designazioni immaginose, di forme di un lessico realistico e spregiudicato[29]), ci assicura, dico, dell’autenticità radicale del grande scrittore che si muove con tanta sicurezza, incisività, e stringata libertà già su questa direzione piú pratica e immediata, tutt’una con l’agire, il narrare, l’osservare, il riflettere, il giudicare, il sentire, l’immaginare, l’ironizzare. Tutto il gruppo delle lettere garfagnine va poi valutato, ripeto, soprattutto nella sua continuità di diario attivo, di espressione in svolgimento di questa vicenda eccezionale nella vita dell’Ariosto, e, piú che in citazioni antologiche, vale in tutto il suo svolgimento, in tutto il movimento di questa prosa che, con lucidità, densità, ordine incalzante, ma mai confuso, espone, narra, illumina e giudica situazioni complesse, ricavandone brevi giudizi da grande moralista, espone, comunica progetti e decisioni con singolare fermezza, si fa ironica o indignata contro poteri che sfuggono al controllo governatoriale (come i preti protetti dalle giurisdizioni vescovili), si alza e si accende nell’affermazione di valori persuasi, o si fa accorata, virilmente pietosa e quasi tenera, quando l’Ariosto raccomanda all’attenzione del duca (o delle autorità degli stati confinanti) i casi di «poveri homini» vessati, angariati, o presi nelle dure, spietate maglie di leggi che essi neppur conoscono.

Si rileggano per il narrare e l’informare concisamente, almeno, fra i tanti citabili, questi brevi passi:

A questa hora, che è circa meza hora di nocte, essendo li miei servitori iti per dare mangiare a quello prigione da Colognora ch’io havevo qui ad instantia di V.M.ci S.ri, hanno trovato che con la propria cintola, havendosi legato l’un capo al collo e l’altro ad uno piede, si è strangolato. Mi è parso di darvene súbito aviso, acciò che V.M. mandi uno al quale io lo consegni morto, poi che non lo posso consegnare vivo [...][30].

[…] si sono iti a porre in camino in circa XIJ o XV, e vanno rubando intorno il bestiame, e fanno quivi la beccaria e vendono le carne a gran denari, poi si lievano e vanno alle ville vicine e mettono taglie a chi lor pare; e fra l’altre a un capellano d’un prete hanno tirato tanto li coglioni che gli hanno fatto pagare otto ducati; poi hanno trovato il padrone, ma quello si è posto su le gambe, e fuggito fin a Castiglione: e se gli homini di Castiglione non saltavano fuor in suo soccorso, lo amazavano [...][31].

Io [...] vi mandai li balestrieri, e giungendo improviso si trovò che uno di questi tristi, detto il Frate, giocava a carte con uno da Camporeggiano col circulo di tutta la terra intorno, e come li balestrieri si scopersono lo ascosero, e lo fêro fuggire in un campo di canape [...]. Et appresso, colui che ivi fa l’ufficio del cavalliero stette quel dí medesimo a battere s’un’ara con questo ribaldo, il quale da XX giorni in qua ha assassinato circa sei persone in piú volte, poverhomini che veniano di Maremma, e tolto loro fin a XV ducati [...][32].

Si rilegga infine anche questo piccolo brano, battuto da una livida luce, sul feroce ferimento di un garfagnino ad opera di un bandito, Ginese, esecutore materiale di delitti commissionatigli da politici faziosi:

Ma la vicaria di Camporeggiano sta molto peggio, ché di poi ch’io son tornato da Ferrara è stato morto uno a San Romano; un altro in un altro loco pur di quella Vicaria è stato preso da quel Ginese, che ancho amazzò il conte di San Donino, e legato ad un arbore nudo; e poi che l’ha havuto legato gli ha dato sedici ferite, e tutta la notte quel poverhomo è stato legato ne la selva, né fino al giorno a grande hora ritrovato: e pur anchora è vivo[33].

Si faccia poi attenzione ai modi energici e duri (agire-scrivere) con cui l’Ariosto espone al duca le sue proposte di azione contro banditi e faziosi: «mettere le mani adosso a’ loro padri, fratelli e parenti [...]. A quelli che non hanno padre, saccheggiare le case, e poi arderle e spianare, tagliar le viti e gli arbori e distruggere li lor luoghi [...]»[34] e «poi saria bene batter per terra tutti li campanilli o vero aprirli, di sorte che non potessino dar ricorso alli delinquenti [...]»[35]. «Impiccati che fossino X ribaldi di questo paese, il saria tutto risanato [...]»[36]. «Io ho desiderio di havere questi ribaldi e di farli súbito, senza udire altro, impiccare [...]»[37].

Si estragga, per le sentenze del moralista, scaturite dal denso di un caso (un falsario novizio e forse «seducto» da un compagno), almeno questa profonda massima: «sí come è piú facile che li cattivi corrompeno li buoni, che li buoni reducano li cattivi al ben fare»[38].

O si rilegga questo brano fra sdegno e ironia che si avvale spesso, assai abilmente, di un latino di tipo evangelico ed ecclesiastico, specie nella polemica costante (e significativa per la posizione laica ariostesca) contro i preti mescolati alle lotte faziose e persino banditesche («li peggiori e li piú partiali di questo paese sono li preti»[39]) e sottratti ad ogni pena ben meritata dall’intervento delle giurisdizioni vescovili:

se vogliamo ricorrere alli vescovi havremo poco aiuto: et io ancho n’ho fatto experientia, ché questa passata estade mandai in mano del vescovo di Lucca quel prete Matheo che havea ferito il mio cancelliero et era homicida et assassino publico, e con poca aqua lo mandò assolto; e prima ch’io venissi qui, un prete Antonio da Soraggio, c’havea morto un suo cio, fu in mani del vescovo di Luna, e con un misereatur fu liberato[40].

O, puntando sull’espressione di motivi ben personali di dignità di funzionario e di uomo, si rileggano certi rimproveri e lamenti, variamente intensi, dolenti e risentiti, rivolti al duca che non lo appoggia convenientemente: per le eccessive raccomandazioni ducali di prudenza «son sforzato che s’io fossi un leone io diventassi un coniglio [...]»[41].

Io non gli ho saputo (a un suddito minacciato dai banditi) dare altro che parole, e che io aspetto da vostra ex.tia buona provisione a rasettare il paese: quando io non havrò piú che dire e che havrò totalmente perduto il credito, me ne fuggirò di notte e me ne venirò a Ferrara[42].

Prego (vostra ex.tia) che mandi qui uno in mio luogo che habbia miglior stomacho di me a patire queste ingiurie, ché a me non basta la patientia a tolerarle [...][43].

Ma dove importa tanto smaccamento de l’honor mio, io vo’ gridare e farne instantia, e pregare e suplicare vostra ex.tia che piú presto mi chiami a Ferrara, che lasciarmi qui con vergogna [...][44].

E infine si rilegga – sul filone che percorre gran parte delle lettere garfagnine fino a diventarne un Leitmotiv dolente e martellante nella sua insistente presenza di fondo e nelle accentuazioni sempre piú accorate e partecipate personalmente, cioè il filone della compassione per la povera gente, per «li poveri homini» della Garfagnana cosí miseri, ignari, insicuri in una situazione socioeconomico-politica che l’Ariosto lucidamente mostra di comprendere, pur entro i propri limiti storici di attivo, ma anche critico collaboratore del proprio tempo e delle sue prospettive statali e sociali – qualche brano legato, appunto, a questo Leitmotiv, a mio avviso importante non per il rilievo generico di una generica bontà ariostesca, ma come vivo spiraglio su di una disposizione a una profonda considerazione di oppressi e poveri i quali – ciò che piú vale – diventano in queste lettere persone vere e vive[45], non quantità ed entità trascurabile o, peggio, oggetto di divertimento cittadino-aristocratico come in tanta letteratura villanesca del Cinquecento, ma uomini veri con i loro bisogni e sentimenti autentici ed essenziali entro una situazione concreta, la cui esperienza rinnova e promuove molti dei sentimenti e delle disposizioni latenti e potenziali nella personalità ariostesca.

Lo exhibitore di questa è uno povero homo, il quale fu conducto da uno lombardo ad andare a caricare certe castagne [...]. Io rachomando in somma questo poveretto a V.S., il quale non ha al mondo cosa che sia suo se non grave famiglia, alla quale affaticandosi e stentando fa le spese al meglio che può […][46].

Poi lo raccomanda di nuovo:

la causa per che il Vic.o di Castiglioni non habbi voluto rendere le castagne non so, né di lui mi vo’ dolere non la sapendo; pure la compassione ch’io ho a questo povero homo, ch’ogni dí mi torna a piangere dinanzi, mi sforsa di nuovo rachomandarlo a V.S., le quale prego che, veduto il bisogno del poveretto et il poco guadagno che di questo può resultare a chi li ritiene dicte castagne, faccia che ’l dono che già m’hanno facto habbia executione [...][47].

Disposizione e sua estrinsecazione scrittoria (cioè esperienza assimilata e assicurata nel tono nella scrittura) quest’ultima da noi indicata, che mi pare rilevante anche in rapporto a motivi simili (fra precedenti, coevi e posteriori), seppur meno espliciti, delle Satire e a certo maturarsi amaro di una intuizione di rapporti sociali e politici ingiusti che era venuta fortemente affiorando nei Cinque Canti[48] e in tutta la crisi complessa dell’Ariosto piú maturo e tardo (di cui parleremo piú direttamente per le Satire), entro cui in parte anche le Lettere si possono porre quanto a maturazione ulteriore di esperienza lucida della realtà contemporanea e della realtà umana in generale (l’esperienza nella difficile realtà concreta del «microcosmo» garfagnino), mentre esse sottolineano insieme la forma di risposta che l’Ariosto dà alla stessa crisi con la persuasione di valori e posizioni attivamente fatti valere nell’esperienza garfagnina e fatti vivere nella prosa delle relative lettere. E queste, infine, non mancano, a mio avviso, di costituire, con il loro esercizio scrittorio, un appoggio verso certe forme della stessa poesia delle aggiunte del Furioso del ’32, accrescendo in questa un’ancora aumentata capacità di serrare energicamente e lucidamente, addirittura nel giro di una sola ottava, un’intera e complessa azione esposta o narrata. Si pensi, ad esempio, nel nuovo episodio di Marganorre, a una strofa come la 55a del canto XXXVII che lucidamente ed energicamente narra la preparazione, l’esecuzione, l’esito (e tutto è privo di ogni commento e intervento dell’autore: pura narrazione-azione) del disegno di Tanacro per sbarazzarsi, senza possibilità di errore, del marito della donna amata, Olindro.

Con gran silenzio fece quella notte

seco raccor da vent’uomini armati;

e lontan dal castel, fra certe grotte

che si trovan tra via, messe gli aguati.

Quivi ad Olindro il dí le strade rotte,

e chiusi i passi fur da tutti i lati;

e ben che fe’ lunga difesa e molta,

pur la moglie e la vita gli fu tolta.

O si pensi, nel nuovo episodio di Olimpia, alla strofa 41a del canto IX, in cui l’eroina, divenuta, per amore e per odio, implacabile e machiavellicamente decisa e «virtuosa», si libera dell’odiato Arbante assicurandosi definitivamente della morte di questo col proprio personale intervento, anch’esso cosí lucido ed energico (e riferito, nella narrazione che Olimpia stessa fa ad Orlando di quella vicenda, con spietata durezza e senza il minimo rimorso o femminile turbamento) intervento che sigla fortemente questa poesia dell’azione-narrazione sul margine terminale dell’ottava e nella sua clausola fattasi meno melodica e piuttosto perentoria, assoluta nella luce livida di un gesto alacre e spietatamente cruento, staccata e rilevata dal doppio punto che la precede e la evidenzia.

Io dietro alle cortine avea nascoso

quel mio fedele; il qual nulla si mosse

prima che a me venir vide lo sposo;

e non l’attese che corcato fosse,

ch’alzò un’accetta, e con sí valoroso

braccio dietro nel capo lo percosse,

che gli levò la vita e la parola:

io saltai presta, e gli segai la gola.

E ancora nell’episodio di Ruggiero e Leone, quest’ultimo e un suo fedele si liberano del castellano che tiene imprigionato Ruggiero, in una mezza ottava di singolare stringatezza e impassibile realismo:

Giunti là dentro, gettano amendui

al castellan che volge lor la schena

per aprir lo sportello, al collo un laccio,

e subito gli dan l’ultimo spaccio.

(XLV, 44, vv. 5-8)

E il giorno dopo Ungiardo cosí trova la torre-prigione:

Ruggier fuggito, il suo guardian strozzato

si trova il giorno, e aperta la prigione.

