Questa nostra Costituzione disapplicata eppure viva

Questa nostra Costituzione disapplicata eppure viva

Con il presente fascicolo «Il Ponte» ritorna per l’ennesima volta in trincea per la difesa della Costituzione. Ci teniamo a ricordare che la nostra è una rivista antifascista e resistenziale sin dal concepimento e dalla nascita (aprile 1945) e che alle lotte di resistenza e autodeterminazione dei popoli ha dedicato, specialmente a partire dalla direzione di Enzo Enriques Agnoletti, decenni di impegno intellettuale e militanza attiva (su tutti il Vietnam, la Palestina, il disarmo), coinvolgendo molti tra i piú importanti intellettuali del mondo. E la lotta politica nazionale e popolare per l’attuazione della Costituzione si è sempre afancata a quella internazionale, essendo la nostra Costituzione il frutto politico e culturale piú compiuto della lotta di Resistenza e della conseguente liberazione.

Nella storia repubblicana sono state diverse le «stagioni della Costituzione », come ebbe a scrivere Alessandro Pizzorusso nel 1995: stagioni piú o meno tutte caratterizzate da un travaglio e da un’evidente volontà anticostituzionale e acostituzionale, eccetto il quasi quindicennio di parziale e risicata attuazione, relativamente alle sue parti più esigenti economiche e sociali, che va dal primo (e unico) centrosinistra della storia italiana nei primi anni sessanta fino al 1976-78. Solo in questa ristretta stagione si è potuto parlare di “riforme” nel solco dei valori della Costituzione, così come dei programmi e della cultura politici dei partiti popolari di massa che l’avevano approvata in Assemblea costituente. Finita quella breve stagione si è tornati al travaglio e ai fuochi incrociati di sempre, a opera dei molti nemici, interni ed esterni, della Costituzione, così come dell’antifascismo più conseguente, cioè non liberale, e della Resistenza.

A partire dal 1991, a seguito dei grandi mutamenti epocali avvenuti nello scenario internazionale ed europeo (crollo dell’Urss e degli Stati dell’Europa centro-orientale; approvazione del trattato dell’Unione europea, a Maastricht nel 1992; adozione dell’euro come moneta unica) i nemici della Costituzione, dell’antifascismo e della Resistenza nostrani e di sempre (moderati democristiani e “laici”, fascisti rivitalizzati dal nuovo ordine mondiale e dal nuovo-vecchio sistema elettorale maggioritario 1993-94) hanno cambiato in maniera significativa ruolo e posizionamento politico, ma soprattutto è mutata la loro influenza politica e culturale. Se ancora fino a tutti gli anni ottanta del secolo scorso una certa cultura politica in linea con la Costituzione non trovava adeguata incarnazione nei governi di turno (Dc più partiti laici minori e da ultimo anche i socialisti), tuttavia questa godeva ancora nella società di un notevole credito, grazie agli spazi di libertà e socialità, nella scuola e nei luoghi di lavoro, che erano stati creati nella stagione delle “riforme della Costituzione” negli anni sessanta-settanta.

Nel 1990-91 si aprí nel paese una voragine la cui natura e vastità non poté esser subito compresa, dal momento che molti e concomitanti furono gli epocali eventi politici, internazionali e nazionali, che si saldarono, da cui è scaturita un’involuzione politica in cui siamo tuttora immersi. In sintesi, i vecchi arnesi, i fascisti e i “moderati” di sempre iniziarono a prendersi rivincite, o meglio a mettere in atto la vendetta contro la Costituzione e l’antifascismo, soprattutto contro il costume civile e democratico sociale che la Carta del 1947, sotto l’impulso dei partiti popolari antifascisti, avevano faticosamente edificato nel quarantacinquennio repubblicano. Anche da un punto di vista linguistico venne rovesciato il senso comune delle parole che avevano informato sino ad allora l’agire politico repubblicano: “riforma” fu intesa non più come modifica legislativa o normativa che trasformava in meglio le condizioni di libertà politica, economica e sociale delle persone, bensì come modifica tradottasi in molteplici restrizioni, rinunce, tagli di diritti, insomma in un peggioramento delle condizioni spirituali e materiali delle persone.

