La mostra «Nonostante il lungo tempo trascorso»

di Luca Baiada

La mostra Nonostante il lungo tempo trascorso. Le stragi nazifasciste nella guerra di Liberazione, merita qualche osservazione, anche perché al Vittoriano è finita ma sembra che sarà riproposta altrove.

Grandi pannelli, teche e una decina di schermi digitali. La visita è disturbata da un’altra decina di postazioni video, molte senza titolo, dove scorrono in continuazione registrazioni col sonoro; collocate troppo vicine, il raccoglimento necessario al tema ne esce malmesso. Sul contenuto, cominciamo dalle questioni più evidentii.

Nelle teche ci sono oggetti e documenti ma le didascalie sono scarse o nulle, gli accostamenti discutibili, certe scelte arbitrarie. Non si possono mettere fra bandiere e cimeli i diari di prigionia, insieme alle medaglie e alle frecce dei pennoni, e poi la bambola di una piccola vittima e gli orologi rotti durante i massacri, e ancora, sempre sotto le bandiere, il fazzoletto sforacchiato, sigarette, pezzi della corda che legò i fucilati, una camicia insanguinata, la sciabola di un caduto. Ogni oggetto ha un peso, ma alcuni dicono lo strazio di un inerme, altri la scelta o la fermezza; altri ancora, forse, semplicemente il lutto per chi resta; dall’insieme esce un misto di chiasso e mutismo, un senso di confusione che si supera a fatica, per concentrarsi con rispetto su storie e persone. C’è anche il vestitino di Emma Di Veroli, due anni, catturata nella razzia degli ebrei di Roma il 16 ottobre 1943 e assassinata ad Auschwitz. Lo sterminio degli ebrei e lo stragismo nazifascista a volte sono sovrapponibili, per esempio alle Fosse Ardeatine, ma un accostamento fatto così, per indumenti sotto un vetro, è poco serio. Il tessuto parlante è un testo che ha cittadinanza in ambito religioso, dove la reliquia passa dal ricordo personale al senso della comunità; una mostra storica fa meglio a evitare quel linguaggio.

Parti delle didascalie nelle postazioni video e nelle schede digitali sono in caratteri inconfondibilmente debitori della grafica in uso durante il fascismo e subito dopo. La contestualizzazione non lo richiedeva, e anzi quella grafica va evitata: il discorso sul passato si fa nella lingua del presente, coi suoi segni. Alcune schede sconcertano: sono spiegazioni di oggi ma sembrano documenti provenienti dalla Germania, con caratteri d’epoca, segnature tedesche e altre stranezzeii. È come se un ufficiale tedesco descrivesse a chi legge i crimini, in italiano, coi toni di uno storico e la firma. Il realismo visuale a tutti i costi genera quest’assurdità. Un diorama bidimensionale.

Il dattiloscritto intestato «Città aperta di Roma, Comando forze di polizia» è presentato senza una spiegazione. Roma non fu città aperta se non in una dichiarazione unilaterale, mai accettata dagli Alleatiiii. Dopo decenni di studi si rivede questa storia. Persino il titolo di un capolavoro neorealista, Roma città aperta, allude alla beffa verbale che aggiungeva ipocrisia all’oppressione. Non si può, neppure per dimenticanza, lasciare senza smentita una vecchia furberia fascista e tedesca.

Nella sezione sui processi, lo schermo digitale su quelli fatti da autorità italiane ne riporta ventitré, dall’immediato dopoguerra a oggi. Sono un po’ di più, e considerando il fiume di sangue che contengono, tanto valeva citarli tutti. Sono indicati anche tredici filoni di indagini che non hanno portato a dibattimenti, mentre c’è stato altro e si poteva offrire una panoramica migliore. Comunque le schede (in tutto 36, appunto, fra processi e indagini) sono davvero stringate.

Lo schermo sulle stragi all’estero sceglie venti casi con un criterio che non funziona; accostare il Lager di Sandbostel al massacro di Oradour-sur-Glane confonde la violenza concentrazionaria con tutt’altro, anche se a Oradour, fra centinaia di vittime, morirono alcuni italiani. Anche nello schermo sulle principali stragi di civili la scelta è discutibile e si notano omissioniiv. Ma fare rilievi pignoli sarebbe sbagliato, perché inesattezze o lacune sono comprensibili; è il metodo freddo della selezione catalogale, a mostrare limiti. Manca qualcosa, un che di vivo e robusto.