(XLV, 50, vv. 1-2)

Certo non si vuol con ciò dire che ci sia un passaggio immediato da certe forme della prosa narrativa delle Lettere a questo tanto superiore modo poetico, né che nel Furioso del ’16 manchi del tutto questa tecnica del narrare-agire, ma si vuole sottolineare il fatto, a mio avviso, incontrovertibile che (pur nella diversa tachimetria ritmico-narrativa del poema) l’esercizio della esperienza-scrittura delle Lettere rafforza e sostiene (appunto fra esperienza e scrittura) un procedimento narrativo-poetico che nelle aggiunte del ’32 raggiunge la sua massima forza e lucidità, coinvolgendo le ragioni di uno sviluppo della attenzione ariostesca alla realtà effettuale e persino di un certo gusto risolutivo e spietato (a volte portato sino al truce e al sadico là dove la stessa malvagità, meglio riconosciuta, di certi personaggi lo richiede[49]) che nell’esperienza-scrittura delle Lettere, specie in quelle garfagnine, trova un appoggio di maggiore attrito nella realtà. Insomma anche nel complesso, tormentato sviluppo della poesia del poema verso il suo ultimo consolidamento e specie nelle nuove parti aggiunte le Lettere portano un loro contributo, cosí come l’esperienza del governatorato della Garfagnana non rimane chiusa in se stessa e presto dimenticata (come vorrebbe lo Stella[50]) nelle nuove condizioni di vita dell’Ariosto nella propizia stabilizzazione ferrarese e nella sua disposizione «armonico-contemplativa», ma interferisce nella maturazione di esperienza, di Weltanschauung, di ideologia dell’ultimo Ariosto[51], cosí come infine (ed è ciò che invece giustamente lo Stella osserva[52]) la scrittura delle Lettere è immersa nel lento e faticoso passaggio dello stesso linguaggio ariostesco, pur tenendo conto che nelle Lettere si tratta di una prosa su cui meno influiscono le concrete offerte esemplari della lingua trecentesca poetica e che risente ancora di forme piú lombarde e di quelle piú toscaneggianti e toscane parlate[53].

Né infine potrà dimenticarsi il fatto importantissimo che le Lettere (specie quelle garfagnine che abbiamo detto meno toccate da piú precisa volontà di forme letterarie-artistiche intenzionali) costituiscono nella storia dell’esperienza ariostesca il momento eccezionale della prosa piú «prosa» (altra cosa è la prosa comunque elaborata dell’Erbolato[54] o quella teatrale-letteraria delle prime stesure delle due prime commedie) e dunque, anche da tal punto di vista, costituiscono il momento di un contatto piú intenso e diretto con la realtà, ben importante, anch’esso, ad alimentare («prosa nutrice del verso» secondo il noto rilievo del Paciaudi accettato dall’Alfieri?) la nuova poesia dell’ultimo Ariosto, come diretto alimento realistico e, per contrasto, come elevazione dell’elaborazione poetica realistico-fantastica.

Certo ben piú lungo e analitico discorso (se l’economia e il taglio di questa relazione non lo sconsigliassero) richiederebbero le Satire, «opera minore» rispetto al Furioso, ma in realtà a suo modo pur grande, e frutto di una decisa volontà e direzione artistica che va anzitutto chiaramente affermata (anche se ciò è avvenuto da tempo e proprio da parte mia) di fronte a vecchie e, almeno a livello scolastico, ancora non tutte scomparse valutazioni delle Satire come documento biografico e sfogo autobiografico, o magari autoritratto scherzoso dell’«Ariosto in veste da camera» (Croce), ornato (secondo l’infelice e sintomatica espressione di un commentatore) di «fiori letterari» o, al piú, illuminato da tratti di maggiore felicità poetica.

In realtà le Satire hanno una loro poetica, una loro direzione di costruzione artistica coerente in tutti i particolari della loro consistenza estetica, nei mezzi tecnici e nel linguaggio impiegati dallo scrittore, nella stessa scelta del genere epistolare-satirico sul prevalente noto appoggio dei Sermones e delle Epistulae di Orazio[55], originalmente rinnovato e genialmente personalizzato secondo i modi ariosteschi di una generale opera di ripresa e di reale rinnovamento moderno della tradizione classica e volgare.

Questa poetica (cosí come io la affermai e individuai una trentina di anni fa) consiste soprattutto nella ricerca e realizzazione di un tono medio fra realtà e fantasia, fra cronaca e storia poetica, fra impeti energici di sdegno, di rammarico, di polemica satirica (che sfiora e sin tocca il drammatico: zona in cui l’Ariosto sente fortemente la sollecitazione dantesca e a volte giovenalesca[56] e certo dei modi piú aggressivi dello stesso Orazio degli Epodi) e forme fra sorridenti, ironiche, ragionative e narrative di apparenza quasi prosastica. Un tono e registro fondamentale, che, mentre poeticamente traduce il senso piú caldo e autentico delle cose e delle vicende, nel loro denso sapore fisico

(Provedimi di legna secche e buone;

di chi cucini, pur cosí a la grossa,

un poco di vaccina o di montone [...].

In casa mia mi sa meglio una rapa

ch’io cuoca, e cotta s’un stecco me inforco,

e mondo, e spargo poi di acetto e sapa,

che all’altrui mensa tordo, starna o porco

selvaggio [...][57]),

(Satire, II, vv. 25-27; III, vv. 43-47)

permette al poeta di far vibrare un diapason di timbri fra alti e bassi sempre ricondotti dalla sua mano abilissima a una sostanziale base di medietà colloquiale, di discorso poetico di apparenza facile e come improvvisato e spontaneo, ma in realtà frutto di una difficile facilità, di una spontaneità e confidenza conquistate e artisticamente elaboratissime[58].

Ma, si badi bene, quella stessa consapevole direzione artistica non è un’impresa solo tecnica e «letteraria», un calcolo preziosamente sperimentalistico, bensí (proprio secondo la mia nozione di poetica) scaturisce, coerente ed organica, dall’interno bisogno ariostesco di dare una particolare vita poetica a sentimenti e motivi autentici, autenticamente suoi, alla profonda esigenza di commutare in poesia, e coi modi della poesia, gli elementi della sua situazione concreta e, in questa, alcune sue profonde convinzioni e intuizioni, una sua essenziale presa di coscienza di quella sua situazione, della propria vicenda vitale e di una sua posizione rispetto alla condizione contemporanea e alla generale condizione della vita degli uomini e delle leggi della realtà esistenziale. Queste esigenze intime e profonde sono a loro volta in relazione con un periodo di crisi esistenziale e ideologica nello svolgimento dell’Ariosto, dopo il completamento della prima redazione del Furioso, e dunque dopo che il grande poeta si era realizzato in un altissimo capolavoro (al cui perfezionamento linguistico-stilistico e al cui accrescimento lavorerà ancora fin quasi alla morte), e di tale grandezza poetica realizzata il poeta aveva certo alta coscienza. Cosí come ora egli prende piú chiara coscienza della assoluta disparità fra questo valore e la sua condizione di vita.

Tale periodo di crisi è notoriamente aperto anzitutto, in sede personale, dalla rottura con il cardinale Ippolito e dalla decisione (non facile e segno anch’essa delle energie decisionali dell’Ariosto) di non seguirlo in Ungheria e di abbandonare il suo duro servizio. E questa crisi investe per l’Ariosto appunto la realtà del suo status di intellettuale e poeta della corte estense, costretto a mansioni troppo lontane dalla sua vera possibile funzione e dal suo vero valore («che di poeta cavallar mi feo»), e poi la sua intera condizione biografica, la sua stessa lunga vita passata, di cui, in contrasto, riemergeranno nelle Satire il vagheggiamento struggente quasi idillico-elegiaco di periodi di libertà giovanile, a Reggio, tutta dedicata, in un contesto paesistico congeniale, all’attività poetica (e sono alcuni dei versi piú belli e sommessamente commossi delle Satire[59]), e d’altra parte e piú frequentemente e penosamente (seppur nel segno di un continuo riequilibrio che evidenzia e smorza gli elementi di crisi e ne attutisce un intero sbocco satirico-drammatico) il sentimento di una vita sviata da un suo possibile iter piú lineare ed organico, piú coerente alle sue esigenze di studio, di cultura, di relativa libertà propizia all’attività intellettuale e poetica, essa stessa cosí impegnativa e serissima (a suo modo essa stessa un «impegno» altissimo dell’uomo): la gioventú a lungo tormentata dal padre che lo aveva spinto con «spiedi e lancie, non che con sproni» alle «ciance» degli studi legali e non gli aveva permesso di compiere una intera formazione classica, la morte precoce del padre con la conseguente difficoltà della sua condizione di capofamiglia, le liti giudiziarie e le difficoltà relative ai benefici ecclesiastici, cui fu costretto appunto dalla necessità di condizioni economiche personali e, piú, familiari, le morti di maestri cari e parenti, amici fraterni di cui gli mancò (in momenti decisivi) l’appoggio e conforto culturale ed umano e soprattutto proprio quella «mala servitude» di «familiare» di Ippolito che ora gli appare piú chiaramente cosí gravosa, fuorviante, contraria alle sue piú vere disposizioni e alla sua condizione vagheggiata di intellettuale e poeta indipendente o intelligentemente utilizzato e protetto da un mecenatismo illuminato, da cui discorda – nel pieno del discorso interno delle Satire – la stessa mansione di governatore della Garfagnana (in realtà per noi cosí importante e fertile), rivista, nella luce critica delle Satire, come esperienza negativa e contraria alla vita piú amata a Ferrara, e all’esercizio della poesia (anche se in realtà cosí non fu, se in Garfagnana, malgrado tutto, l’Ariosto poté scrivere almeno proprio tre bellissime delle sue sette satire).

E la presa di coscienza, in chiave critica e negativa, della sua vita passata e della sua condizione presente, la crisi biografica e autobiografica che scuote la sua personalità, investono anche la sua visione della storia contemporanea e della intera condizione umana. E nella crisi personale intervengono elementi della crisi storica italiana sempre piú chiara e aggravata al suo occhio acuto e intelligentissimo, mostrandoglisi piú lunga, rovinosa e senza soluzione visibile di quanto non fosse avvenuto già all’interno del Furioso del 1516, quando l’invettiva celebre contro gli stranieri invasori, la lucida collocazione della calata di Carlo VIII come momento decisivo in seguito al quale il «bel vivere tutto si summerse», la profezia di una crisi italiana di «molt’anni», non eliminava la speranza di una risposta degli stati italiani fatti consapevoli della loro politica suicida, magari, quasi machiavellicamente, ad opera di un principe piú coraggioso e avveduto. Cosí nelle Satire forte è la presenza di grossi temi ideologico-storici inerenti alla diagnosi profonda (seppur spesso per accenni sintomatici) che l’Ariosto fa della condizione aggravantesi (sotto lo splendore e il fasto rinascimentale) della corruzione delle corti, della corte e curia romana in particolare[60], e addirittura di tutta un’epoca che, come dice al Bembo nella Satira VI, è la

[...] nostra male aventurosa etade,

che le virtudi che non abbian misti

vitii nefandi si ritrovin rade.

(vv. 22-24)

Ecco: valori e disvalori son mescolati e rari sono i valori schietti ed interi. E le Satire denunciano anzitutto i disvalori e i valori falsi e convenzionali, la loro apparenza e non verità di valori, e ne aggrediscono i centri, i personaggi significativi od emblematici, cosí come la loro diagnosi critica, e non perciò astrattamente schematica, giunge a toccare i meccanismi stessi dell’agire e del comportamento umano che egli vede lucidamente (contro ogni falso e retorico moralismo, ma da grande moralista qual egli fu nel senso positivo di questa parola), naturalmente legati a passioni istintive e invincibili con le «prediche inutili» e con l’ascetismo, da lui sempre abborrito nella propria prospettiva laica, terrena, totalmente umana:

Tu forte e saggio, che a tua posta muovi

questi affetti da te, che in noi, nascendo,

natura affige con sí saldi chiovi!

(Satira IV, vv. 40-42)

Saranno i vizi piú comuni della gola e della lussuria-lascivia, al di là delle loro naturali e schiette radici di istinti e piaceri naturali (istinti schietti e vitali cosí vivi poeticamente nell’antiascetico Ariosto del Furioso fino ad esiti per il secondo, l’istinto erotico, di sublimazione che non perde mai però la sua base fisica, corporea, sensuale[61]), e quelli piú perfidi dell’ipocrisia e del falso onore e prestigio, della servilità e viltà e soprattutto dell’avidità insaziabile di ricchezza o di potere, e di ricchezza-potere, con la loro meccanica cosí malvagia come stolta e folle. Ché i portatori di falsi valori e disvalori, come perdono di vista i veri valori (bontà, dignità, rapporto con gli altri, cultura, poesia, libertà interiore, saggezza, ragione positiva e demistificatrice e rivelatrice della stessa follia degli uomini), cosí perdono di vista i limiti delle concrete possibilità umane, il limite della morte che annulla il piú riuscito successo[62] e soprattutto il limite sconvolgente della Fortuna o quello della follia, la cui comprensione e autocomprensione fa parte essenziale di una saggezza superiore e difficilmente conquistata.

