Il mediterraneismo di Camilleri

Andrea Camilleridi Francescomaria Tedesco

[Per un ricordo di Andrea Camilleri pubblichiamo questa nota sulla sua opera]

Racconta in più luoghi Andrea Camilleri, non ultimo in un dialogo di qualche anno fa con Tullio De Mauro, di essere sempre stato interessato al metodo usato da Giovanni Falcone per gli interrogatori dei mafiosi. Pare, stando a Camilleri a cui lo avrebbe detto il magistrato del pool Giuseppe Di Lello, che Falcone interloquisse con i suoi interrogati in dialetto, in modo da mettersi “a pari” loro, ragionando su un terreno comune, con codici condivisi. Uno volta, dice Camilleri, fu “scornato”: «Doveva interrogare un mafioso, un certo Pino Seddio ’ntisu ’u Piddaru, cioè soprannominato il Conciapelle. Quando entrò gli disse: “Senti, Pino ’u Piddaru, io ti volessi addimandare…”. E l’altro disse: “Fermo signor giudice, io mi chiamo Pino Seddio, e da questo momento in poi si parla in italiano”». Elias Canetti a un certo punto di Massa e potere1, e precisamente nel paragrafo intitolato «Afferrare e incorporare», descrive l’uomo che non è abbastanza forte da catturare la preda: «Il suo inseguimento, di per sé abile e appropriato, finisce per complicarsi in sommo grado. Spesso l’uomo ricorre alla trasformazione, che è suo talento peculiare, e imita accuratamente l’animale cui mira. Vi riesce così bene da ingannare la preda. L’uomo dice all’animale: “Io sono uguale a te, io sono te stesso. Puoi lasciarmi avvicinare”» (p. 244). Canetti chiama questo stratagemma “lusinga”, e più avanti, nella parte dedicata alla metamorfosi, spiega che essa in qualche modo si fonda su una separazione tra esterno e interno: pelli, corna, andatura, voce, simulano e imitano al fine di colpire la preda. Ma non siamo sicuri che in Falcone si trattasse di questo: Falcone era al contempo interno ed esterno rispetto al sicilianità dei suoi interlocutori. Tanto da condividere un certo modo tutto meridionale di parlare delle mafie, con un misto di orrore e compiacimento, come colui che sia andato all’inferno e che racconti il proprio viaggio agli spaventatissimi astanti forestieri. Si tratta di un modo molto tipico, che riscontriamo per esempio anche nel modo macho di narrare, soprattutto dal vivo, di Roberto Saviano.

Ma tornando alla lusinga, ecco il metodo di Falcone narrato da Camilleri: coprirsi della facies sicula, o meglio usarne la maschera – ché come si sa, nel teatro la maschera camuffa la voce – per meglio avvicinarsi alla preda. Dirà Falcone: «il nostro lavoro di magistrati consiste anche nel padroneggiare una griglia interpretativa dei segni. Per un palermitano come me, rientra nell’ordine naturale delle cose»2. Ed ecco, però, la mossa del cavallo: Pino Seddio che scopre la lusinga, e si mette in guardia. Il dialetto, per Camilleri come per Leonardo Sciascia, ha una sorta di potere veritativo; chi parla in dialetto dice la verità. Al maxiprocesso, Totuccio Contorno parla in dialetto. Ecco cosa ne dice Sciascia nel 1986: «mi è rassicurante, in ordine alla verità (una verità, beninteso, non giudiziaria ma, a dirla approssimativamente, “letteraria”), il dialetto di Contorno. Ho il sospetto che, se volesse, Contorno potrebbe esprimersi in un italiano alquanto pittoresco, alquanto approssimativo, ma passabile, ma comprensibile; e che la sua scelta di esprimersi in dialetto sia principalmente strumentale ai fini del processo. Ma è anche una scelta passionale e ideologica, nel senso che vi hanno parte l’urgenza vendicativa e l’ideologia “sicilianista” ormai evidente in quel che Pitrè chiamava il “sentire mafioso”»3.