Una traccia di questa esigenza si sente in un pannello con le fotografie delle visite presidenziali: Pertini nel 1979 a Marzabotto, Ciampi nel 2002 ancora a Marzabotto, Napolitano nel 2013 a Sant’Anna di Stazzema, Mattarella nel 2019 a Fivizzano. Pertini si preme un fazzoletto sul viso. Ognuno degli altri capi di Stato italiani è insieme a quello tedesco: Rau, Gauck, Steinmeier; non si notano turbamenti. L’immagine di Pertini è mossa, sa di umano, di non preparato; sembra un’istantanea rubata; ci sono divise, uomini di potere, ma si può guardarla senza soggezione, coi pugni in tasca. Ci si sente a casa, dove si sanno a memoria pregi e difetti delle persone (si vede un ministro che allo scandalo della loggia P2 si dimetterà). Nelle altre immagini i presidenti sono in posa: sostano seri, si tengono per mano, scoprono una lapide. Quando Pertini va a Marzabotto l’Armadio della vergogna – l’archivio sulle stragi formato a partire dal 1945 e riemerso a metà degli anni Novanta – è a Palazzo Cesi, nei locali della giustizia militare, sconosciuto all’opinione pubblica; quando è la volta di Ciampi, l’archivio è stato rimesso in moto e ne sono usciti processi penali innocui. Con Napolitano è diverso: la Germania è stata condannata a pagare denaro per quei crimini, ma la Corte internazionale di giustizia, all’Aia, ha stabilito che non si può fare e ha trattato quel tentativo come una lesa maestà. Ancora un altro scenario quando c’è Mattarella: i processi penali sono finiti, quelli civili continuano perché la Corte costituzionale ha detto che la decisione dell’Aia non ha effetto in Italia. Quattro scatti con tante cose, nessuna spiegata. Ma ci sono altri problemi, più profondi.

Molto del contenuto viene dall’Atlante delle stragi, e per questo si indicano 24.409 morti civili. È la cifra ricavata adesso da quello strumento informatico, che all’epoca delle prime presentazioni – a lavoro completato sono cominciate nel 2016 – calcolava 23.000 vittime. Non ci siamo ancora. Da anni il confronto con altre ricerche fa ipotizzare un numero molto superiorev. Soprattutto, una cifra minuziosa fino alle unità non ha senso; è meglio sottolineare la provvisorietà e l’incompletezza del censimento, tanto più che il sito dell’Atlante invita ancora a fare nuove segnalazioni. E poi l’assiduo riferimento all’Atlante delle stragi, come fonte, scivola nell’autocitazione: nei video parla Paolo Pezzino, che dell’Atlante è direttore scientifico; l’Atlante ha fra i principali collaboratori Isabella Insolvibile, che è nel comitato scientifico della mostravi; entrambi sono stati consulenti dell’autorità giudiziaria militare. Una compagnia ristretta, che può fare bella mostra di sé; se invece esprimesse dubbi o riserve, finirebbe per mettere in discussione l’operazione Atlante delle stragi, che ha forte copertura politica e diplomatica, e che non può essere criticata senza urtare suscettibilitàvii.

La rifrequentazione dell’Armadio della vergogna è spiegata come un avvenimento «fortuito e inaspettato» a margine del processo Priebke, ma la vicenda, malgrado le commissioni di indagine, rimane per vari aspetti oscura. Il periodo fra i processi dell’immediato dopoguerra e quelli di mezzo secolo dopo è descritto così: «l’attività giudiziaria si interrompe fino al 1994, anno in cui vengono rinvenuti centinaia di fascicoli giudiziari…». Più esattamente, si interrompono i giudizi, ma è certo che malgrado questo l’archivio è oggetto di frequentazioni, attenzioni, movimenti: insomma, non è del tutto dimenticato. Quanti e quali fossero i suoi conoscitori, e quindi silenziosi custodi, è una delle questioni più scottanti.