Cosí nelle Satire si riflette poeticamente un periodo di crisi dell’Ariosto e della sua stessa visione storica e vitale in movimento (fra quella espressa nella grande poesia del Furioso 1516 – specie nelle sue sentenze a inizio dei canti – e quella finale, a suo modo piú complessa e venata di pessimismo e amarezza, delle aggiunte del Furioso 1532); e perciò nella genesi storica e nella consistenza delle Satire andrà piú sottolineato (piú di quanto io stesso feci soprattutto nel mio libro del ’47[63]) l’elemento critico, aggressivo-satirico-polemico, punta estrema del tono che si alza sul registro medio dominante, e rivelazione di questo aspetto traumatico e critico della nascita e della prospettiva delle Satire.

Si rileggano cosí qua e là nelle Satire versi o sequenze di versi come questi che qui riporto.

L’Ariosto dirà alla figura negativamente esemplare di Ser Vorano (il ghiottone parvenu tutto preso dal suo vizio, ed emblematico per tutto un tipo di persone vive solo alla vita del semplice senso o del semplice interesse utilitaristico, riviste nel mondo delle corti del tempo):

venuto al mondo sol per far lettame.

(Satira II, v. 33)

O dirà della genia degli accaparratori e sfruttatori di benefici ecclesiastici (la polemica antiecclesiastica e anticurialromana è fra le piú insistenti e precise):

che del sangue di Cristo han tanta sete?

(Satira II, v. 108)

O dirà della carriera ecclesiastica che conduce uomini vili fino al soglio pontificio:

Questa povere, sciocche, inutil genti,

sordide, infami ha già levato tanto,

che fatti gli ha adorar dai re potenti.

(Satira II, vv. 145-147)

O dirà, con piú acceso sdegno, poi riequilibrato nel contesto intero della Satira II, del nepotismo papale e delle sue conseguenze scellerate anche per la sorte dell’Italia, riassunto nel riferimento chiaro ad Alessandro VI e a Cesare Borgia:

E qual strozzato e qual col capo mozzo

ne la Marca lasciando et in Romagna,

trionferà, del cristian sangue sozzo.

Darà l’Italia in preda a Francia o Spagna,

che sozzopra voltandola, una parte

al suo bastardo sangue ne rimagna.

(Satira II, vv. 220-225)

O dirà di un indegno cardinale:

Non avendo piú pel d’una cuccuzza,

ha meritato con brutti servigi

la dignitate e ’l titolo che puzza

a’ spirti umani, alli celesti e a’ stigi.

(Satira III, vv. 310-313)

O descriverà cosí la figura e l’ascesa di Lorenzo de’ Medici, duca di Urbino, pretendente alla tirannia di Firenze:

Laurin si fa de la sua patria capo,

et in privato il publico converte;

tre ne confina, a sei ne taglia il capo;

comincia volpe, indi con forze aperte

esce leon, poi c’ha ’l popul sedutto

con licenze, con doni e con offerte:

l’iniqui alzando, e deprimendo in lutto

li buoni, acquista titolo di saggio,

di furti, stupri e d’omicidi brutto.

(Satira IV, vv. 94-102)

Mentre cosí rappresenterà, fra sdegno e comicità, un frate ipocrita, che tuona dal pulpito contro i vizi e proprio contro i bevitori e ghiottoni, e intanto segretamente si abbandona al vizio del bere vini forti (contrapposti alla propria sobrietà di moderato gustatore di vini schietti e temperati dall’acqua) e a quello dell’avidità di ghiottone:

Chiuso nel studio frate Ciurla se li

bea, mentre fuori il populo digiuno

lo aspetta che gli esponga gli Evangeli;

e poi monti sul pergamo, piú di uno

gambaro cotto rosso, e rumor faccia,

e un minacciar, che ne spaventi ogniuno;

et a messer Moschin pur dia la caccia,

al fra Gualengo et a’ compagni loro,

che metton carestia ne la vernaccia;

che fuor di casa, o in Gorgadello o al Moro,

mangian grossi piccioni e capon grassi,

come egli in cella, fuor del refettoro.

(Satira II, vv. 58-69)

Cosí come dirà di altri ecclesiastici che si negano alle visite facendo dire dal servo che sono troppo occupati in alte faccende, mentre si abbandonano a turpi vizi:

Risponde che ’l patron non vuol gli siéno

fatte imbasciate, se venisse Pietro,

Pavol, Giovanni e il Mastro Nazereno.

Ma se fin dove col pensier penètro

avessi, a penetrarvi, occhi lincei,

o’ muri trasparesser come vetro,

forse occupati in cosa li vedrei

che iustissima causa di celarsi

avrian dal sol, non che da gli occhi miei.

(Satira II, vv. 85-93)

E dei preti che, per esser senza moglie, diventano insaziabilmente ghiotti dell’«altrui carne» (senza saper «cosa sia amore» e cosa sia «caritade») dirà:

sono sí ingorda e sí crudel canaglia.

(Satira V, v. 24)

O presenterà cosí un immaginario dialogo fra se stesso, convinto della superiorità della bontà rispetto alla ricchezza e pompa del vestire e dell’apparire prestigioso a causa di mal acquistate ricchezze, e un personaggio emblematico dell’opposta opinione (la ricchezza ad ogni costo):

Vestir di romagnuolo et esser bono,

al vestir d’oro et aver nota o macchia

di baro o traditor sempre prepono.

Diverso al mio parere il Bomba gracchia,

e dice: «Abb’io pur roba, e sia l’acquisto

o venuto pel dado o per la macchia:

sempre ricchezze riverire ho visto

piú che virtú; poco il mal dir mi nòce;

se riniega anco e si biastemia Cristo».

(Satira III, vv. 274-282)

Ma a queste punte piú aggressive e polemico-satiriche si alternano le forme piú sottilmente ironico-comiche, sia quando l’Ariosto ripresenta elementi e punti dolenti della sua polemica e della sua crisi in una chiave interamente meno violenta, iniziata con piú energia e poi svolta con piú flautata ironia (la rappresentazione dell’adulazione del signore nella corte «l’arte che piú tra noi si studia e cole»[64]), sia specie quando investe se stesso nella sua componente di sciocche speranze e illusioni e pazzie e rappresenta se stesso nel suo vano indaffararsi fra le illusorie e delusive promesse dei potenti in cui ha riposto la sua fiduciosa attesa di aiuto (l’eccellente quadretto della visita a Leone X e del proprio ritorno dal Vaticano all’albergo del Montone, tra infatuazione sciocca per la sua attesa speranzosa e realtà della sua misera condizione di ingenuo e di gabbato[65]).

Mentre le varie componenti si contemperano (aggressività, comicità, ironia e autoironia e autocomicità, vagheggiamento delle cose amate, elegia e amarezza del tempo vanamente perduto, ferma affermazione dei propri ideali in una realtà che li sconfessa, li umilia, ma non li cancella) in un prevalente e dominante tono complesso di discorsiva poeticità sostenuta dalla saggezza e dalla comprensione esperta della vita e della storia, e tutto si riequilibra nel fuso parlato poetico che evidenzia le pazzie umane (e dell’umanità contemporanea) alla luce di una superiore saggezza esperta, di difficile conquista-possesso, ragione interna appunto del controllo superiore di questa poesia e del suo tono medio che insieme rappresenta una nuova presa di contatto con la realtà piú schietta e autentica e ne esprime la luce poetica di naturalezza e verità contro l’apparenza di tutto ciò che è astratto, convenzionale, artificioso, ipocrita negli stessi valori che l’Ariosto ama e sostiene e di cui demistifica gli aspetti falsi e apparenti, propri di una società per tanti aspetti corrotta e, mediante la corruzione, potente.

Per giungere poi al culmine ideale della poesia e della saggezza esperta e critica delle Satire, rappresentato da quei mirabili apologhi che costituiscono come il momento piú libero di una poesia che – sul registro del tono medio – può innalzare tutti i suoi elementi costitutivi in una zona piú realistico-fantastica senza che gli apologhi mai perdano la loro salda e duttile funzione in rapporto ai temi e casi rappresentati nelle Satire, ma con una alacrità poetica maggiore, con una maggiore duttile libertà inventiva, con un piú pieno impegno, da parte del poeta, di tutte le sue esperte risorse tecnico-poetiche.

Si pensi almeno, fra tutti pur sempre bellissimi, all’apologo della luna, che, nell’apparenza di uno scherzo di poesia rusticale e villanesca (ma gli abitanti rozzi rappresentativi si collocano invece in una ambigua dimensione fra remota, mitica e insieme cosí concreta e reale), costituisce un alto esempio di questa zona piú alta delle Satire, raccordato, sul tema della Fortuna, all’apologo della gazza[66] nella stessa Satira III:

Nel tempo ch’era nuovo il mondo ancora

e che inesperta era la gente prima

e non eran l’astuzie che sono ora,

a piè d’un alto monte, la cui cima

parea toccassi il cielo, un popul, quale

non so mostrar, vivea ne la val ima;

che piú volte osservando la ineguale

luna, or con corna or senza, or piena or scema,

girar il cielo al corso naturale;

e credendo poter da la suprema

parte del monte giungervi, e vederla

come si accresca e come in sé si prema;

chi con canestro e chi con sacco per la

montagna cominciar correr in su,

ingordi tutti a gara di volerla.

Vedendo poi non esser giunti piú

vicini a lei, cadeano a terra lassi,

bramando in van d’esser rimasi giú.

Quei ch’alti li vedean dai poggi bassi,

credendo che toccassero la luna,

dietro venian con frettolosi passi.

(vv. 208-228)

Tutto vi è insieme concreto e fantastico, tutto vi è perfettamente dosato e ritmato, fino alla caduta a terra dei poveri sciocchi, accentuata (senza mimesi naturalistica, ma con sottile impiego di risorse metriche e foniche) da forme quasi claudicanti (l’enjambement insolito: «per la / montagna»), dalle rime tronche in ú, come dalla prospettiva visiva e quasi cinematografica dal basso in alto e dall’aggiunta geniale dell’accelerazione del ritmo nella rappresentazione di quelli che (nuovamente ingannati dall’illusione prospettica) proseguono nella loro inutile corsa su per la montagna, quasi ad indicare la persistenza della illusione e pazzia umana spiegata dai versi seguenti che evidenziano il grande tema della Fortuna a cui l’apologo è funzionale, nelle dimensioni di una poesia che commuta diretto insegnamento in sollecitazione indiretta della voce piú profonda della saggezza che ha ben presenti i limiti dei desideri umani, della stessa erroneità e dei limiti della ragione e della saggezza e della sua sterilità, quando non prenda coscienza di queste sue stesse pieghe complesse:

Questo monte è la ruota di Fortuna,

ne la cui cima il volgo ignaro pensa

ch’ogni quïete sia, né ve n’è alcuna[67].

(vv. 229-231)

Cosí nella genesi, nella poetica e nella poesia delle Satire la tendenza al difficile riequilibrio della saggezza, la volontà di far convivere e superare in un rapporto complesso disvalori aggrediti, senso negativo, deluso, amaro della propria vita e delle proprie stesse illusioni, e insieme senso di sé come lucido ed esperto saggio anche nella comprensione della propria follia, volontà di fare emergere, ma anche di sanare le proprie ferite, volontà di risposta non semplicemente scettica e rassegnata alla crisi personale e storica, al pessimismo, alla misantropia, o al puro e semplice scetticismo, motivano internamente appunto la geniale invenzione del tono medio, di cui abbiamo parlato. E l’Ariosto dispiega, nella realizzazione di questa direzione poetica, una somma enorme di procedimenti tecnico-stilistici sia nei particolari sia nello svolgimento e struttura delle singole satire, nei cui inizi e nei cui finali quel tono è poi cosí particolarmente evidenziato proprio per impostarsi alle prime battute e confermarsi alle ultime:

Io desidero intendere da voi,

Alessandro fratel, compar mio Bagno,

s’in corte è ricordanza piú di noi [...].

Or, conchiudendo, dico che, se ’l sacro

Cardinal comperato avermi stima

con li suoi doni, non mi è acerbo et acro

renderli, e tòr la libertà mia prima.