La stessa parola “riforma” usata sul piano istituzionale assumeva il medesimo significato di riduzione sistematica degli spazi di libertà e agibilità democratica del singolo e dei gruppi sociali (partiti, sindacati, associazioni) in cui si manifesta e sviluppa il vivere associato. Al linguaggio politico e democratico, frutto di una continua tensione tra politica e cultura, si sostituisce gradualmente un linguaggio gergale ed economicistico-aziendalistico, di matrice rozzamente liberal-liberista, che da lí a poco fa tabula rasa di ogni pensiero e pensare complesso, articolato, come è proprio della politica. L’economicismo liberal-aziendalistico, nucleo centrale del modo di produzione e distribuzione capitalistico, ha espunto progressivamente la politica e la filosofa dal panorama sociale, considerandoli spine nel fianco della normalizzazione in atto, a meno che non si tratti, in parte, del pensiero archeo o ultra-liberale.

Ma se la cultura e la politica si ritirano o si impoveriscono, la Costituzione, storicamente e concettualmente intrisa di politica (e cultura democratica) soprattutto a partire dal costituzionalismo sociale post-Seconda guerra mondiale, muore di asfissia, vede mancare il terreno su cui muoversi e sviluppare i suoi grandi valori e principi universali. La politica degradata a rozza amministrazione liberale dell’esistente, sulla spinta dei grandi mutamenti del capitalismo mondiale (individualismo spinto e atomizzazione della società; neoliberalismo e neo-mercifcazione di tutti i beni materiali e immateriali; asservimento degli Stati e di ogni spazio pubblico e sociale al proftto e alle regole dell’economia aziendalistica; potere soverchiante delle grandi società private multinazionali; guerra come strumento ordinario di politica internazionale con riconferma dello stato di natura hobbesiano ed hegeliano) ha provocato nel nostro paese una perdurante lotta: tra il potere istituzionale in mano alle diverse oligarchie, economiche e politiche internazionali quali Nato-Otan, a cui si aggiunge la tecnocrazia euro-europea con tutti gli apparati connessi quali Commissione, Bce, Ecofn e molte altre soggettività aventi natura di trattato internazionale (Fiscal compact, Six pack, Two pac, Mes); e un popolo sempre piú smarrito, confuso e purtroppo vieppiú sprovvisto degli strumenti di analisi minimi a seguito di un trentacinquennio di spoliticizzazione di massa. Ma mai vinto.

Anzi, se riguardato più da vicino, quel popolo che si contrappone al potere come massa indistinta e fragile, perché privata degli strumenti di interlocuzione tradizionali (in primis i partiti), per altro verso si rivela come moltitudine di persone e comunità che in modo capillare stanno assumendo un ruolo di fatto significativo sul piano della difesa concreta della Costituzione, o meglio dei suoi valori.

In una prospettiva che va ben al di là della ambigua dimensione della resilienza, privata dal lessico politico delle sue implicazioni resistenziali e ridotta surrettiziamente a capacità di adattamento, persone gruppi e comunità si stanno muovendo concretamente nella direzione di un’attuazione “diretta” dei principi fondamentali della Costituzione, nella disattenzione di una politica nazionale che sembra determinata a mantenere lo sguardo piantato altrove anziché sul proprio territorio, salvo quando si tratti di introdurre riforme destinate a smembrarlo ulteriormente (come oggi il disegno di riforma sul regionalismo differenziato, ma già in passato vari aspetti della riforma del Titolo V).

Nella sua parte economica, la Costituzione parla di comunità di lavoratori e di utenti, di partecipazione dei lavoratori alla gestione delle aziende, di lavoro come forma di emancipazione individuale e sociale, di partecipazione “effettiva” dei lavoratori alla “organizzazione” non solo politica ma anche sociale ed economica del paese. Le comunità di utenti, le imprese energetiche, le imprese di comunità per la produzione e distribuzione di beni e servizi di interesse generale, sacrificate dalla progressiva apertura al mercato in favore delle grandi imprese capitalistiche, si stanno nuovamente diffondendo, attuando concretamente i principi della cooperazione economica.