Si consideri che del momento iniziale di quella rifrequentazione, avvenuta nel 1994, non sono certi né il giorno né il mese e non esistono un verbale o una fotografia. Un indizio della questione, e dell’imbarazzo che la circonda, lo dà quanto scrive Antonino Intelisano, che nel 1994 era il procuratore militare di Roma: nel 2012 chiama la rifrequentazione dell’archivio «l’…esumazione dei fascicoli occultati»viii. In questa storia, dopo decenni, si usano ancora i puntini di sospensione. Ma nel 1999 Giorgio Rochat, presidente dell’Insmli, vede chiaro il male:

«Il tradimento da parte degli alti magistrati militari, i quali sono magistrati, sono ufficiali in servizio, generali di corpo d’armata, che avevano il compito di far funzionare l’apparato della giustizia militare e hanno sabotato e distrutto l’operato di questa giustizia. C’è una copertura politica, ma in questo campo non è di “trattare bene” un imputato o gestire i processi in un certo senso; l’indicazione politica porta a indurre questi ufficiali a violare il giuramento di fedeltà alla legge. Sarebbe come se la sanità militare programmasse l’uccisione dei malati. […] Nel caso delle “provvisorie archiviazioni” abbiamo […] una struttura gerarchica che proclama la sua vergogna. […] La giustizia militare non esiste più: si vede anche il livello di aberrazione che può raggiungere un corpo chiuso che non ha rapporto con l’esterno, gestito da poche decine di ufficiali. Un ufficiale come si deve, di fronte alla direttiva di un governo di cancellare certi processi, avrebbe dato le dimissioni»ix.

Claudio Pavone, invece, coglie le implicazioni di un tema della storia italiana che ha studiato a fondo:

«Il tasso particolarmente alto di continuità che, nel passaggio dal fascismo alla Repubblica, ha caratterizzato le forze armate e la magistratura. I tribunali militari hanno senza dubbio costituito un privilegiato punto di incontro fra le due continuità. […] Ci si deve […] chiedere come illegalità di tanto grande rilievo abbiano potuto essere compiute e rimanere impunite. Si possono avanzare varie ipotesi, che tutte è possibile abbiano elementi di verità. Le elenco in ordine di crescente gravità: spirito di corpo della magistratura; copertura di illegalità precedenti; spirito eversivo contro la Repubblica democratica di diritto, nata dalla Resistenza. È infatti più facile che un giudice operi contro la legge che contro le proprie profonde convinzioni; sicurezza di copertura da parte del potere politico»x.

Sull’archivio è d’uso sottolineare che la magistratura militare non ebbe indipendenza sino a quando due leggi la riformarono, nel 1981 e nel 1988. Ma neppure dopo quelle leggi le indagini furono riattivate, prima della metà degli anni Novanta. Le dimissioni che Rochat avrebbe voluto all’epoca dell’insabbiamento non ci sono state neanche alla riemersione, e anzi questa è stata accompagnata da nuove omissioni, opacità e dilazioni, specialmente quanto alla spiegazione dell’accaduto e alla trasmissione dei fascicoli agli uffici competenti; non c’è stato un ricambio del personale, diverso da normali avvicendamenti e pensionamenti; un alto magistrato militare è stato indagato, ma ne è uscito indenne ed è arrivato all’apice della carrieraxi.

Dalla rifrequentazione a metà degli anni Novanta, crimini già vecchi di mezzo secolo hanno visto una ventina di processi, l’ultimo terminato nel 2015xii. Sotto l’aspetto statistico-procedurale, e tenendo conto della gravità dei fatti, l’esito complessivo è stato disastroso: il rapporto fra giudizi e indagini chiuse senza neanche l’udienza preliminare è probabilmente inferiore al cinque per cento. In alcune sedi giudiziarie militari nulla è arrivato al dibattimento: cioè, tutti i fascicoli archiviati illegalmente nel 1960 sono stati nuovamente messi da parte, stavolta legalmente; una partita di giro.

Di fronte a questo, la mostra propone una suddivisione temporale della questione giudiziaria che va fuori centro: una prima fase dal dopoguerra al 1994; una seconda da allora al 2002, una terza sino al 2013. L’ultimo processo è finito nel 2015, ma non è davvero il caso di pensare a un’ulteriore quarta fase. Il cuore del problema non sta in questo. Di fasi non c’è bisogno, ma se proprio si cercano, considerando gli aspetti penali sono tutto sommato tre: dal dopoguerra all’insabbiamento dell’archivio, da questo alla rifrequentazione e da questa alla fine dell’ultimo processo nel 2015. Attenzione: i due snodi intermedi, fra i tre segmenti, sono da decifrare nella sostanza e incerti nel tempo, perché l’insabbiamento avviene un po’ alla volta (l’archiviazione del 1960, con tanti foglietti uguali a firma del procuratore generale militare Enrico Santacroce, è una formalità fasulla) e la rifrequentazione ha i puntini di sospensione. Considerando gli aspetti civili è tutto più semplice perché la fase è una sola: dal dopoguerra a oggi Berlino non paga i risarcimenti e il notabilato italiano si piega, col lavoro giudiziario omesso o innocuo e col lavoro culturale mediocre.