(Satira I, vv. 1-3 e 262-265)

Tutto nelle Satire funziona organicamente (ma, per usare questa parola, a volte adoperata senza senso storico e senso del valore, nella pienezza di una vera poesia) come tutto il tessuto delle Satire è compatto nel tono medio che, senza vere fratture, assortisce abilmente modi colloquiali, dialoghi, interni e indiretti, impeti aggressivi ed amari, modi dolenti, forme parodistiche-patetiche, forme proverbiali, scenette di gusto teatrale (tutta l’esperienza già in atto del poeta delle commedie e del Furioso è utilizzata nel tono delle Satire). E scendendo all’interno del tessuto poetico ben si potrebbe, in un esame particolareggiato, precisare l’uso sapientissimo e organicamente funzionale di procedimenti retorici cosí come l’uso di un lessico spregiudicato e variissimo (da forme colte latineggianti sostenute da esempi classici a forme popolareggianti e modi di dire comuni), da valutare anche dentro il complesso percorso linguistico dell’Ariosto e alla luce delle successive correzioni della stessa Satira e del Furioso, cosí come si dovrebbero studiare le Satire nei loro supporti non solo letterari, ma culturali e ideologici. Ma – rimandando tutto ciò all’esito di nuove e piú ampie ricerche, e d’altra parte non volendo ripetere osservazioni già fatte da me e da altri sul tessuto poetico delle Satire[68] mi preme piuttosto di indicare ancora un punto essenziale per un riesame piú compiuto di questa grande opera. Cioè valutare il peso, il significato, l’apporto delle Satire nell’economia dello svolgimento ultimo dell’Ariosto verso l’esito terminale dell’ultima edizione del Furioso, inserendole cosí (come si è fatto per la loro genesi) nella storia dinamica della personalità e della poesia ariostesche, circa la quale si deve qui ricordare che la crisi aperta con le Satire[69] è anche una tormentata e fertile crisi letteraria (con ciò che questa sempre implica di ragioni interne), se l’Ariosto da una parte interrompeva l’attività piú propriamente lirica, rompendo (piú precisamente di quanto fosse avvenuto già negli ultimi capitoli in terza rima, precedenti in qualche modo delle stesse Satire) il suo difficile accordo con i modelli petrarcheschi e bembistici e scegliendo appunto la nuova via delle Satire[70], se, d’altra parte, egli rivedeva i propri moduli teatrali abbandonando, fra l’altro, definitivamente la prosa per il verso sdrucciolo anche nella nuova redazione delle prime commedie, e se infine, proprio intorno al ’18-19[71], avviava e realizzava la costruzione di un’aggiunta al Furioso nei modi cosí diversi dei Cinque Canti, che però abbandonava ritornando proprio nel ’21 alla pubblicazione del Furioso nella sua redazione prima, rivista ora soprattutto da un punto di vista linguistico-stilistico, e in realtà sconfessando cosí o rimandando – pur ritornandovi in anni successivi, ma senza esito – il tentativo della via e dell’inserimento nel poema dei Cinque Canti e applicandosi invece infine alle nuove aggiunte al Furioso per l’edizione del ’32.

Qui non potrò fare che accenni (puntando su motivi di fondo storico-personale) a questo delicato e complicato periodo terminale dell’Ariosto entro l’avanzare sempre piú complesso e difficile del Cinquecento, nella crescente crisi italiana ed estense) e nella crisi degli stessi valori rinascimentali. Basti almeno qui dire che le Satire costituiscono un nodo essenziale per questa storia dell’ultimo Ariosto e che (mentre col loro tono medio già in parte tendono a riassorbire e riequilibrare la crisi sofferta dall’Ariosto negli anni seguenti l’edizione 1516 del Furioso) esse pur lasciano una scia di amarezza, da esse fuoriescono elementi di pessimismo e di maggior consapevolezza della situazione storica ed esistenziale contemporanea, che si intrecciano con quelli degli ardui Cinque Canti, colmi di motivi amari e sin cupi e tetri[72], con le ultime commedie Negromante e Lena (specie la seconda carica di un approfondimento amaro del mondo della corruzione e dell’ipocrisia) e si rapportano al lavoro di aggiunta del Furioso in cui certamente ben si avverte passaggio di motivi e toni che – senza assoluta rottura ed estraneità – pur filtrano nel contesto generale del poema come qualcosa, se non di totalmente nuovo, certo di piú accentuato e aggravato nel sentimento di quella crisi storica ed esistenziale che nel Furioso del ’16 era pur presente, ma meno profondo rispetto alla maggiore generale pienezza di vita e fantasia, di trionfo del ritmo vitale nella sua elastica e possente realizzazione in ritmo poetico-narrativo.

Rispetto a questo sviluppo delle nuove parti del Furioso, le Satire rappresentano come la radice o piuttosto a volte il rinforzo critico di motivi e temi, che vengono poi ulteriormente alimentati nella successiva aggravata situazione storica e nella coscienza che l’Ariosto ne prende (quando è tramontata definitivamente, per gli stati italiani, ogni possibilità di equilibrio indipendente o di giuoco fra le opposte potenze straniere, con la definitiva affermazione del predominio spagnuolo, l’alleanza fra Carlo V e il papa Clemente nell’incontro di Bologna del 1530 dopo il sacco di Roma, con l’inerente perdita di movimento della stessa politica estense anch’essa ormai legata alla Spagna[73]).

Si pensi al tema limite della Fortuna, che, pur fortemente e abbondantemente, ma piú contraddittoriamente presente nel Furioso del ’16 («virtú non val senza fortuna», XVI, 46, ma altrove si cerca di forzarne i limiti e la potenza), è però tanto evidenziato, come abbiamo detto, nella consapevolezza critica delle Satire, e passa poi ancora accentuato nelle aggiunte del Furioso, martellante specie nella storia dei francesi in Italia e mai cosí esplicitato in tutta la pienezza della sua riconosciuta potenza come all’inizio del canto XLV:

Quanto piú su l’instabil ruota vedi

di Fortuna ire in alto il miser uomo,

tanto piú tosto hai da vedergli i piedi

ove ora ha il capo, e far cadendo il tomo [...].

Cosí all’incontro, quanto piú depresso,

quanto è piú l’uom di questa ruota al fondo,

tanto a quel punto piú si trova appresso,

c’ha da salir, se de’ girarsi in tondo [...].

Si vede per gli essempii di che piene

sono l’antiche e le moderne istorie,

che ’l ben va dietro al male, e ’l male al bene,

e fin son l’un de l’altro e biasmi e glorie;

e che fidarsi a l’uom non si conviene

in suo tesor, suo regno e sue vittorie,

né disperarsi per Fortuna avversa,

che sempre la sua ruota in giro versa[74].

(XLV, 1, vv. 1-4; 2, vv. 1-4; 4)

Si pensi al tema della follia, si pensi soprattutto al tema della ricchezza e del potere come falso valore esecrato dall’Ariosto e che, mentre le Satire ne denunciano e aggrediscono la vanità e il prepotere scellerato, il Furioso del ’32 decisamente oppone ai veri valori umani visti alla luce della saggezza e degli ideali ariosteschi e, di contro, alla luce dei giudizi del «volgo», determinato, si badi bene, non in senso sociale, ma in senso morale e intellettuale. Come può ben vedersi dalle strofe 50-51 del LXIV del Furioso (pure nelle aggiunte del ’32), essenziali, a mio avviso, per spiegare la visione vitale e storica dell’Ariosto nella sua ultima piena e complessa esperienza critica della realtà umana e della storia contemporanea. Là dove – ancorandovi significativamente tutto il nuovo episodio di Ruggiero e Leone[75]– il poeta, dopo aver detto che Ruggiero ha tutte le doti che la natura e che l’uomo si acquista con la sua formazione, tranne le ricchezze, opporrà:

Ma il volgo, nel cui arbitrio son gli onori,

che, come pare a lui, li leva e dona

(né dal nome del volgo voglio fuori,

eccetto l’uom prudente, trar persona;

che né papi né re né imperatori

non ne tra’ scettro, mitra né corona;

ma la prudenzia, ma il giudizio buono,

grazie che dal ciel date a pochi sono);

questo volgo (per dir quel ch’io vo’ dire)

ch’altro non riverisce che ricchezza,

né vede cosa al mondo, che piú ammire,

e senza, nulla cura e nulla apprezza,

sia quanto voglia la beltà, l’ardire,

la possanza del corpo, la destrezza,

la virtú, il senno, la bontà; e piú in questo

di ch’ora vi ragiono, che nel resto[76].

(XLIV, 50-51)

L’impeto di queste due strofe, amare ed energiche (con appoggi oraziani che richiamano alle Satire), è sigla sicura della persuasione profonda dell’Ariosto su questo tema che accentua a contrasto e precisa, come non mai cosí bene, ciò ch’egli odia e ciò ch’egli ama, anche se in una visione non schematica. Orbene qui è una delle punte piú chiare di quel critico passaggio di ideologia e di visione della vita che le Satire rappresentano, pur risolvendolo nel tono medio, e promuovono contribuendo a farlo filtrare entro la concezione che presiede alla costruzione delle aggiunte del Furioso del ’32. Ma insieme, come già nelle stesse Satire i valori della saggezza, della prudenza, intelligenza, ragione concreta, ed esperta dei suoi stessi limiti, portavano un riequilibrio complesso di movimenti piú amari ed escludevano l’evasione dalla realtà e il rifiuto dell’attrazione e dell’esercizio vitale, cosí in questa prospettiva dell’ultimo Furioso (cosí pieno di temi e toni pessimistici e di scene e storie di tradimento e perfidia, di polemici sfoghi contro aspetti della crisi storica qual è l’invettiva contro la scoperta delle armi da fuoco che distruggono la gloria militare e il valore individuale) vive pure la risposta dell’Ariosto nell’esaltazione – pur tutt’altro che trionfalistica e facilmente ottimistica – dei valori di cui è fermamente persuaso e che oppone (nei suoi modi non enfatici) alla decadenza, alla crisi, al prevalere avvertito dei disvalori e dei falsi valori.

Ritorniamo cosí a quanto dicevamo in principio, sorretti ora anche da quanto le Lettere e le Satire ci hanno suggerito sulla personalità ariostesca, sulle radici intere della sua poesia, sul suo movimento dinamico e tormentato. L’Ariosto, con la grandissima poesia del Furioso (ma anche con tutta la sua presenza poetica), appare storicamente un altissimo collaboratore critico (ad ogni livello ideologico, culturale, artistico) della civiltà rinascimentale, di cui individua e combatte i disvalori e falsi valori crescenti e di cui sostiene, con forza personalissima, i valori fondamentali (anche proprio nel loro complesso senso critico, ironico e antischematico), aprendo la via ad una concezione moderna della vita. E cosí la sua opera si presenta – in forza di una personalità estremamente complessa di forze e di esperienze (disposizione all’agire, saggezza superiore, intelligenza suprema, forza ironica, conoscenza profonda della storia contemporanea e della natura e della condizione degli uomini e delle loro basse e alte passioni, ricchissimo sentimento vigoroso e schietto, profonda eticità, alacrità fantastica suprema, spinta fino ai piú alti esiti realistici-fantastici oltreché ricchezza di esperienze artistiche varie e interrelate, sorrette da una coscienza artistica pure altissima) – si presenta, dico, come una risposta positiva e critica al suo tempo sostenendone i valori piú alti e a suo modo sfidando la sua stessa crisi storica ed esistenziale da lui cosí profondamente conosciuta e vissuta. E perciò tanto piú la sua poesia (una poesia, a ben vedere, piú energetica che catartica e consolatoria, moltiplicatrice di forze vitali[77] e creatrice di valori e di problemi: e certo non semplice, se pure altissimo, divertimento e piacere[78]) parla e parlerà ancora agli uomini: gli uomini, che furono l’oggetto piú appassionante della sua ricerca intellettuale e poetica (di grande intellettuale e di grande poeta, e grande poeta perché grande intellettuale), di lui che anche da una questione ortografica (secondo un aneddoto attendibile del Giraldi Cinzio circa la sua difesa, in parole di origine latina, della lettera h, per lui nobilitante) risaliva all’oggetto fondamentale del suo piú profondo interesse («chi leva l’h all’homo, non si conosce homo, chi la toglie all’honore, non è degno di honore»), di lui, che meglio che «il divino Ariosto» vorremmo chiamare, piú semplicemente e senza enfasi, «l’umanissimo Ariosto».


1 Mi riferisco ai seguenti saggi e libri posti in ordine cronologico: Consigli per una lettura del «Furioso», «Leonardo», 1940; Orlando Furioso e opere minori scelte, a cura di W. Binni, Firenze, Sansoni, 1942; Introduzione alla poetica del Furioso, «Aretusa», 1945; Le Satire dell’Ariosto, «Belfagor», 1946; Le liriche ariostesche, «Belfagor», 1946; Metodo e poesia di Ludovico Ariosto, Firenze-Messina, D’Anna, [1947] 19703; Metodo e poesia nell’Orlando Furioso, «Letteratura», 1947; Storia della critica ariostesca, Lucca, Lucentia, 1951; Ludovico Ariosto, Torino, ERI, 1968 (che costituisce la base piú spostata verso una ripresa del mio lavoro ariostesco in movimento, come mostra il presente saggio).

2 Si dovrà doverosamente rilevare, in direzione di una configurazione della personalità ariostesca complessa e dotata sia di un forte senso della realtà, sia persino di una sicura intelligenza politica, l’importante intervento di Riccardo Bacchelli fin dalla lettura ferrarese del ’29 Una difesa di Messer Ludovico e poi nel poderoso lavoro La congiura di Don Giulio d’Este (Milano, Mondadori, 1931): scritti ripubblicati poi insieme ad altri scritti ariosteschi nel volume XV (La congiura di Don Giulio d’Este e altri scritti ariosteschi) di Tutte le opere di Riccardo Bacchelli, Milano, Mondadori, [1958] 1966 (edizione riveduta).