I movimenti di protesta che si oppongono agli efetti piú nefasti delle politiche economiche o del territorio fondano le ragioni dei propri no sul senso piú autentico e incontestabile di quei principi. I confitti di prossimità sulle grandi opere (alta velocità, impianti inquinanti, ecc.) reclamano innanzitutto l’interlocuzione con le comunità e i territori coinvolti, come richiesto da un tardivo e timido Codice degli appalti che solo nel 2016 ha introdotto in Italia il dibattito pubblico ma che è di fatto disapplicato. La protesta dei lavoratori della Gkn reclama il diritto sancito costituzionalmente di acquisire la gestione di un’azienda la cui delocalizzazione provoca un danno occupazionale immane.

I patti di collaborazione per la cura dei beni comuni, introdotti dai Comuni con i regolamenti sull’amministrazione condivisa in attuazione diretta del principio di sussidiarietà orizzontale, stanno diventando vero e proprio strumento politico di costruzione di Stato sociale dal basso. O meglio, di un pubblico sociale non statuale, in quanto fondato sulla necessaria collaborazione delle persone e delle comunità con le amministrazioni locali, sempre piú spesso lasciate sole in trincea con gli abitanti a fronteggiare le vecchie e nuove fragilità. L’evoluzione dei patti dal 2014 (anno dell’approvazione del primo regolamento a Bologna) a oggi parla chiaro: dalla cura degli spazi verdi e dalla riqualifcazione di immobili, si è rapidamente alzato il tiro verso l’inclusione sociale, il recupero e il riutilizzo di beni confscati alla mafa, l’inserimento lavorativo, la lotta al caporalato, la lotta al disagio giovanile e al degrado delle periferie, l’assistenza sociale, l’educazione. Non solo, sfatando i sospetti di un buonismo paternalista legato a certe retoriche falsamente solidariste, i patti vanno mostrando le proprie potenzialità anche in termini di strumento di governo del confitto sociale, offrendo un’intelaiatura di strumenti e percorsi in cui amministrazioni locali e gruppi possono cercare di incamminarsi per leggere (e non negare) le ragioni del dissenso.

La cura del bene comune, attuazione concreta del principio costituzionale di solidarietà economica, politica e sociale, sta di fatto diventando il grimaldello di micro-riforme a livello locale, per affermare un diverso modello di governo delle vite. Ben lungi dalla retorica “piccolo è bello”, e da quella che riconduce la cura dei beni comuni essenzialmente al “decoro” urbano, attraverso i patti intere comunità si stanno riappropriando della missione di un pubblico non statuale che rivitalizza a sua volta il principio di autonomia locale, quale dimensione di esercizio delle libertà anziché mera formula di articolazione territoriale del potere.

Se il concetto di “bene comune” doveva affiancarsi a quelli di bene pubblico e bene privato per indicarne e valorizzarne la destinazione a prescindere dalla proprietà, ebbene oggi esso sta diventando sinonimo di un pubblico non statuale che va prendendo forma a macchia di leopardo sul territorio italiano, raccogliendo la missione sociale sempre più dismessa dal pubblico statuale. Ma anche molto altro si muove in questa direzione. Orti urbani, portinerie di comunità, case del quartiere, ecc.

Anche tutto questo è politica. Nella lotta di cui si diceva più sopra, fra un potere nazionale che vanta l’alleanza con (ma anche la sottomissione ai) poteri sovranazionali e finanziari e un popolo che sempre più patisce il peggioramento complessivo delle condizioni di vita, quest’ultimo va opponendo proposte divergenti di governo dei territori e delle vite di fatto fondate sui valori della democrazia sociale, sia nelle proteste che nelle azioni concrete; spesso appropriandosi anche di scampoli di giuridicità che riescono a farsi strada oltre le previsioni originarie e a consolidarsi quali pezzi di un vero e proprio nuovo “diritto dei territori” (come le leggi regionali che vanno approvandosi sull’amministrazione condivisa, dopo l’esperienza ora decennale avviata dai regolamenti comunali).

Anche queste sono riforme, ma orientate dalla tensione verso il miglioramento continuo delle condizioni della società voluto dai Costituenti (la «eccedenza dinamica» della Carta costituzionale di cui parlava Rodotà), il cui sviluppo naturale sarebbe la loro ricomprensione all’interno di una pianifcazione- programmazione economica nazionale (in linea con gli artt. 3, II comma, e 41, II comma, Cost.). Queste riforme trovano alimento dal basso, non raggiungono i clamori delle riforme costituzionali, ma modificano radicalmente alcuni assi fondanti del sistema normativo tradizionale, come quello dell’agire unilaterale e verticistico delle amministrazioni.