È stato proprio Camilleri a descrivere quello stratagemma come “mossa del cavallo”. Il personaggio dell’omonimo libro – recentemente trasformato in uno sceneggiato televisivo andato in onda su RaiUno – è testimone involontario di un omicidio, si precipita a denunciare la cosa, ma viene incastrato e accusato a sua volta dell’assassinio. Per uscirne userà la mossa del cavallo. Egli è infatti, nella fantasia di Camilleri, un giovane nato a Vigata da genitori di là, ma quando aveva tre anni la famiglia si trasferisce a Genova, così Giovanni Bovara, questo il nome del giovane tornato nei luoghi aviti per fare l’ispettore dei mulini, parla italiano con un forte accento genovese. Ma quando si vede “incastrato”, e proprio in ragione dell’ostilità che gli deriva dal dover far rispettare l’odiosa tassa sul macinato, subisce una metamorfosi e riscopre il dialetto dei suoi genitori. Per difendersi parlerà siciliano. E se la caverà.

Camilleri ha tratto spunto, per questa storia, da un fatto realmente accaduto e narrato da Leopoldo Franchetti nei suoi appunti su Politica e mafia in Sicilia del 1876 (pubblicati poi da Bibliopolis di Napoli nel 1995). Franchetti narrava così la vicenda:

A Barrafranca due giorni fa furon tirate due fucilate in campagna a un prete ricco, corrotto, prepotente, odiatissimo in paese. Circa 60 metri lontano dal luogo dove cadde il prete stava un torinese venuto in Sicilia da pochi giorni come ispettore di molini (macinato). Questi voltava la schiena al prete. Al rumore delle fucilate si voltò e corse verso il prete il quale prima di morire gli disse: «M’ha assassinato il tale, mio cugino». Il torinese montò a cavallo e corse al paese a raccontare il fatto alla stazione dei carabinieri […] e sulla sua strada a tutti raccontava l’assassinio e la rivelazione dell’assassino. Il prete aveva da 12 anni una lite col cugino che l’assassinò, vi era fra loro forte inimicizia; 24 ore dopo era stato arrestato come presunto autore dell’assassinio il torinese stesso e fra i testimoni a suo carico era il cugino stesso assassino del prete e tutto il processo s’informava su questa via mentre il paese intero e i comuni circonvicini dicevano sotto sotto chi era l’assassino.

Il prete assassinato si chiamava Andrea Vasapolli. Il cugino assassino Eugenio Vasapolli. Il verificatore dei mulini era un piemontese di Moncalieri di nome Francesco Costero. Alla fine Eugenio venne scoperto e condannato a 15 anni di lavori forzati. Nella finzione camilleriana, come detto, Bovara è sì “nordico”, ma di origini vigatesi, e conosce il dialetto locale, a cui può “convertirsi” nel giro di una notte per salvarsi. In altri termini, l’ingiustamente accusato riesce a scagionarsi attraverso il ricorso a una componente dell’identità siciliana che gli era rimasta appiccicata grazie alle sue origini. Ed è singolare che questa fantasiosa soluzione, figlia delle suggestioni che a Camilleri derivano dai racconti di Di Lello, scaturisca dalla rielaborazione di un fatto narrato da un Franchetti, che invece pensava l’esatto contrario, ovvero che a salvare il Sud sarebbe stato il Nord. Franchetti, “calato” al Sud, verrà poi dipinto come un meridionalista illuminato, un eroe della scienza, uno storico avvertito, un padre fondatore dell’Italia unita. Tuttavia, come ha dimostrato una certa pubblicistica, tra cui possiamo annoverare i lavori di John Dikie4, e Nelson Moe5, Franchetti fu esponente di una visione del Sud come arretrato e bisognoso di un intervento che lo salvasse da se stesso; una visione molto diffusa, che giocava con lo stereotipo dell’arretratezza, della barbarie, dell’inciviltà dei popoli meridionali che abitavano ciò che i gesuiti avevano definito le “Indie di quaggiù”, dei luoghi selvaggi dove andare a fare pratica prima di partire per recarsi a evangelizzare le Americhe abitate dagli altri “selvaggi”. I meridionali sono tutti levantini, furbi, allusivi, irrazionali. Si sarebbe detta una forma di “orientalismo”. Di che si tratta è noto ai più: la parola, destinata a designare una disciplina accademica, ha preso a indicare tutti quei fenomeni di esotizzazione e alterizzazione messi in luce da Edward Said nel suo ormai classico Orientalism, pubblicato nel 1978. In quel libro, Said denunciava il ruolo delle scienze e delle arti nell’inferiorizzare l’Oriente attraverso pratiche discorsive che impiegavano una ricostruzione di esso come oscuro, esotico, ferino, irrazionale, e naturalmente per ciò stesso contrapposto all’Occidente apollineo, solare, patria dei diritti e culla della civiltà. L’Europa, dopo aver fatto il giro lungo ed essersi appoggiata all’antropologia, che ha fornito a lungo un appiglio teorico all’inferiorizzazione dell’altro allo scopo di costruire la propria identità in termini oppositivi, si è ripiegata su se stessa cercando al proprio interno quelle stesse sacche di irrazionalità e arretratezza che aveva attribuito all’altro. A farne le spese, il Sud e il Mediterraneo come luoghi “orientali”, per l’appunto, con tutte le caratteristiche tipiche dell’Oriente molle, indolente e barbaro che Said aveva studiato. Orientalism in One Country è il sottotitolo di un libro, curato da Jane Schneider, il cui titolo è Italy’s “Southern Question”6 Orientalismo in una nazione, ovvero una forma di inferiorizzazione ed esotizzazione (o meglio inferiorizzazione per erotizzazione) che servisse a costruire l’identità di un’Europa razionale contrapposta a un Mediterraneo come ventre, utero di una civilizzazione che poi si sarebbe maturamente sviluppata altrove.