3 Si cita dall’edizione dell’Orlando Furioso, a cura di C. Segre, Milano, Mondadori, 1976.

4 Sul preciso e complesso rapporto dell’Ariosto con le arti figurative si veda la relazione complessa e dotta di Cesare Gnudi tenuta nel Convegno ariostesco dei Lincei e pubblicata nei relativi Atti (Ludovico Ariosto. Atti dei Convegni Lincei, Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 1975, pp. 331-401). A mio avviso, anche il gusto visivo dell’Ariosto (educato a Ferrara, ma anche a Firenze, Mantova, Roma, Venezia) non mi pare ricondursi senz’altro ad una convergenza intera con quello rinascimentale di tipo raffaellesco, e se io forse esagerai, nel mio commento del ’42, nel ritrovare analogie con forme tardogotiche e quattrocentesche piú nervose e frizzanti dominate dalla linea funzionale, e se Vittorini, o i suoi collaboratori, poterono esser rimproverati per aver cercato equivalenze precise con la scuola pittorica ferrarese, certo tuttora mi pare che l’Ariosto, che pur indicava le «autorità» pittoriche del tempo in una nota ottava del Furioso, sia, come «occhio», piú complesso di quanto si potrebbe pensare in un’immagine di pieno Rinascimento, con qualcosa insieme di piú florido (i veneziani) e di piú asciutto e nervoso ed energico, fino a dar l’impressione, anche qui, di una sua collaborazione critica e molto personale al gusto rinascimentale persin con rilanci tardo-gotici in direzione premanieristica. Sicché alla fine par meglio risolvere questo problema in una disponibilità visiva estremamente complessa e difficilmente agganciabile a direzioni ed equivalenti precisi, cosí come avviene per il suo «orecchio» e il suo forte gusto musicale che mal si potrebbe ridurre ad un’equivalenza assoluta con l’esperienza della scuola fiamminga operante in Ferrara. Detto ciò, quel che mi par sempre da sottolineare, specie nel Furioso, è che la poesia ariostesca sollecita tutti i sensi del lettore (fino a quelli tattili e olfattivi: si pensi almeno alla descrizione della città di Damasco, nel c. XVII, 19-20), giungendo fino ai piú alti livelli spirituali-sentimentali-mentali, e insomma sollecita tutte le disposizioni e forze umane, ma sempre a partire dalla loro base fisica. Il che è un sicuro elemento di appoggio ad una interpretazione a base materialistica di questa suprema totale poesia e al rifiuto di una sua interpretazione idealistica, come di un rilievo unilaterale della sua armonia astratta, fuori della realtà umana e terrena, storica, integrale. E perciò tale poesia non tanto ci «rasserena» e «consola», ma moltiplica, libera e incentiva le nostre forze e la nostra vitalità fino ai suoi livelli piú alti e nobili, etici, sentimentali, estetici, concretamente razionali. «Non ci lascia in pace e in riposo» (come dice Leopardi della «vera poesia»), ma ci sostiene e ravviva, sommuove le zone del subconscio e dell’inconscio, del sogno e dell’ambigua polivalenza della stessa vita, rafforzandoci comunque nel, pur non facile e non euforico, dovere di vivere, di rispondere al nostro tempo, di impegnarci in esso, nell’uomo e per l’uomo. Perciò la mia definizione della poesia ariostesca come interpretazione del ritmo vitale commutato artisticamente in ritmo narrativo-poetico (mi si permetta questa autodifesa di fronte ad equivoci o superficiali o intenzionali) non è affatto una «variante» della formula crociana dell’amore per l’armonia, ma anzi ne è, piú che un correttivo riformistico, un reale capovolgimento a base materialistica, punto di partenza di altri approcci ormai fuori della vera e propria zona idealistico-crociana, assai diversamente, d’altra parte, da certi rozzi tentativi sociologici di un «sedicente» marxismo contenutistico degli anni Cinquanta, da me anche metodologicamente combattuto in Poetica, critica e storia letteraria, Bari, Laterza, [1963] 19757 (ora Poetica, critica e storia letteraria e altri scritti di metodologia, Firenze, Le Lettere, 1993).

5 B. Croce, Ariosto, Shakespeare, Corneille, Bari, Laterza, 1920, p. 16.

6 Ludovico Ariosto, Lettere, a cura di A. Stella, Milano, Mondadori, 1965, poi riedito in L. Ariosto, Tutte le opere, a cura di C. Segre, Satire, Erbolato, Lettere, Milano, Mondadori, 1984, vol. III, pp. 107-756, su cui si basano le seguenti citazioni. Ben volentieri riconosco, a mia volta, di aver usufruito nella presente relazione di vari spunti, suggerimenti e affermazioni dell’Introduzione dello Stella.

7 Sui rapporti e consonanze Ariosto-Machiavelli si veda l’interessante saggio del caro e compianto G.B. Salinari, L’Ariosto fra Machiavelli ed Erasmo, Roma, Istituto Geografico Tiberino, 1968.

8 Manca uno studio complessivo e moderno sulla epistolografia quattro-cinquecentesca: Per il Cinquecento si veda comunque (privi però di accenni all’Ariosto) l’Introduzione di G.G. Ferrero a Lettere del Cinquecento, Torino, UTET, 1948, e il breve scritto di A. Greco, Letteratura e realtà nelle lettere del ’500, «Giornale Italiano di Filologia», N.S., III, 2. Per il Quattrocento importante è l’accurato saggio di M.L. Doglio, Lettere del Boiardo e epistolari del Quattrocento («Lettere italiane», 1969), in cui vi è comunque un accenno all’Ariosto epistolografo d’ufficio circa la toscanizzazione della lingua in comunicazione amministrativa, in Ariosto tanto piú centrale ed attiva di quanto non fosse avvenuto nel Boiardo (p. 263). Per quanto riguarda aspetti dell’epistolografia machiavelliana si veda l’acuto saggio di G. Ferroni, Le «cose vane» nelle lettere di Machiavelli («Rassegna della letteratura italiana», 2-3, 1972) e, per il formidabile epistolario michelangiolesco, si veda il mio volume Michelangelo scrittore, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1965, ripubblicato, con forte arricchimento di note, nel 1975 a Torino dall’editore Einaudi.

9 Della vera e propria gioventú rimane una sola lettera, in latino, ad Aldo Manuzio, del 5 gennaio 1498 (Lettere, ed. cit., p. 131), che rappresenta un importante e sollecitante spiraglio sugli studi filosofici del giovane Ariosto, che chiede al grande editore umanista veneziano libri del Ficino e altri trattati intorno alla filosofia platonica per sé e altri allievi del medico e filosofo Sebastiano dell’Aquila di cui egli seguiva le lezioni (cfr. in proposito il saggio di E. Garin, Motivi della cultura filosofica ferrarese nel Rinascimento, in La cultura filosofica del Rinascimento italiano, Firenze, Sansoni, 1961, p. 427, ma se ne desidererebbero maggiori e piú precise notizie per meglio conoscere la formazione filosofica ariostesca nella sua mescolanza di platonismo e naturalismo).

10 Ad esempio la complessa narrazione del fallimento di un usuraio israelita che rivela la partecipazione di gentiluomini ferraresi ad operazioni di usura, o le precise informazioni sul costo e rincaro del vino e del frumento e quelle sul malcontento del «populo, dal magiore al minore» per una taglia imposta dal duca Alfonso e su tumulti di contadini sempre per cause economiche (al cardinale Ippolito, 22 ottobre 1509, in Lettere, ed. cit., pp. 136-137).

11 «Li nimici son corsi presso a Rezo un miglio, pur alla via de Carpi, et hanno menato via gran numero de bestiame; questi franciosi si sono tandem armati, idest che s’armano tuttavia: se escono, non credo che vadano a tempo» (al cardinale da Reggio, 30 ottobre 1510, Lettere, ed. cit., p. 142). «Quattro beccari tengono de continuo in campo e molti venditori de altre robe; ne la terra hanno messo grande ordine che le victuarie vadano abbondantemente in campo, e vi sono officiali salariati sopra questo» anche se «per li mali portamenti che gli usano francesi, si trovano pochi che vogliano andare a tal cure, perché nel vendere de le robe spesso rilevano de bone bastonate» (al cardinale, primi di novembre 1510, Lettere, ed. cit., pp. 144-145). E si faccia attenzione al commento (acutissimo, lucidamente consequenziario, ma privo di ogni espansione patetica troppo personale) sulla drammatica situazione dei cittadini di Adria e delle popolazioni del litorale di fronte alla crescita delle acque e quindi alla possibilità di un assalto navale dei veneziani a quelle terre e popolazioni e quindi di una persecuzione di queste da parte di quei loro nemici spietati: «Per quanto io ho vedute alcune lettere de alcuni che habitano Adria, in quella terra, e cosí in tutte quelle ville che sono ne l’extremità del Po e presso la marina, si sta con gran suspetto che, crescendo l’aque, Venetiani non li assagliano con l’armata, piú presto per robarli e farne preda e stracio per l’odio che ci hanno che per havere animo de tenerli» (al cardinale, 7 settembre 1509, Lettere, ed. cit., p. 134).

12 «Egli [il cardinal Cesarini] vide, stando io lí, una mia bracca, ch’io havea molto cara per la sua belleza, perché io la volea da heredi, e mi la domandò in dono; io non gli la seppi negare, benché me ne dole anchora» (al cardinale, 22 ottobre 1509, Lettere, ed. cit., p. 135).

13 Si rilegga questo brano per la considerazione che l’Ariosto, preso dalle cose pratiche personali e familiari, amaramente fa della propria grande opera poetica ancora in fieri, con un rapido, dolente, tagliente riepilogo di una situazione difficilissima di cui avverte il peso intollerabile: «È vero ch’io faccio un poco di giunta al mio Orlando Furioso, cioè io l’ho comminciata; ma poi da l’un lato il Duca, da l’altro il cardinale, havendomi l’un tolto una possessione che già piú di trecent’anni era di casa nostra, l’altro un’altra possessione di valore appresso di dece mila ducati, de facto e senza pur citarmi a mostrare le ragion mie, m’hanno messo altra voglia che di pensare a favole» (all’Equicola, 15 ottobre 1519, Lettere, ed. cit., p. 172). Dove la degradazione del poema a «favole» ben dimostra come l’Ariosto – proprio nel periodo delle Satire e della crisi personale che lo contraddistingue – fosse ben lontano – pur nella coscienza della grandezza della sua opera poetica – da ogni infatuazione di «vate» insensibile alle vicende personali e storiche, senza con ciò diventare il Don Abbondio o il Sancio Panza brontolone e pauroso (di desanctisiana memoria) o viceversa il perpetuamente «sereno» e «sorridente» «Ludovico della tranquillità», privo di traumi e di ansie ben umane, anche se un superiore esito di tutto ciò rafforza la sua difficile saggezza e la forza energica della sua stessa risposta poetica.

14 Lettere, ed. cit., p. 152.

15 Lettere, ed. cit., p. 154.

16 «Circa li ventagli, quel del manico d’oro [scrive a nome di Alessandra per il corredo di una sposa] voria che fosse di penne morelle e gialle alla similitudine de la veste, l’altro del manico bianco fosse ancho di penne bianche. Le sottanne, ne vorria una di raso incarnato, listata di tela d’oro [...] l’altra di veluto alto e basso, di colore che parà a voi [...] de la seta chermisina che v’havevo domandata, non la vorrei piú, ma in quel cambio due onze di morella che habbia il chermisino che non perda il colore a lavarsi, e quattro onze d’oro che sia sottile e ben coverto: lo potrete far vedere a persone che se n’intendeno, perché vorria fare un colletto al modo de la veste» (a G.F. Strozzi, 23 luglio 1532, Lettere, ed. cit., pp. 482-483). Certo le indicazioni sono date da Alessandra (che firma la lettera), ma è innegabile il fatto che l’Ariosto si compiace, raffinatamente, di elaborarle e gustarle egli stesso nella sua scrittura.

17 Cosí si rivolge al Bembo parlandogli della preparazione dell’ultima edizione del Furioso e preannunciandogli una visita per «imparare» da lui quello che per se stesso «non è atto a conoscere» (22 febbraio 1531, Lettere, ed. cit., p. 457).

18 A Giovan Francesco Strozzi, 23 luglio 1532, Lettere, ed. cit., p. 481.

19 A Giovan Francesco Strozzi per la morte di suo padre, 29 marzo 32, Lettere, ed. cit., p. 470.

20 A Giovan Francesco Strozzi, 19 gennaio 1532, Lettere, ed. cit., p. 462.

21 A Giovan Francesco Strozzi, 21 giugno 1532, Lettere, ed. cit., p. 474.

22 2 ottobre 1522, Lettere, ed. cit., p. 206. Ma poi, quando l’Ariosto cercava di riavvicinarsi a Ferrara e chiedeva al duca di nominarlo commissario in Romagna, non mancava di rilevare come nel governatorato garfagnino egli avesse fatto esperienza utile e ora possedesse «qualche pratica ch’io ho pur imparata qui in Garfagnana» (al duca, 12 gennaio 1524, in Lettere, ed. cit., pp. 367-368).

