Perugia: la tramontana a Porta Sole (1964)

Perugia: la tramontana a Porta Sole, in Aa.Vv., Umbria, Firenze, Sadea-Sansoni («Tuttitalia»), 1964; poi in W. Binni, La tramontana a Porta Sole cit., edizione 1984 e successive. Il testo è stato ripubblicato in W. Binni, Poetica, critica e storia letteraria, e altri scritti di metodologia, Firenze, Le Lettere, 1993, nella sezione conclusiva «Elementi di una poetica personale».

Perugia: la tramontana a Porta Sole

I miei legami con Perugia, e con l’Umbria, sono solo in parte di sangue, di origine familiare: ché due sole delle mie linee di ascendenza sono umbre e del resto, di fronte ad esse (di antica aristocrazia, a Perugia: i Degli Azzi-Vitelleschi, a Foligno: i Barugi) e alla stessa linea terriera-borghese dei miei piú diretti antenati marchigiani, sono appassionatamente legato soprattutto a quella materna, un’antica e patrizia famiglia marchigiano-romagnola, gli Agabiti, al mio nonno materno, garibaldino a Bezzecca e a Mentana, al mio zio materno pesarese, Augusto Agabiti, infaticabile scrittore di libri-battaglie per i suoi ideali teosofici e umanitari[1]. Comunque Perugia, dove sono nato e vissuto di continuo fino alla giovinezza, ritornandovi poi, a lunghi periodi, fino alla maturità, è certo per me la città fondamentale nella mia vicenda e nella mia esperienza, il luogo concreto cui io posso riferire elementi della mia stessa natura e vocazioni persino del mio gusto, della mia personale poetica: come la vocazione all’intensità forse piú che alla bellezza, o meglio, ad una forza che possa farsi equilibrio e misura, e con ciò bellezza, piú per una sua intensificazione totale che non per una depurazione e uno smussamento.

A questa istintiva, irresistibile preferenza mi piace far corrispondere le sollecitazioni piú profonde della mia città reale e ideale, a cui, da tempo, non so ripensare, alimentandomene, se non richiamando al ricordo anzitutto le sue forme piú severe e possenti, i suoi paesaggi piú scabri ed energici, le sue tinte etrusche-medievali, i suoi toni invernali accesi e illividiti dalla sua implacabile tramontana, per poterne poi richiamare al ricordo anche certe pieghe piú tenere e dolci, certe sfumature piú idilliche ed elegiache, e magari anche certi piú noti slanci carducciani ed eloquenti di vastissimi panorami, che mi diverrebbero stucchevoli e uggiosi se non li sentissi non dominanti, ma parziali impeti di una struttura tanto piú centralmente austera e salda, di una concentrazione di forze potentemente rapprese e poco affabili.

Insomma la «mia» Perugia è assai lontana dalla grazia un po’ dolciastra del Perugino, rifiuta nettamente ogni possibile rappresentazione oleografica e pittoresca, ogni degustazione frammentaria delle sue «bellezze», tesa com’è da una forza centrale unitaria, dalla sua struttura antidescrittiva, dal suo primo accento che è di energia e di costruzione. È una Perugia rivista anzitutto nel suo nucleo piú antico e originario, piú significativo, fra l’accesso meno agevole dal nord (dalla porta di Sant’Angelo e dall’Arco Etrusco) e lo svolgersi di piazze e vie antiche dalla piazza comunale a porta Sole. Qui sorgono alcuni degli edifici piú magnanimi di Perugia, con al centro la grande fontana dei Pisano, nelle cui formelle dei mesi si svolge una delle piú potenti espressioni medievali della vita degli uomini in atteggiamenti essenziali di naturalezza e di civiltà senza enfasi e senza abbandoni, con il loro peso e volume concreto e con la loro dignità e serenità attiva. Qui e nella sua prospettiva sul paesaggio da porta Sole, la città meglio rivela la sua natura, il suo accordo di costruzione e di paesaggio, la sua eccezionale originalità di struttura e di piani che non portano tanto ad una spettacolarità scenografica, quanto all’impressione energica di una dinamica di forze tettoniche e architettoniche articolata e robusta, necessaria e non perciò meno fantastica.

