di Antonio Tricomi
Per quel che vale ammetterlo, non sono mai stato un lettore molto paziente con Salman Rushdie. Il suo ventriloquo virtuosismo affabulatorio, risultandomi il più delle volte oltranzistico e per certi aspetti anche troppo facile, ha spesso finito con lo stancarmi presto. I suoi espliciti intarsi citazionistici, ricavati da un’ibridazione talora eccessivamente meccanica di cultura alta e cultura pop, hanno in genere sortito su di me l’identico effetto. Con ogni probabilità sono io a sbagliarmi: capita, del resto, di fraintendere, più di altri, anzitutto gli autori con cui non si riesce a entrare in piena sintonia. Ciononostante, Rushdie continua a sembrarmi in primo luogo questo: uno smaliziato mitografo postmoderno le cui narrazioni, palesemente manieristiche, non sarebbe forse un azzardo ritenere compiuti esempi di midcult, in alcuni casi persino seducenti. Essi appaiono infatti inclini a svolgere un quasi mai implicito discorso critico e, di riflesso, a dichiarare obiettivi conoscitivi largamente condivisibili per un lettore, almeno occidentale, che voglia mantenersi ancora fedele alla laica utopia civile in principio elaborata da una peculiare anima dei Lumi: quella realmente persuasa dell’ineludibilità di valori quali la tolleranza e il relativismo culturale.