23 Cfr. lettera al duca, 30 luglio 1524, Lettere, ed. cit., p. 415: «finch’io starò in questo officio, non sono per havermi alcuno amico, se non la giustizia»; cfr. lettera al duca, 23 gennaio 1524, Lettere, ed. cit., p. 371: «Vostra extia determini quello che le pare: a me basta di essere scarigato appresso a Dio et a gli homini che vedono come le cose passano, che per me non altro si cerca che la giustitia habbia luogo»; cfr. lettera agli Anziani di Lucca, 24 dicembre 1523, Lettere, ed. cit., p. 360: «io vorrei fare piacere ad ugni uno, ma non mai contra la iustitia».

24 Cfr. lettera al duca, 12 gennaio 1524, Lettere, ed. cit., p. 366: «dove [...] mi smacca nel guadagno, ne tengo poco conto», e lettera al duca, 26 novembre 1523, Lettere, ed. cit., p. 357: «Queste prohibitioni c’ho fatte sono a mio danno, ma ho preposto l’utile commune al mio».

25 Cfr. lettera al duca, 15 aprile 1523, Lettere, ed. cit., p. 241: «se mai potessi fare con astutia quello che non posso per forza».

26 In questi disegni l’Ariosto è chiaramente impegnato con tutte le sue risorse di pensiero lucido e di fervida immaginazione attiva, come si evince da questo brano di una lettera al segretario del duca del 5 ottobre 1522 (e dunque agli inizi del governatorato): «io non cesso di pensare e di fantasticare come senza spesa del S.re nostro io possi accrescere le mie forze, per fare che almeno questi ribaldi habbian paura di me» (Lettere, ed. cit., p. 210).

27 Come osserva lo Stella (Introduzione a Lettere, ed. cit., p. 121). Ciò non toglie che, specie nei confronti di Firenze, l’Ariosto debba lamentarsi ancora, sino alla fine del governatorato, del mancato ricambio, da parte delle autorità fiorentine, della sua scrupolosa osservanza della convenzione riguardante lo sconfinamento di banditi.

28 Si tenga conto ora, per lo zelo e l’attenzione amministrativa dell’Ariosto governatore, di quanto è stato detto da Edda Bresciani, partendo dall’esame del Conto de li balestrieri, nella sua relazione tenuta a Castelnuovo nell’ambito del Convegno ariostesco dell’Accademia dei Lincei e pubblicata nei relativi Atti (Ludovico Ariosto cit., pp. 175-225). Sul governatorato garfagnino dell’Ariosto, a parte il capitolo di Michele Catalano nella sua celebre biografia ariostesca (Vita di Ludovico Ariosto, Genève, Olschki, 1931, vol. I), molti sono gli scritti, specie garfagnini-lucchesi, di cui qui ricordo (posteriori al Catalano) solo G. Fusai, L’Ariosto in Garfagnana, Arezzo, Zelli, 1933, e L’Ariosto in Garfagnana e le sue relazioni con la repubblica di Lucca, Lucca, Tip. Artigianelli, 1937; D. Fava, Nuovi documenti sul governo di Ludovico Ariosto nella Garfagnana, «Atti e memorie della Deputazione di storia patria per l’Emilia e la Romagna», 1938-39. Ritengo poi che la piú lucida esposizione di questa vicenda ariostesca sia stata fatta dal piú volte citato Angelo Stella nella Introduzione alla sua edizione delle Lettere. D’altra parte per la conferma di un Ariosto tutt’altro che privo di attenzione alle cose pratiche (anche se non amate e ben dimensionate nel loro livello) o solo geniale distratto, vivo solo nel sogno poetico, sarà pur da ricordare – nella sfera amministrativa privata – quel Conto de contadini su cui si veda la recensione di M. Catalano, «Giornale storico della letteratura italiana», 1925, all’edizione scorretta fattane da Amy Bernardy, «Atti e memorie della Deputazione Ferrarese di storia patria», XXV, 1924. Recentemente le lettere garfagnine sono state riproposte al pubblico in un volumetto curato da G. Scalia (Ludovico Ariosto, Lettere dalla Garfagnana, Bologna, Cappelli, 1977) munito di una breve introduzione piú utile per un’esposizione compilativa delle vicende ariostesche in Garfagnana e della storia garfagnina del periodo che non per il profilo dell’Ariosto governatore, che riporta a vecchie posizioni sul «poeta» inetto ad ogni altra attività.

29 Presento, in tal senso, solo una serie di frasi e brevi brani fra i moltissimi che si possono estrarre dalle lettere garfagnine, ad esemplificare la fertilità di questa prosa epistolare ariostesca sia per la sua efficacia in genere sia per le tonalità varie in cui questa efficacia si realizza, fra durezza decisa, ironia sdegnata, considerazione realistica, che si avvale a volte di modi di dire familiari e correnti cosí come di forme di inventività immaginosa, di procedimenti rafforzativi nella ripetizione e intensificazione di verbi o di rappresentazioni di un movimento in potenza. Per la durezza decisa si pensi a come l’Ariosto esprime la sua soddisfazione per la morte, per malattia, di certo «prete da Soraggio de li Bosi» di cui pure l’Ariosto si era preso cura per alleviarne la prigionia: «tuttavolta è morto, e sta ben morto, perché era una mala bestia, e teneva in grandissima paura tutto Soraggio, e stuprava donne, e dava ferite e bastonate, et ogni dí n’havevo richiami» (nella lettera del 20 luglio 1524, Lettere, ed. cit., p. 407). Per l’ironia variamente atteggiata fra compassione, sdegno, e piú raro sorriso, si vedano questi brevi brani e frasi: «mi fêro certa scusa infangata» (a proposito di alcuni abitanti di Sillano che per paura avevano tardato ad accorrere all’ordine del governatore per una battuta contro i banditi, nella lettera del 15 aprile 1523 – che andrebbe tutta citata sul piano della forza narrativa –, Lettere, ed. cit., p. 240); «detto capitano [...] disse [...] che poi che di questa executione di iustitia negavano di premiarlo, impiccaria per l’avenire le borse e non li ladri» (nella lettera del 25 novembre 1522, Lettere, ed. cit., p. 224); «io che homai cognosco la natura de li grafagnini, che con tutti li comandamenti del mondo non ne potrei far movere uno a simil cose, ché già n’ho fatto piú d’una experientia, ellego per minor danno e minor vergogna confortare li nostri a star con la testa rotta» (nella lettera del 7 luglio 1523, Lettere, ed. cit., p. 304); «Se ’l Pisano si duole perché sia menato in lungo, ha ragione, perché ha frustato tanto tempo qui, che se fosse stato in paradiso gli dovrebbe rincrescere» (a proposito di un processo sempre rimandato, nella lettera del 16 luglio 1523, Lettere, ed. cit., p. 319). Per la forza della ripetizione intensificativa di verbi si pensi almeno al modo con cui l’Ariosto presenta «un ribaldo» nelle sue azioni ai danni degli abitanti di un paesino: «Giuglianetto, che li batte, ferisce, ruba, sforza minaccia» (nella lettera del 15 giugno 1523, Lettere, ed. cit., p. 295). Per l’uso di modi di dire familiari cito almeno questa «supplica» al duca: «Ben la suplico che non faccia, come si dice, de l’un figliolo e de l’altro figliastro» (nella lettera del 25 novembre 1522, Lettere, ed. cit., p. 223). Infine per modi di rappresentazione realistico-immaginosa, si ricordi questa immagine di banditi che l’Ariosto non spera di poter sorprendere, dato che essi, insospettiti, «stanno tuttavia su l’ale» (nella lettera del 15 luglio 1523, Lettere, ed. cit., p. 315).

30 Al Vicario di Gallicano, 3 aprile 1524, Lettere, ed. cit., p. 391. Lo stesso fatto è poi nuovamente e piú minutamente narrato agli Anziani di Lucca (9 aprile 1524, Lettere, ed. cit., p. 392) con una interessante nota circa la singolarità di quel suicidio (prima piú nudamente comunicato nella lettera soprariportata): «havendolo io facto porre nel fondo della tórre, epso con una sua cintola, che a pena era dui braccia di lunghezza, ligandosene una parte al collo e l’altra a uno piede, si strangolò: cosa che pareva impossibile a sequire».

31 Al duca, 20 luglio 1524, Lettere, ed. cit., p. 405.

32 Al duca, 17 luglio 1523, Lettere, ed. cit., p. 322.

33 A Remo Obizzo, 5 ottobre 1522, Lettere, ed. cit., p. 209. Se l’economia di questo saggio lo permettesse sarebbero da riportare interamente (come piú sicura verifica della forza narrativa ariostesca e del suo ordine narrativo mai dispersivo e confuso, ma sicuramente e lucidamente organizzato intorno ai nuclei e fatti piú importanti, in certo modo, per adoperare una definizione dello Stella, «gerarchizzato» pur nella fretta del comunicare) molte lettere che spiccano entro il narrare e comunicare continuo della corrispondenza garfagnina per la loro intensità e (se si vuole adoperare questa parola ormai ambigua per il suo possibile uso edonistico e degustativo) bellissime: cito almeno per un’essenziale minima antologia (che poi riesce pur sempre insufficiente rispetto alla lettura intera dell’epistolario garfagnino) la lettera a Remo Obizzo, segretario ducale, del 5 ottobre 1522, la lettera al duca del 2 maggio 1523, la lettera a Nicolò Rucellai, commissario di Pietrasanta, del 9 giugno 1523, la lettera al duca del 15 luglio 1523 (lettere già da me riportate nel mio volumetto Ludovico Ariosto cit., riproposto supra, pp. 257-363) e ancora quella al duca del 13 luglio 1523 che riespone la vicenda dell’inutile viaggio sotto la tempesta, già narrata nella lettera del 9 giugno al vicario di Pietrasanta, ma con una spiegazione e una motivazione assai diverse; la lettera al duca del 5 luglio 1524; la lettera al duca del 20 luglio 1524; la lettera al duca del 30 luglio 1524; la lettera al duca del 2 agosto 1524.

34 Al duca, 15 luglio 1523, Lettere, ed. cit., pp. 314-315.

35 Ibidem.

36 Stessa lettera, p. 315.

37 Al duca, 20 luglio 1524, Lettere, ed. cit., p. 406.

38 Agli Anziani di Lucca, 14 ottobre 1522, Lettere, ed. cit., p. 214.

39 Al duca, senza data, ma forse 2 maggio 1523, Lettere, ed. cit., p. 266.

40 Al duca, 17 aprile 1523, Lettere, ed. cit., p. 248.

41 Al duca, 7 luglio 1523, Lettere, ed. cit., p. 305.

42 Al duca, 31 agosto 1523, Lettere, ed. cit., p. 334.

43 Al duca, 30 gennaio 1524, Lettere, ed. cit., p. 374.

44 Ivi, pp. 374-375.

45 Cfr. A. Stella, Introduzione a Lettere, ed. cit., pp. 125-126.

46 Agli Anziani di Lucca, 12 gennaio 1524, Lettere, ed. cit., p. 364. Si tratta di un uomo sorpreso in territorio lucchese mentre trasportava, ignaro di incorrere in un “reato”, castagne dal governatorato garfagnino ad altro territorio estense.

47 Agli Anziani di Lucca, 26 gennaio 1524, Lettere, ed. cit., p. 372. Né si trascuri, fra le moltissime lettere che insistono sulla miseria di questi «poveri homini», per lo piú sorpresi da funzionari delle autorità degli stati confinanti a trasportare nel territorio estense «castagne» (il prodotto di sostentamento essenziale di quella povera gente nell’arida terra garfagnina) colte nel territorio lucchese e fiorentino, ma anche angariati dalle bande mafiose e banditesche e dai loro ricatti, e quindi paurosi perfino di confidarsi con il commissario, il brano seguente in cui la voce dell’Ariosto si fa intenerita e commossa di fronte a tale situazione di terrore e di impotenza: «Non tacerò questo anchora, che homini di Salacagnana sono venuti in quattro insieme mostrando di venire per altro, e quando sono stati a me hanno cominciato a piangere, e non m’hanno voluto dire altro. Io ho lor domandato che voglion da me: m’hanno risposto che non ponno parlare per essere minacciato de la vita se parlano, e per l’amor di Dio che non dica che di questo m’habbian fatto motto» (al duca, 20 luglio 1524, Lettere, ed. cit., pp. 405-406). Anche se l’Ariosto mostra ben di commuoversi pur di fronte a sventure di personaggi di ben diversa condizione sociale (ma sottoposti anch’essi alla legge della violenza imperante in Garfagnana – come è il caso del «povero» conte di San Donino fatto assassinare dalla famiglia nemica dei conti di Maddalena), la sua pietà scatta soprattutto in rapporto ai «poveri», ché l’Ariosto dichiara esplicitamente di aver soprattutto compassione per la povertà. La compassione per la povertà è esplicitamente dichiarata dall’Ariosto nella lettera agli Anziani di Lucca, del 17 marzo 1524, mentre raccomanda alcuni «poveri homini» incorsi nella confisca di un po’ di «farina di castagne» che avevan tentato di portare dal territorio lucchese a quello estense: «al qual caso se V.S. per lor solita clementia non hanno misericordia, li poveri homini rimaranno disfacti e morirano di fame. Io, astrecto da’ lor preghi e da compassione che ho alla povertade, scrivo questa a V.S. ecc.» (Lettere, ed. cit., p. 388).