Ché Perugia non è città scenografica e, se è pur bellissima vista dal basso per la sua organicità e ricchezza di livelli articolati piú che geometricamente sovrapposti, meglio e piú la si conosce percorrendola, scoprendone dall’interno le concrete regole costruttive, la necessità funzionale di una sistemazione edilizia che spesso non offre tanto edifici di per sé notevoli quanto compatti nuclei architettonici che assecondano le disposizioni stesse del luogo naturale senza nulla di gratuito e di ornamentale fine a se stesso. Sulle offerte e necessità dei luoghi naturali gli uomini hanno operato senza forzature e mistificazioni, con una fantasia che trovò attrito e slancio creativo nelle condizioni naturali, portando l’integrazione dell’arte ad una scelta di luoghi che era già di per sé un’invenzione, accettando la stessa scabra e ardua disposizione naturale senza falsarla e anzi accrescendone con gli edifici la singolarità e originalità. Ciò fecero soprattutto gli uomini della civiltà medievale e comunale che genialmente assecondarono gli effetti di forza, di energia strutturale, di svolgimento in salita, indicati dagli inventori etruschi che avevano impostato la costruzione della città verso l’alto adatto ai templi e ai fulmini augurali.

Ed è a questa parte della città, da cui si dipartono i borghi verso la pianura, scendendo senza dissolversi e senza frantumarsi, che corrisponde il panorama perugino piú autentico (e per molti visitatori piú inedito rispetto a quello carducciano dalla spianata della Rocca Paolina), ricco di scoscese forre e burroni, di selve, di colli, di monti in cui l’occhio trova l’offerta di un paesaggio piú movimentato, meno educato, piú vigoroso. È il panorama di porta Sole: ed è qui che si respira piú altezza e profondità, è qui che Perugia assume piú spontaneamente l’aspetto invernale e severo che piú la disgiunge da città piú accoglienti, piú agevoli, meno impegnative.

Perché di questa mia Perugia elemento essenziale è anche il suo clima duro e intransigente, la netta prevalenza della intatta forza invernale in cui precocemente si irrobustisce l’autunno e a lungo indugia l’inizio delle tarde e luminose primavere scosse da furiosi ritorni di freddo e di raffiche lunghe e pesanti del «vento del lago», che simulano l’energia virile dell’eroica tramontana invernale.

Sotto l’impulso veemente e severo della tramontana ogni tono di idillio e di dolcezza scompare: le vie vengono spazzate e pulite, disseccate, la pietra degli edifici piú antichi rivela tutta la sua durezza e consistenza, i volti divengono gelidi, petrosi anch’essi, una forza morale e fantastica occupa l’animo imperiosamente e lo sommuove ad impegni e sogni profondi senza abbandoni e senza mollezze. Una volontà ferrea incrudisce l’aria e le cose e le persone, un’alacrità eccezionale investe i veri perugini: dalla loro reazione alla tramontana, dalla gioia che provano nei giorni di tramontana io li riconosco simili a me, che, da ragazzo, in quei giorni, non riuscivo a star fermo in casa e mi precipitavo su a porta Sole, verso le piazze piú solitarie e piú alte, verso la vista scura e nitida (di un nitore acceso da quella aria intatta da ogni scoria di vapore) della gobba massiccia di monte Tezio, del profilo tagliente di monte Acuto, delle linee aspre dei monti di Gubbio, verso il loro varco ad un cielo profondo di azzurro quasi notturno. E mi afferrava un senso di gioia quasi rabbiosa, un impeto di volontà, una tensione di tutto l’essere che in quella situazione naturale estrema intuiva il piacere dei sentimenti assoluti, degli impegni senza riserva, della parola nuda, essenziale, anti-ornamentale. Parlo di me, che amo riconoscere nell’inverno perugino, nella tramontana perugina una prima educazione naturale della mia disperata tensione alla stessa poesia come intensità e forza (e qui si formò il mio amore giovanile per autori rimasti poi paradigmatici nelle mie scelte piú istintive: il Leopardi degli ultimi canti, l’Alfieri di certe rime piú selvagge e aspre, Jacopone e il Montale degli Ossi, certe forme del barocco tedesco, lo Hölderlin dello Streben piú che del Mass); ma parlo certo anche dei miei piú veri concittadini che riconoscono la loro festa popolare piú vera in quel San Costanzo «dalla gran freddura», quando le fanciulle del popolo scendono al responso dell’«occhiolino» del santo (che prometterà loro le nozze entro l’anno) attraverso le strade spazzate dal vento, sfidando lietamente i rigori del pieno inverno, nei giorni della nordica «merla».