Comunque, più che proporre periodizzazioni, è meglio insistere sulla mancata giustizia. Solo i primi condannati, negli anni Quaranta, furono catturati, ma già negli anni Cinquanta tornarono liberi, con due eccezioni: Kappler e Reder. Kappler evase con complicità italiane nel 1977 e Reder fu liberato nel 1985. Non morirono in carcere ma scontarono lunghe pene, benché in condizioni confortevoli. In seguito gli altri tedeschi, anche quelli condannati, sono rimasti liberi, tranne Priebke e Seifert (consegnati dall’Argentina e dal Canada, non dalla Germania), uno messo per anni in una sorta di comoda restrizione domiciliare, l’altro incarcerato e morto presto. L’ultimo a spegnersi, dei condannati, è stato Stark nel 2020: in Germania, libero e centenario.

In sostanza, la cattiva giustizia dell’immediato dopoguerra ebbe pochissimo effetto, ma ottenne più di quella dalla metà degli anni Novanta in poi: la prima tenne in carcere due ufficiali superiori per decenni, la successiva ha tenuto a casa un ufficiale e, più brevemente, in carcere un sottufficiale. La caccia ai nazisti dell’immediato dopoguerra fece un carniere scarso; la caccia successiva è stata vegetariana.

La mostra evita questi dati desolanti e non si spinge oltre l’esecrazione della giustizia negata. E si tratta, va detto, della giustizia penale, l’unica al centro della scena. Su quella civile, cioè sul diritto ai risarcimenti economici per i familiari delle vittime e gli enti locali, c’è solo qualche cenno. Eppure in una teca c’è il dispositivo della sentenza sulla strage di Civitellaxiii.

Il punto di fondo è questo: la giustizia penale, ormai, è un capitolo chiuso; dei colpevoli si può dire male ma sono morti e non possono essere puniti; si fa, insomma, memoria. La giustizia civile è una battaglia aperta, perché il diritto ai risarcimenti non va in prescrizione e si trasmette agli eredi; molte sentenze di condanna economica della Germania sono già definitive e altre cause sono pendenti; tutto questo, benché l’Avvocatura dello Stato italiana sia intervenuta spesso nei processi civili difendendo la Germania, sulla base di provvedimenti e accordi inconfessabili che neppure l’esercizio del FOIA è riuscito a far venire alla lucexiv. Questi aspetti non devono essere taciuti; non si deve, appunto, nonostante il lungo tempo trascorso. Il titolo rovescia il senso delle parole sciagurate contenute nei foglietti del 1960. L’idea è buona, ma il proposito è lasciato lì. Quelle parole furono un inganno allora, quando c’erano le prove e i nazisti erano vivi, e bisogna trarne insegnamento adesso che le prove sono più precise, coi giudicati e i nomi dei creditori; lo Stato tedesco non muore, non è povero, non è malato e non fa pena. Nonostante il tempo trascorso, Berlino deve pagare.

Ancora sulla giustizia. Non sono ricordate né la decisione della Corte internazionale di giustizia del 2012, una pronuncia gravissima, occasionata dai crimini nazisti ma ostile a tutte le vittime dei delitti di Stato, anche recenti (Andrea Rocchelli, Giulio Regeni, Daphne Caruana Galizia, Jamal Khashoggi), né la sentenza della Corte costituzionale del 2014xv. E poi, si dà per scontato che solo la giustizia militare si sia occupata di stragi, mentre alcuni processi, come quello su Caiazzo, li ha celebrati la giustizia ordinaria. Ma la questione della giurisdizione dell’una o dell’altra struttura ha implicazioni complesse.

E ancora sui militari. Si dice che furono lasciati senza ordini, ma va aggiunto che il contegno degli alti comandi fu scandaloso, sebbene con eccezioni. La scelta del combattimento e soprattutto la consegna di armi al popolo si svolsero con grandi differenze, a seconda delle situazioni, e per lo più furono inversamente proporzionali al grado degli ufficiali coinvolti.