48

Ben seria il dritto che tornasse il danno

solamente su quei che l’error fanno.

Ma, pel contrario, il populo innocente,

il cuo parer non è chi ascolti o chieggia,

è le piú volte quel che solamente

patisce quanto il suo signor vaneggia.

(Cinque Canti, in Opere minori, a cura di C. Segre, Milano-Napoli, Ricciardi, 1954, canto V, 4-5) Naturalmente il corsivo è mio. Si ricordino anche i versi sui popoli vittime (come dice il Caretti nell’Introduzione alla sua edizione dei Cinque Canti, Venezia, Corbo e Fiore, 1974, p. XXVII) «delle colpe de’ loro reggitori», sacrificati alle ferree esigenze della Ragion di stato, e delle relative guerre: «de’ saccheggiati populi et uccisi / per ferro, fiamme, oppressïoni e peste» (II, 33, vv. 5-6).

49 Basti riferirsi, nell’episodio di Marganorre, al lento, feroce tormento cui la vecchia sottopone Marganorre, scarnendogli il dorso con un ferro acuminato (XXXVII, 108).

50 Cfr. Lettere, ed. cit., Introduzione, p. 128, dove, giungendo ad una valutazione di «disarmonia sintattica» delle Lettere come sigla, oltre che stilistica, poetica di queste pagine nate dall’occasione garfagnina, lo Stella conclude (in un discorso in verità assai aggrovigliato e troppo agganciato alla formula dilemmatica del Segre): «E qui è anche spiegazione di come, svanito il contatto con la provincia terribile, il triennio commissariale, per gran parte risolto negli schemi contemplativi, sia stato nella sua dura cronaca e nel suo stimolo sociale rapidamente dimenticato».

51 Delle lettere garfagnine e delle Satire diversamente si occupa il libro (L’ultimo Ariosto, Bologna, Pàtron, 1977) di Walter Moretti, inserendole nella maturazione dell’ultimo Ariosto culminante nel Furioso del ’32, proprio sulla base di questo mio saggio riesposto e accettato con viva adesione con la proposta dell’autore di accentuare «le corrispondenze e le coincidenze che il confronto delle Lettere e delle Satire con il Furioso del ’32 ha suggerito al critico», «riconducendo al comune denominatore del “volontarismo eroico” (comprensivo dell’appassionata e perentoria contestazione delle ingiustizie che turbano e corrompono l’ordine mondano) i vari elementi che contrassegnano l’ultima ardua vicenda umana e artistica del poeta ferrarese».

52 Cfr. Lettere, ed. cit., Introduzione, p. 129, secondo cui le Lettere «comprovano e, per il triennio 1522-1525, integrano il diagramma della sua vicenda linguistica, documentando come i problemi della “osservazione della lingua” l’abbiano [l’Ariosto] accompagnato anche nell’esilio garfagnino».

53 Naturalmente si dovrà tener conto di quel tanto di colorito lucchese che quelle lettere che ci sono pervenute dalle copie dell’Archivio di Lucca comportano. E di queste sarebbe estremamente puntiglioso tentare un restauro date le oscillazioni della lingua ariostesca delle lettere pur nel progressivo prevalere delle forme toscane, su cui si potrebbe ipotizzare qualche conforto-sviamento toscaneggiante-popolare dovuto alla stessa assuefazione dell’Ariosto garfagnino alle forme del dialetto di quella provincia toscana, ma con caratteristiche sue e intorbidamenti «lombardi».

54 Mi si permetta di notare come l’Erbolato costituisca ancora un problema e un’operetta da meglio collocare, comprendere e valutare. Troppo drastico, tutto sommato, risulta il giudizio tutto negativo del Segre che la chiama «cicalata non molto brillante» (in Ludovico Ariosto, Opere minori cit., p. 1165). Si veda ora invece G. Ferroni, Nota sull’Erbolato, nel n. 1-2, 1975, della «Rassegna della letteratura italiana» (numero interamente dedicato all’Ariosto).

55 Per la presenza di Orazio nelle Satire (ma anche in tutta l’opera ariostesca dalle liriche latine al Furioso) si veda il saggio di G. Petrocchi, Orazio e Ariosto, in I fantasmi di Tancredi, Caltanissetta-Roma, S. Sciascia, 1972. Per un piú approfondito studio su questo rapporto anche nei suoi termini di tipo etico-ideologico andrebbe tenuto conto di nuove interpretazioni storico-critiche dello stesso Orazio come è quella, eccellente, del saggio Orazio e la morale mondana europea, che Antonio La Penna ha preposto all’edizione di Orazio, Tutte le opere, Firenze, Sansoni, 1968.

56 Si può pensare, ad esempio, per i toni piú accesamente misogini e violentemente realistici (come quelli relativi ai ripugnanti «belletti») della Satira V ariostesca, alla sesta Satira di Giovenale e variamente a spunti e toni della seconda, quinta, settima, e al gruppo 12-14. È chiaro poi che, specie per l’uso della terza rima, sarà da considerare la poesia appunto in terza rima e di tono etico-satirico cui già io stesso accennavo nei miei volumi ariosteschi e che una precisazione di rimandi interni all’opera ariostesca precedente alle Satire richiederebbe un nuovo studio particolare.

57 Si cita dall’edizione delle Satire, a cura di C. Segre, Torino, Einaudi, 1987. Si dovrà però notare che anche in questi casi l’operazione ariostesca è complessa e coinvolge echi e stimoli letterari. Cosí per gli ultimi quattro versi citati ho trovato che in un sonetto del Pistoia (sonetto XXXI dell’edizione Percopo, di Sonetti faceti di A. Cammelli, Napoli, 1908, p. 75) sono presenti (anche se in altra direzione di tono) parole essenziali nella affermazione ariostesca: «aceto», «spiedo» («stecco»), «rapa»/«sapa» proprio in rima. Del resto quante volte anche nel Furioso un paragone realistico cela un richiamo o piú richiami di poeti classici antichi e moderni, sicché il sapore piú schietto della realtà è attinto attraverso una complessa operazione artistica: densità della realtà dall’interno della densità della letteratura premente nella memoria attiva e prensile del poeta e alla fine rinnovamento e sigla personale-poetica inconfondibile che ci riconduce alla realtà e al suo schietto sapore, ma sempre con procedimenti non mimetici, fotografici, naturalistici, e invece estremamente complessi (dalla realtà alla letteratura e da questa alla realtà poetica e fantastica).

58 Si ricordi per questa «difficile facilità» e per la coscienza che l’Ariosto poteva avere dello sforzo di questa conquista quanto egli dice nella Satira III (vv. 106-108) proponendo «uno essempio» a un suo ideale obbiettore «leggilo, che meno / leggerlo a te, che a me scriverlo, costa».

59 Sono i versi 115-135 della Satira IV, cosí profondi nella rievocazione della fervida età giovanile, tanto fertile di poesia, cosí importanti per quella poetica del «cor sereno» che rappresenta una condizione che l’Ariosto poté pur raggiungere, a costo di un autodominio sofferto e difficile, anche quando essa non si presentava cosí facile e propizia come nell’epoca qui vagheggiata e poeticamente espressa in attrito con la ben diversa condizione biografica delle Satire e del soggiorno garfagnino durante il quale la Satira IV fu scritta:

Già mi fur dolci inviti a empir le carte

li luoghi ameni di che il nostro Reggio,

il natio nido mio, n’ha la sua parte.

Il tuo Mauricïan sempre vagheggio,

la bella stanza, il Rodano vicino,

da le Naiade amato ombroso seggio,

il lucido vivaio onde il giardino

si cinge intorno, il fresco rio che corre,

rigando l’erbe, ove poi fa il molino;

non mi si può de la memoria tòrre

le vigne e i solchi del fecondo Iaco,

la valle e il colle e la ben posta tórre.

Cercando or questo et or quel loco opaco,

quivi in piú d’una lingua e in piú d’un stile

rivi traea sin dal gorgoneo laco.

Erano allora gli anni miei fra aprile

e maggio belli, ch’or l’ottobre dietro

si lasciano, e non pur luglio e sestile.

Ma né d’Ascra potrian né di Libetro

l’amene valli, senza il cor sereno,

far da me uscir iocunda rima o metro.

60 Mentre, si badi bene, Roma appare a lui anche nella sua crescente funzione di grande centro culturale, e addirittura del maggior centro culturale italiano (riprova anche questa dell’acuta attenzione e intelligenza storica dell’Ariosto), come può vedersi nella bella descrizione delle offerte classiche e rinascimentali di Roma nella Satira VII, vv. 124-141.

61 Si pensi, nel XXIV del poema, alla parlata di Zerbino morente quando egli «giura» che (dovendo lasciare l’amata in una situazione terribile) andrà disperato nel «profondo oscuro» «de lo inferno» proprio in nome del suo stesso amore per Isabella nei suoi elementi fisici seppur piú poetici e nobili: «per questa bocca e per questi occhi giuro, / per queste chiome onde allacciato fui» (79, vv. 3-4); si pensi, nella commossa perorazione ariostesca dopo la morte sublime di Isabella, al ritorno dell’«alma casta» al «terzo ciel» «in braccio al suo Zerbino» (XXIX, 30, vv. 5-4). La sublimazione amorosa non manca mai, nell’Ariosto, di una sua allusione all’unione totale, spirituale-fisica, degli amanti. D’altra parte l’istinto erotico, come istinto vitale invincibile, sfaccettato e prospettato in svariatissime gradazioni, può essere presentato (ai poli estremi) sia come turpe lascivia (specie se vivo in personaggi insieme ipocriti e vecchi: il caso dell’eremita-mago ed Angelica), sia, nel suo eccesso, come avvilente esercizio animalesco (donde la malinconia di Guidon Selvaggio ridotto alla condizione di stallone nell’episodio delle femmine omicide), sia viceversa come pieno amore sublime, sia come istinto innocente e naturale specie in personaggi giovanili ed ingenui, come nell’incantevole episodio di Fiordispina siglato nel punto in cui questa «tocca con mano» la creduta metamorfosi sessuale di Bradamante (in realtà Ricciardetto) dall’invocazione che risolve la situazione scabrosa in un tono incantevole di ingenuo entusiasmo: «Fa, Dio (diss’ella), se son sogni questi, / ch’io dorma sempre, e mai piú non mi desti» (XXV, 67, vv. 7-8).

62 Si pensi (con l’incontro di morte e rapido capovolgimento della sorte piú fortunata) all’implacabile «tutti morrete» rivolto ai Medici e ai collaboratori dei loro successi (Satira VII, vv. 94-108).

63 Per una piú generale autocritica di quel libro (in parte già accolta concretamente sia per elementi generali della personalità ariostesca sia per la poesia del Furioso nel volumetto Ludovico Ariosto cit., riproposto supra, pp. 257-363) rimando ad alcune osservazioni in proposito nel mio libro Poetica, critica e storia letteraria cit., pp. 92-94.

64

Pazzo chi al suo signor contradir vole,

se ben dicesse c’ha veduto il giorno

pieno di stelle e a mezzanotte il sole.

O ch’egli lodi, o voglia altrui far scorno,

di varie voci subito un concento

s’ode accordar di quanti n’ha dintorno;

e chi non ha per umiltà ardimento

la bocca aprir, con tutto il viso applaude

e par che voglia dir: – anch’io consento –.

(Satira I, vv. 10-18)

65

Testimonio sono io di quel ch’io scrivo:

ch’io non l’ho ritrovato, quando il piede

gli baciai prima, di memoria privo.

Piegossi a me da la beata sede;

la mano e poi le gote ambe mi prese,

e il santo bacio in amendue mi diede.

Di mezzo quella bolla anco cortese

mi fu, de la quale ora il mio Bibiena

espedito m’ha il resto alle mie spese.

Indi col seno e con la falda piena

di speme, ma di pioggia molle e brutto,

la notte andai sin al Montone a cena.

(Satira III, vv. 175-186)

66 Si noti poi che questi due apologhi trovano (come ha rilevato C. Segre nel saggio Leon Battista Alberti e Ludovico Ariosto, in Esperienze ariostesche, Pisa, Nistri-Lischi, 1966) appoggio in un passo del proemio al libro VII delle Intercenali di L.B. Alberti, il che piú generalmente vale a indicare come il lavoro delle Satire (come quello di tanta poesia ariostesca) presupponga una chiara coscienza artistica che opera cosí nel denso della realtà come nel denso della letteratura e della cultura (non solo con riprese e rielaborazioni personalissime di poeti e letterati, ma anche di trattatisti, di moralisti, di pensatori), non solo genericamente rivelando nell’Ariosto un vastissimo possesso di letture, ma sottolineando la componente culturale-ideologica di tali letture e quindi ancora la condizione tutt’altro che intellettualmente ingenua della personalità ariostesca sia come disposizione sia come formazione, interessata a problemi ideologici e culturali. Si veda anche, per i rapporti Ariosto-Alberti, lo scritto di L. Pampaloni, Le «Intercenali» e il «Furioso»: noterella sui rapporti Alberti-Ariosto, «Belfagor», 1974, 3, pp. 317-335, e la comunicazione di G. Ferroni, L’Ariosto e la concezione umanistica della follia, letta nel Convegno ariostesco dell’Accademia dei Lincei e pubblicata nei relativi Atti (Ludovico Ariosto cit., pp. 73-92).