Solo chi ha inteso questa che a me pare (e per me è) la radicale natura della città e del suo clima potrà poi apprezzarne convenientemente anche le dolcezze brevi e intense di certe sue prospettive diverse, di certe sue armonie piú primaverili e autunnali, certi suoi luoghi piú riposanti e distesi, certi doni della civiltà rinascimentale, della sensibile e pittoresca civiltà preromantica, dell’agio borghese ottocentesco. Appunto come accenti piú sereni, soavi, idillico-elegiaci in una forte struttura il cui primo accento è la forza. Come la loggetta rinascimentale che fiorisce al sommo del possente e scuro Arco Etrusco, come la facciata umanistica del San Bernardino di Agostino di Duccio dopo le vie medievali dominate dalla torre degli Sciri, come la grazia elegante di certi colli rieducati dagli uomini ad un senso di idillio preromantico e autunnale entro il panorama piú severo e scabro: il delizioso monte Pecoraro con il giro sinuoso dei suoi pini che si estende alla maniera di una canzonetta campestre pindemontiana, il colle del cimitero, che, sul preambolo rude e potente di San Bevignate (da lí forse partirono i primi gruppi di disciplinati), svolge piú dolcemente la sua elegiaca tristezza virile, in cui la morte è singolarmente consolata dalle infinite prospettive paesaggistiche che vi convergono e dalla civile teoria di vaghe stele e colonne e urne di sapore foscoliano e leopardiano.

Anche il senso della civiltà di questa città mi par da comprendere cosí: solidamente impiantata sulle forze di una grande civiltà medievale in cui piú misteriosamente si era risolta l’arcana forza religiosa e pratica degli etruschi e poi, su quella forza, l’arricchimento di moduli parentetici di civiltà meno aspre e robuste, ma intonate sostanzialmente ad un rifiuto del semplice agio e del decorativo fastoso e pittorico. Ché la struttura forte domina in Perugia cosí come la sua storia è fatta soprattutto di impegni duri, di lotte acri, di faticose conquiste civili e militari, di guerre e di ribellioni, di resistenze magari sfortunate che impegnavano tutta la popolazione. Una civiltà concreta e costruttiva, capace di un grande sforzo istituzionale (come fu la creazione di un organismo comunale che ebbe complessità e durata pari a quelle di Firenze e di Siena), ma una civiltà anche faticosamente difesa con atti decisivi di volontà collettiva che segnano profondamente la non facile storia della città.

Prima il rifiuto della dominazione augustea nella rovinosa guerra di Perugia, poi la resistenza ai goti di Totila, poi le guerre di ribellione popolari contro il potere pontificio sino alla disperata guerra del «sale» che pose fine all’autonomia perugina e alla sua storia piú alta, riducendola ad una stanca provincia romana papale. A quei secoli intensi e civili (cosí diversi poi dall’immagine decadente che poté trarne D’Annunzio) risale il segno piú profondo del temperamento perugino, costruttivo, intransigente, che, durante il lungo periodo pontificio, si colorò poi di una certa difesa sardonica, di una diffidenza per ogni retorica e ogni lusinga, che poté giungere sino a forme di apparente apatia e scetticismo.