Dentro questo paradigma si muovono molti autori della tradizione meridionalista italiana, oltre che della pubblicistica e della politica nazionale e internazionale. Tra i molti esempi che si potrebbero fare, mi sia consentito di menzionare soltanto il Nino Bixio che scrive a Cavour per chiedergli di ricordare a Costantino Nigra che i napoletani «sono degli orientali, non capiscono altro che la forza». Fatte le debite proporzioni, questo filone è stato (ed è) ricco. Per Franchetti, la Sicilia era caratterizzata da omertà e violenza. Ma è inutile ripercorrere adesso quelle tesi, criticate nei testi menzionati e in molti altri (per esempio quelli di Salvatore Lupo). La domanda è: cosa c’entra Franchetti con Camilleri, a parte la pressoché irrilevante questione dell’ispirazione del secondo da un fatto narrato dal primo?

Il punto è che lo sceneggiato che ha dato corpo al racconto dell’autore siciliano (e del quale Camilleri è uno degli autori) è, a partire dal titolo (C’era una volta Vigata è un calco di C’era una volta il West, e il film in effetti, già dalle musiche, è una sorta di western, anzi un cannoli western), dentro quella tradizione che guarda al Sud con l’occhio settentrionale del sottosviluppo e dell’arretratezza. Bovara incarna peraltro il tipo dell’“esule”: tutto intorno a lui è rozzezza e inferiorità, e il suo arrivo è subito caratterizzato dallo scontro con l’indolenza meridiana, con l’ottusità delle burocrazie locali, con il favoritismo e il familismo. Egli è un “esule”, e perciò coltiva il tipico rapporto di odio e amore che è stato illustrato proprio in quella pubblicistica meridionalista a cui Franchetti non era affatto estraneo. Questi esuli, figli del Sud che contribuivano a diffonderne l’immagine nei termini dell’inferno abitato dai diavoli di cui si parlava più sopra, descrivevano il Meridione come «una babilonia»7 e teorizzavano ciò che, mutatis mutandis, troveremo anche in Gramsci: sarà il Nord a risolvere la Questione meridionale. Tuttavia, per intellettuali come Franchetti, il Sud non era neanche capace di collaborare alla propria salvezza, e rilevava così la responsabilità delle classi dirigenti settentrionali che si sarebbero dovute far carico di questo “fardello”. Ed è vero che Bovara si salva facendo ricorso al dialetto locale, ovvero attingendo a un forte elemento identitario siculo, ma in esso risuona quella contrapposizione tra sfruttati e potenti, in cui le classi inferiori del Meridione sono sì barbare, ma “buone”. Massari, meridionale “piemontesissimo” (o, come spregiativamente veniva appellato al Nord, “piemontesizzato”), recandosi a Napoli intravvedeva la docilità e la bontà della plebe, mentre denunciava con forza la corruzione delle classi dirigenti locali. Certo Bovara non è uno sfruttato: egli è un ragioniere, per di più cresciuto in Liguria; un funzionario. Eppure diventa un povero cristo vittima delle angherie delle consorterie locali che lo incastrano.

Ecco, questa narrazione (il libro, ma soprattutto il film, posto che i due prodotti possano essere così nettamente separati) delle due forme di mediterraneismo di cui ho altrove parlato. Ma cos’è il mediterraneismo?