67 E circa il tema cosí importante della Fortuna, da non tentare e verificare a proprio danno, si ricordino anche questi versi ben significativi (sempre nella stessa satira):

Meglio è star ne la solita quïete,

che provar se gli è ver che qualunque erge

Fortuna in alto, il tuffa prima in Lete.

(Satira III, vv. 169-171)

Ma se ne saggi la presenza insistente, anche se variamente atteggiata, in altre Satire e magari in modi raffinati e pacati nel riferimento a esperienze comuni, ma artisticamente rese preziose e tanto piú significative:

Quella ruota dipinta mi sgomenta

ch’ogni mastro di carte a un modo finge:

tanta concordia non credo io che menta.

Quel che le siede in cima si dipinge

uno asinello: ognun lo enigma intende,

senza che chiami a interpretarlo Sfinge.

Vi si vede anco che ciascun che ascende

comincia a inasinir le prime membre,

e resta umano quel che a dietro pende.

(Satira VII, vv. 46-54)

68 Si faccia almeno attenzione al sottile procedimento narrativo cosí frequente nelle Satire e consistente in una falsa perdita del filo del discorso: si veda ad esempio la Satira I al v. 190. Simili procedimenti sono frequenti anche nel poema dove, fra l’altro, sarà da notare non solo il gusto dell’interruzione, della suspense, dell’attesa, della falsa distrazione, ma anche di certi anticipi di avvenimenti inizialmente ambigui e non precisati e poi spiegati interamente con la comparsa della narrazione diretta dell’avvenimento. Gli «andirivieni» del ritmo narrativo-poetico – incentivo altissimo di una narrazione «antinaturalistica» – ne traggon forte guadagno. E particolare discorso sarebbe da farsi poi sulle ragioni della stessa serialità delle sette Satire (solo in parte legata a ragioni cronologiche). Mentre sarebbero (ma in parte ciò è stato da me fatto nei miei volumi del ’47 e del ’68) da esplicitare, e legar meglio a spunti ricavabili dal Furioso, le parti delle Satire che piú si aprono ad un’indagine sulla complessa e fertilmente «ambigua» nozione ariostesca di poesia (fra adesione, spesso assai critica, a ragioni cortigiane e ragioni piú personali e nonconformistiche: si pensi allo scarto che esiste fra i doveri del poeta il cui studio è «tutto umano», ma che deve far «di false lode i principi satolli», nella Satira VI, e la concezione di una poesia civilizzatrice, legata al costituirsi della prima società umana, enunciata nella stessa Satira ai versi 70-87, opposta poi a certo falso classicismo umanistico-rinascimentale) e sulla sua poetica realistico-fantastica (il viaggiatore sedentario con una base però di vera esperienza di luoghi e di terre, nella Satira III, vv. 55-56) su cui ancora molto sarebbe da aggiungere, ricercandone piú attentamente il fondo ideologico-storico e la piú riposta radice centrale personale-storica che poi si ramifica nelle ambiguità spesso volute e assecondate dall’Ariosto con il suo gusto delle contraddizioni e polivalenze proprie di una visione del mondo cosí sfaccettata e complessa, ma al fondo cosí saldamente terrena, umana, antitrascendente, concretamente razionale (seppure di una razionalità che allarga enormemente gli spazi di movimento della realtà umana e naturale).

69 Un preciso accenno alla crisi letteraria fatta coincidere con la crisi delle Satire è dovuto a Carlo Dionisotti nel suo studio Appunti sui Cinque Canti e sugli studi ariosteschi, in Aa.Vv., Studi e problemi di critica testuale, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1961, p. 374.

70 Per quanto riguarda le difficoltà della lirica ariostesca, il rapporto fra i capitoli piú maturi e le Satire, e la fine della piú specifica attività lirica ci si riferisce alla precisa delineazione che della lirica ariostesca ha fatto in questo Convegno dei Lincei Emilio Bigi (ora il saggio è pubblicato nei relativi Atti: Ludovico Ariosto cit., pp. 49-71).

71 Accetto la datazione sostenuta dal Dionisotti pur non rifiutando l’ipotesi di una successiva rielaborazione soprattutto linguistica intorno al 1526 e fino al ’28 che vedo cosí accettata da Lanfranco Caretti nella Introduzione (pp. XIII-XIV) alla citata edizione di Cinque Canti (cfr. in proposito C. Dionisotti, Per la data dei «Cinque Canti», «Giornale storico della letteratura italiana», 1960, e C. Segre, Studio sui «Cinque Canti», «Studi di filologia italiana», 1954, poi in Esperienze ariostesche cit.). Si veda ora nel citato n. 1-2, 1975, della «Rassegna della letteratura italiana» la nuova proposta di C.F. Goffis (I Cinque Canti di un nuovo libro di M. L. Ariosto) per una datazione in gran parte coincidente con il soggiorno garfagnino (dal 1522 in poi) e particolarmente contraria alla datazione troppo anticipatrice di L. Capra («Giornale storico della letteratura italiana», 1974, 2) che pone i Cinque Canti addirittura prima del Furioso.

72 Basti ricordare – anche se notissimi – i celebri versi sulla vita(«O vita nostra di travaglio piena, / come ogni tua allegrezza poco dura! / Il tuo gioir è come aria serena, / ch’alla fredda stagion troppo non dura: / fu chiaro a terza il giorno, e a vespro mena / súbita pioggia, et ogni cosa oscura», Cinque Canti, II, 34, vv. 1-6), che suonano cosí diversi rispetto a sentenze pessimistiche, non assenti anche nel Furioso del ’16 («in questa assai piú oscura che serena / vita mortal, tutta d’invidia piena», IV, 1, vv. 7-8) ma intonate in forme piú ambigue, parziali, e pronte al riaffiorare dell’impeto vitale.

73 Negli spostamenti successivi della visione storica dell’Ariosto andrà tenuto di conto già l’incidenza (intorno al ’22) della svolta della politica estense con l’abbandono della piú precisa e sicura alleanza con i francesi. Ciò che poi – a parte il riavvicinamento alla Francia costituito dal matrimonio del figlio del duca Alfonso con Renata di Francia – si rinforza in relazione al crescente predominio spagnolo-imperiale. Donde la chiara percezione che del mutato contesto politico estense, italiano, europeo l’Ariosto ben dimostra nella aggiunta parte iniziale del canto XV del Furioso in cui si esalta la nuova possibilità di unità imperiale addirittura del mondo sotto Carlo V con il suo impero che giunge fino alle nuove terre americane. Ma, si badi bene, l’Ariosto registra la nuova situazione (quasi ad aggiornare il suo poema e la sua pregnanza storica), ma non a caso si tratta di una parte singolarmente fredda e ben poco partecipata, e addirittura assai untuosa per quel che riguarda l’espansione della religione cristiana in America, la volontà di Dio che «vuol che sotto a questo imperatore / solo un ovile sia, solo un pastore» (XV, 26, vv. 7-8) e lo stesso elogio di Carlo V come «un principe, al valor del qual pareggio / nessun valor, di cui si parli o scriva» (XV, 25, vv. 3-4). Par qui di sentire piú il chiaro odore di quella poesia «mistificatrice» (demistificata nel grande passo delle strofe 18-30 del canto XXXV posto in bocca a San Giovanni Evangelista e con la punta estrema del «mio lodato Cristo») piú che una vera adesione alla nuova situazione che apre la strada all’epoca del predominio spagnolo in Italia e della Controriforma. Già nelle Satire si ricordi l’attacco non casuale alla «vile adulazion spagnola» nel linguaggio (Satira II, vv. 76-78).

74 Non può non colpire nell’ottava quarta la consonanza cosí forte con una terzina dell’Asino del Machiavelli (per altro già indicata da altri studiosi), esattamente i versi 103-105 del canto V: «Ed è, e sempre fu e sempre fia / che ’l mal succeda al bene, il bene al male / e l’un sempre cagion de l’altro sia» (il corsivo è naturalmente nostro). A parte ogni ipotesi sulla conoscenza di questa terzina da parte dell’Ariosto, ciò che importa è la convergenza dei due massimi scrittori di primo Cinquecento su questo tema essenziale per la Weltanschauung di un Rinascimento cosí complesso e profondo, diverso dalla semplice centrale convergenza Bembo-Raffaello.

75 Nelle ragioni complesse di questa aggiunta – la piú lunga e importante rispetto alla struttura narrativa del poema – che complica il finale del Furioso e dà maggior peso al personaggio di Ruggiero (e anche a quello di Bradamante), anche, ma non certo solo per ragioni cortigiane (la coppia da cui discenderanno gli Este), credo di dover indicare appunto la volontà ariostesca di dar vita – seppur con il positivo pratico consenso alle esigenze della realizzata condizione regale di Ruggiero con l’acquisto del regno di Bulgaria – a una prospettiva complicante di rilievo negativo ai pregiudizi dei genitori di Bradamante che negano la figlia a Ruggiero perché privo di regno e povero, anche se eticamente regale, valoroso, virtuoso. Esempio della bivalenza ariostesca fra realistica accettazione e piú personale denuncia dei disvalori ed esempio del piú accentuato pessimismo del Furioso del ’32 su certi disvalori «umani» (in realtà riportati alla condizione del proprio tempo) cui non manca la contrapposizione – in questo lungo episodio ancora tutto da studiare e giustificare al di là di un’impressione tradizionale di maggiore grigiore poetico e quasi di stanchezza dell’ispirazione ariostesca (e certo il ritmo è in genere meno scattante, minore è la vivacità e presenza di immagini e paragoni immaginosi-realistici, visivi e musicali a favore di un maggior prevalere della narrazione, della simmetria dei monologhi: quelli, per altro assai belli e intensi, anche se piú manieristici, di Bradamante e Ruggiero) – della «virtú» portata anzi fino ad un eccesso altruistico (sia in Ruggiero sia in Leone, la cui virtú giunge ad un’outrance quasi melodrammatica: quando vede Ruggiero che sbaraglia il suo esercito invece di provar odio per lui «egli s’innamorò del suo valore», XLIV, 91, v. 3) compensativo delle scelleraggini e delle convenzioni ipocrite e interessate.

76 Poi il motivo della ricchezza, nobiltà, regalità e del giudizio del volgo è ripreso sintomaticamente (a sottolineare il livello della coppia esemplare in contrasto con i devoti dei falsi valori) da Bradamante che sigla la sua eccezionale, esemplare «gentilezza» proclamandosi invincibile nel suo amore per Ruggiero:

Non è ricchezza ad espugnarmi buona,

né sí vil prezzo un cor gentile acquista.

Né nobiltà, né altezza di corona,

ch’al sciocco volgo abbagliar suol la vista [...].

(XLIV, 64, vv. 3-6)

77 Quante volte la poesia ariostesca è stata avvertita nel suo valore di appoggio vitale in momenti di particolare crisi storica! Si pensi, ad esempio, al componimento Ariosto di Mandel’štam che, nel 1933 (nell’incupirsi crescente della situazione italiana ed europea), poteva esaltarne l’energia di vitale intelligenza e sottile saggezza di contro al potere ottuso e mortificante: «Freddo in Europa, buio sull’Italia. / Il potere è ripugnante come le mani di un barbiere. / E lui fa il superiore, piú sottile, piú astuto» (Osip Mandel’štam, Poesie, Milano, Garzanti, 1972, pp. 111-112).

78 Con ciò non si nega che il Furioso risponda ai problemi e alla crisi storica con un incentivo di «piacere» vitale e vitalizzante (senza con ciò prendere alla lettera quanto l’Ariosto scriveva al doge di Venezia circa la sua intenzione di creare un poema – ma scritto «cum mie longe vigilie e fatiche» – «per spasso e recreatione de’ S.ri e persone di animi gentilli e madone», un’opera «in la quale si tratta di cose piacevoli e delectabeli de arme e de amore» che desiderava pubblicare «per solaço e piacere di qualunche vorà e che se delecterà de legerla», 25 ottobre 1515, in Lettere, ed. cit., p. 31; cfr. poi, con parole simili, la nuova lettera al doge del 7 gennaio 1528, in previsione della terza edizione del Furioso, in Lettere, ed. cit., p. 342), ma si nega che questa sia l’unica chiave della grande poesia ariostesca e non invece una componente (pure certo importante entro la complessa «risposta» poetica alla condizione storica ed esistenziale umana) di una complessa forza poetica che ha un suo fondo serissimo e che stimola tutte le forze umane lungi da un semplice edonismo e da un interesse di puro divertimento.