Il patto è sinonimo di alleanza. E, di là da ogni retorica, è innanzitutto di alleanza che si nutre ogni forma di resistenza. Quella in atto nei territori è piú spesso assimilabile alla resistenza che alla (piú abusata) resilienza. Una resistenza che non imbraccia le armi ma che si oppone o elabora strategie di solidarietà plurale effettiva.

Sebbene questi fenomeni territoriali siano, appunto, localizzati in singole parti del territorio, la loro capillarità e diffusione crescente, dal Sud al Nord, e soprattutto la loro omogeneità sul piano dei valori del costituzionalismo sociale, dice qualcosa che non può essere ignorato: la Costituzione è viva, è rivendicata nei fatti più che proclamata nelle parole, ed è attuata concretamente in situazioni molteplici.

L’impegno dei giuristi, degli economisti e degli altri scienziati sociali, è far sì che tutte queste realtà, già connesse in rete fra di loro, possano essere sussunte in una pianificazione politica nazionale: una nuova visione di democrazia economica e sociale, improntata al medio e lungo periodo anziché appiattita sulla normalizzazione dell’emergenza (come il Pnrr). Solo in tal modo si potrà costituire un argine reale alle politiche liberiste e tecno-finanziarie, sconfessandone i valori e contrastandone gli effetti.

Questo impegno deve riguardare già l’immediato presente, a partire dagli attacchi in essere al testo della Costituzione nei disegni di revisione della forma di Stato e di governo.

Questo ennesimo attacco si inquadra nella schizofrenia “riformista” che ha portato a ben due referendum costituzionali nell’arco di un decennio (2006 e 2016) a seguito di un ultratrentennale attacco sistematico alla Costituzione del 1947. Attacco dall’alto, dalle istituzioni e dai partiti, che non hanno piú alcun legame, né storico né tantomeno politico-valoriale, con la Costituzione dei Terracini, Togliatti, La Pira, Basso, Nenni, Mortati, Dossetti, Moro, Binni, Calamandrei, Codignola e di tutti coloro che lottarono con le armi e le idee per edificare una società radicalmente diversa da quella fascista e da quella liberal-capitalista che l’aveva preceduta e fecondata. Con la stagione politica iniziata nel 1990-91 si è aperto il grande cantiere politico ed economico per riportare l’Italia e l’Europa a prima del 1929, cioè al capitalismo libero da ogni laccio e lacciolo, il contrario del costituzionalismo sociale post-Seconda guerra mondiale e particolarmente lontano dalla nostra Costituzione (su tutto la privatizzazione delle più importanti società pubbliche dell’energia, siderurgia, credito e assicurazioni, militari, manifatturiere, e la svendita del loro controllo alle multinazionali private).

Le due forze contrarie non sono componibili, né politicamente, né economicamente, né culturalmente: occorre impedire che quella liberal-capitalista e neo-autoritaria riesca infine a prevalere, scongiurando che permanga un simulacro liberale della Carta, formalmente in vigore ma la cui prima parte (artt. 1-54) e soprattutto la parte dei “rapporti economici” (artt. 35-47) risultino definitivamente e integralmente disapplicate. Un fine politico, quello di ridurre la Carta a mero simulacro liberale, che è caro a molti benpensanti, “politicamente corretti”, portatori di un revisionismo permanente che ha ormai fallito ogni proposito di modernizzazione democratica del paese, così tanto sbandierato.

In questa nuova fase di preparazione allo scontro per il terzo referendum costituzionale, nella logica oppositiva, più o meno consapevole, sopra accennata, prendiamo le mosse da due articoli di Alessandra Algostino e Massimo Villone, aventi a oggetto rispettivamente l’esperienza democratica e sociale del Centro sociale Askatasuna e del tentativo di addivenire a un patto di collaborazione con il Comune di Torino, e il progetto di cambiamento della forma di Stato e di governo a opera del governo Meloni.

Ci pare che questi primi due articoli descrivano molto bene la situazione schizofrenica in cui versano la politica e la società italiane. Con questo intento, di affiancare riflessioni che guardino alle istituzioni e alla società, alla politica nazionale e a quella locale, proseguiremo il confronto nei prossimi numeri.

Roberto Passini e Alessandra Valastro

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