Il mediterraneismo è, già a partire dal termine che riprende quell’-ismo, un calco dell’orientalismo di Said. Con esso si intendono indicare quelle forme di orientalizzazione ed esotizzazione che lungi dal guardare a Oriente, riconoscevano nel Meridione d’Italia e nel Mediterraneo in generale proprio i caratteri tipici dell’Oriente. Ma del mediterraneismo esistono due tipi: uno è quello appena descritto, e che indica la costruzione dello stereotipo di un Sud arretrato, ctonio, pigro e recalcitrante alle regole e al diritto (e anzi saldamente fedele a forme pre- o anti-giuridiche di risoluzione delle controversie). Esso è stato prodotto attraverso una costellazione di opere e ancora oggi è assai vivo, essendo passato attraverso la letteratura, il cinema, la fiction, la politica, e così via. Tuttavia esiste un’altra, e più sottile, forma di mediterraneismo, una sorta di mediterraneismo in reverse, che rovesciando lo stereotipo, capovolgendo lo stigma, fa di quegli elementi negativi (il familismo, il favoritismo, la corruzione, l’indolenza, la passione per la rendita garantita, la lentezza, l’irrazionalità e la passionalità) dei punti di forza da rivendicare con orgoglio.

La letteratura ha contribuito, come si diceva, a entrambe le forme di mediterraneismo. Si pensi, solo per fare un esempio, alla Napoli a occhio nudo del 18778 descritta da Fucini, in cui la città è una sorta di Costantinopoli, ma l’analogia viene fondata non sulla base dell’osservazione diretta, bensì su ciò che Fucini aveva ricavato da altra letteratura (per esempio da De Amicis); oppure al Du Camp amico di Flaubert che, accompagnando la spedizione dei Mille, descrive una Calabria misera e orientale in cui tutto è molle, violento, “orientale”. E questo per stare al mediterraneismo del primo tipo, e potremmo trovarne esempi ulteriori anche oggi. C’è poi il mediterraneismo orgoglioso, che rivendica l’indolenza e la lentezza del mare tra le terre come forma di resistenza alla velocità del capitalismo oceanico. Non ho qui modo di entrare nei dettagli di questa elaborazione di un Sud “arretrato” ma orgoglioso della propria condizione (e devo rinviare al mio Mediterraneismo. Il pensiero antimeridiano)9. Basti qui ricordare che quella forma di mediterraneismo ha trovato sponda teoretica nella produzione di autori tra i quali è possibile rintracciare, come più eminente esponente del movimento, quel Franco Cassano autore del Pensiero meridiano10 Da allora è stato un susseguirsi di libri, festival, riscoperte e revival, in cui gli elementi folklorici del Sud – dalla pizzica al vino “primitivo” – diventavano le armi di una reazione da un lato alla inferiorizzazione del Sud, dall’altro a un certo meridionalismo sviluppista e/o lamentoso e querulo.

Ha scritto Brian Moloney che se alcune opere letterarie «hanno cercato da un lato di indebolire o distruggere taluni stereotipi letterari sul Sud o sull’Italia rurale» attuali ancora oggi “«dall’altro lato hanno corso il rischio di assoggettare il Sud a un altro, più sottile progetto di “orientalizzazione”»11. Orbene, la produzione di Camilleri, tra letteratura e fiction, a mio avviso partecipa di entrambe le tendenze. Se da un lato Camilleri si è sforzato di rappresentare un Sud che non fosse la riproposizione macchiettistica di certa letteratura – mafia, mandolino, vedove e corna – dall’altro egli ha rinforzato certe tendenze nei due modi del mediterraneismo: da un lato, l’arretratezza del Sud vista dall’“esule” (ché esule è una condizione dell’anima, non una posizione geografica: in fondo, anche lo stesso Montalbano è un esule in patria), dall’altro una sorta di orgogliosa accentuazione di una certa sicilianità, che non ha bisogno di ricorrere alla immarcescibile immagine mafiosa tutta coppola e lupara per risultare comunque stereotipata.