Ma il fondo piú antico non mancò poi di rivelarsi ancora entro le mutate condizioni storiche: e Perugia fu una delle rarissime città pontificie che, accolte attivamente le nuove idee democratiche, le difese nel ’99 con le armi di fronte alle bande sanfediste aretine. E il suo senso civile e ribelle tornò a farsi luce in quella bellissima pagina risorgimentale che fu il 20 giugno del 1859, quando la città, sola, abbandonata a se stessa, priva di moltissimi giovani che erano andati a combattere in Lombardia, sfidò quasi con una voluta temerarietà le truppe svizzere inviate a riconquistarla e a punirla con il saccheggio e la strage di combattenti e inermi. Quella giornata sanguinosa, che è un importante episodio della guerra di popolo nel Risorgimento, e che ebbe notevole importanza sulle declinanti fortune del potere temporale dei papi (costretti da quella resistenza a impiegare le armi mercenarie contro una città italiana), divenne un punto fermo nella storia moderna di Perugia e ne consolidò il fondo democratico, laico, popolare che rimarrà fondamentale nella fisionomia della città, e che piú facilmente rimase tenace anche dopo, soprattutto negli strati popolari piú autentici e in quei gruppi intellettuali borghesi piú legati alla tradizione del 20 giugno e alla prospettiva risorgimentale democratica.

Di quei popolani perugini, da bambino e da ragazzo, avevo conosciuto, con interesse ancora un po’ curioso e distaccato, le costumanze piú antiche, fino all’uso (ora scomparso) dei «ferraioli» invernali, le modeste ribotte dello «spaghetto» e della «porchetta», le costanti caparbie di un anticlericalismo invincibile (ancora nel 1926 era difficile veder processioni fuori delle chiese a Perugia e proprio in quell’anno il corteo di macchine, con cui un nuovo arcivescovo aveva voluto polemicamente fare solenne ingresso dalla porta xx Giugno, venne bloccato a lungo dai chiodi sparsi sulla strada). Di loro conoscevo le battute antipadronali («il padrone ce l’hanno i cani»), di loro sapevo i ricordi della resistenza lunga all’affermarsi della dittatura fascista e, prima (malgrado il diffuso scontento per una guerra anti-popolare), del coraggioso comportamento nella guerra del 15-18 (coincidenti con la descrizione, forse sin troppo colorita, e con troppa spavalderia, che Malaparte fece di un assalto della brigata Perugia, con quei soldati che andavano all’attacco motteggiandosi, urtandosi, rincorrendosi). Ma meglio compresi poi la loro natura e la loro serietà morale e civile quando, per merito di Aldo Capitini, venni a contatto con molti di loro, che, sullo stimolo della guerra antipopolare di Spagna, riprendevano una vita politica attiva e trovavano nuova forza dal loro incontro con alcuni giovani intellettuali della città e con i numerosissimi antifascisti che in quegli anni venivano a Perugia incontrandosi o nei luoghi solitari della campagna o addirittura spesso nello stesso studiolo di Capitini, nella torre campanaria del Palazzo Comunale, reso sicuro dalla sua stessa ovvietà e centralità.

Con la loro sobrietà antiretorica, con la loro modestia risoluta e fedele, con il loro coraggio composto esercitato, a volte, fino al sacrificio della vita, quei popolani, che erano poi quasi sempre i piú immediatamente esposti alle persecuzioni poliziesche e i piú duramente trattati, mostravano quanto la vecchia città fosse viva e ispiratrice di atti coerenti e degni della sua tradizione piú autentica. La vecchia città non era dunque solo una immagine di bellezza isolata e inanimata, non era la dannunziana città del silenzio gremita solo di foschi ricordi di ferocia e di lussuria, non era città-museo che il futurista accademico Marinetti invitava a recintare e abbandonare per ricrear vita giú nella valle del Tevere. Era ed è una forza e bellezza che chiede, per essere intesa anche come «bellezza», una attiva disposizione e prosecuzione di tensione creativa, di impegni morali e civili.


1 Si vedano su di lui (1879-1918) il profilo scrittone dal Corvino nel Dizionario Biografico degli Italiani, ii, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1960, pp. 357-358, e Ricordo di Augusto Agabiti nel centenario della nascita (scritti di W. Binni, A. Brancati, F. Corvino, S. Mariotti), in «Studia oliveriana», Pesaro, 1984, qui alle pp. 175-184.