Il cannoli western messo in scena a partire dalla Mossa del cavallo è l’esempio del mediterraneismo del primo tipo, quello dell’arretratezza: il Sud è un Far West, il confine estremo della civiltà, quello in cui le regole del diritto sono saltate e vigono i codici dell’onore e della violenza poiché si tratta di una terra “lontana”, esotica, di conquista, dove il più forte ha la meglio. Ma anche Montalbano, in fondo, è un prodotto mediterraneista. E lo è nella misura in cui da un lato esso rincorre certo figurinismo, ma anche perché si inserisce in un complesso gioco letterario in cui la letteratura “meridionale”, per sfuggire dal bozzettismo, deve iscriversi entro una sorta di “spazio bianco”. È difatti esistita, in Italia, una stagione nella quale la letteratura poteva essere definita “meridionale” perché produceva da se stessa una sorta di “riserva indiana” alla quale gli scrittori del Sud potessero ascriversi auto-etnograficamente per avere cittadinanza nella repubblica delle lettere. In altri termini, se volevi che un editore prendesse in considerazione il tuo lavoro, dovevi descriverti come appartenente al genere: scrittori del Sud. Attorno a questo tema si è dipanato un intenso dibattito, grosso modo nei due decenni precedenti. Esso si è polarizzato attorno a due nuclei teorici, due posizioni contrapposte: la letteratura meridionale non solo ha una propria specificità, ma essa ha una funzione contestativa e critica contro l’omologazione settentrionale e rivendica la propria “sudicita”; al contrario, la letteratura del Sud deve abbandonare gli stilemi della produzione “meridionale” perche meglio omologati che terroni obbligati a raccontare solo di corna, omicidi e comari.

Camilleri pare muoversi dunque fra queste due alternative: da un lato il Sud dell’arretratezza, del West, della barbarie, il cannoli western; dall’altro invece un Sud che ribalta «in positivo le immagini che avrebbero dovuto inchiodarlo”, come ha scritto Francesco Erbani12. Tuttavia, per compiere questa seconda operazione, ovvero voler disincagliare i racconti da quel meridionalismo «inquadrato nelle fila di una letteratura nazionale che a esso appaltava e appalta poche e precise istanze linguistiche e sociali» (come ha scritto, con riferimento ad altri testi, la Giovanna De Angelis13) il Montalbano (sia quello letterario che quello televisivo) ha giocato la carta dello “spazio bianco”, dove lo scopo di evitare il bozzettismo meridionalistico viene perseguito collocando le storie dentro spazi chiusi (stanze, balconi, camere d’albergo, e cosi via), e anche questa risulta un’ambiguità che è però proficua e significativa al di là delle spontanee osservazioni che suscita (è possibile essere scrittori solo dentro lo spazio – bianco – che toglie i riferimenti geografici del Meridione), poiché contrasta con quei vessilli di meridionalità che invece abbondano nella letteratura topograficamente caratterizzata nonché, come avremmo visto qualche anno dopo, con certo cinema esotizzante: «il santino attaccato al frigorifero, la povertà insistita o la ridondanza barocca degli arredi, i barattoli di caponata in dispensa»14. Come non pensare appunto al Montalbano televisivo, con tutto il corredo di interni ed esterni senza tempo, di arredamenti “tipici” di un generico Sud rimasto ai tempi delle nostre nonne, con la bella credenza di una volta, il pavimento di maiolica, l’assenza della plastica, la “stanza dello scirocco” e neanche un mobile Ikea?

1 Milano, Bompiani, 1988.

2 G. Falcone, M. Padovani, Cose di Cosa Nostra, Milano, Rizzoli, 2012, p. 51.

3 L. Sciascia su «L’Espresso», ora in Id., A futura memoria (se la memoria ha un futuro), Milano, Adelphi, 2017, pp. 109-110.

4 J. Dikie, Darkest Italy. The Nation and Stereotypes of the Mezzogiorno, 1860-1900, New York, St. Martin’s Press, 1999.

5 N. Moe, Un paradiso abitato da diavoli. Identità nazionale e immagini del Mezzogiorno (originariamente per University of California Press nel 2002, tradotto poi dall’Ancora del Mediterraneo di Napoli nel 2004).

6 Oxford, Berg, 1998.

7 Cfr. C. Petraccone, Le due civiltà. Settentrionali e meridionali nella storia d’Italia, Roma-Bari, Laterza, 2000, p. 43.

8 Poi Torino, Einaudi, 1976.

9 Milano, Meltemi, 2017.

10 Roma-Bari, Laterza,1996.

11 Italian Novels of Peasant Crisis, 1930-1950. Bonfires in the night, Portland (OR), Four Courts Press, 2005, p. 14.

12 I nuovi scrittori partono dal basso, «la Repubblica», 27.10.2000, p. 55.

13 G. De Angelis, Disertori. Sud: racconti dalla frontiera, Torino, Einaudi, 2000, p. 212.

14 G. De Angelis, op. cit., p. 216.

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