Quanto ai crimini dei militari italiani in Africa e nei Balcani, nella mostra c’è solo qualcosa (e giustamente è citato il caso di Domenikon). Anche la partecipazione di fascisti italiani ai massacri, in Italia e contro i loro concittadini, spesso compaesani, resta ai margini dell’attenzione. Parecchi nomi di fascisti, collaborazionisti e complici di crimini atroci, erano negli stessi fascicoli dell’Armadio della vergogna; negli anni Novanta molti fascisti erano ancora vivi ed erano in Italia, non in Germania. Ma non sono stati disturbati.

Un pannello si misura con lo stato di eccezione che pesa su queste vicende; la suggestione rimanda anche a un filmxvi. Il discorso potrebbe reggere se venisse portato avanti. Se fu stato di eccezione considerare come un ingombro e un ostaggio il popolo, e come traditori i soldati combattenti per la Liberazione o contrari all’arruolamento per la Germania, è stato di eccezione anche il comportamento recente delle autorità tedesche, di alcune italiane e della giustizia internazionale. È stato di eccezione modificare la condizione giuridica degli IMI, con effetto retroattivo, per non risarcirli; lo è anche il processo alla Corte internazionale di giustizia, in cui oggetto del giudizio è il comportamento italiano del 2008 (alcune sentenze e un’ipoteca) e non quello tedesco, cioè due anni di sangue; lo è l’attivazione dell’Avvocatura dello Stato. Forse lo è anche la torsione del linguaggio. Nonostante il lungo tempo trascorso sa di antifrasi: aveva un senso nel provvedimento di archiviazione, ne ha uno opposto nella mostra. Era così anche per Roma città aperta. Eppure si finisce per ristabilire un ordine, quello dell’ingiustizia, che riemerge anche quando si cerca di liberarsene. È, in fondo, l’effetto perentorio e autogiustificativo del potere; è l’ordine – quello prescrittivo e quello del senso comune – come nell’ordine che è già stato eseguito, di cui si legge nel comunicato dell’Agenzia Stefani dopo le Ardeatine: una solennità sacrificalexvii.

In questa maniera inceppata di intendere le cose – è così per lo stato di eccezione, per la questione della giustizia e per altro – sta il difetto più profondo di una mostra vedo-non-vedo. Ci si aspetta che i monumenti siano fatti per la visibilità, ma non sempre è così: la mostra è monumentale, forse per questo arriva dopo la morte degli ultimi condannati, ma cose importanti restano fra le righe, come se un fardello non fosse mai stato del tutto superato; «riscattare la vergogna e il terrore», scrisse Piero Calamandrei nella lapide di Cuneo, quando il dopo era già fitto di insidie.

Anche se i pannelli sono deludenti, le postazioni sonore sono rumorose e quelle luminose sono inadeguate, bisogna chiedersi se la mostra – grossa, non grande; alta, non profonda – tutto sommato sia utile. La risposta dipende da come e quanto si considera emendabile l’attuale condizione miserevole della memoria, della coscienza civile e della partecipazione politica in Italia. Se non altro, l’iniziativa buca il silenzio e su scolaresche e visitatori fa presa. Un discorso incompleto, un flash sfocato possono stimolare la curiosità; il silenzio e il buio no.

 

i Qui è preso in considerazione il contenuto dei pannelli e delle parti più facilmente consultabili degli schermi senza audio; la sovrapposizione fonica ha permesso di seguire solo in parte il contenuto delle postazioni video sonore.

ii Le schede hanno in cima «Kontroll-Offz.» e in calce data e firma tedesche, del 1944, in un luogo che sembra chiamarsi «Schreckenstein»; a questo nome non corrisponde una località nota, ma un libro per ragazzi, Burg Schreckenstein, seguito da un film. Per il momento non è possibile capire di più.

iii Il mito della città aperta è caro alla memoria antiresistenziale, che lo usa per accusare i partigiani, e specialmente quelli di via Rasella, di aver violato quello statuto particolare di Roma. È significativo Giulio Castelli, Storia segreta di Roma città aperta, con prefazione di Eugenio Boggiano Pico, Quattrucci, Roma 1959; Boggiano Pico a p. XXVI si dichiara «promotore e consulente giuridico del Comando della “città aperta”» e si vanta che una sua memoria illustrativa sulla città aperta sia stata letta e apprezzata da Hitler. Boggiano Pico risulta anche autore di La città aperta di Roma, zona di sicurezza nazionale ed internazionale, Toso, Roma 1943, con pianta topografica. Al processo Kappler il teste Chirieleison sostiene che per la città aperta le fonti erano il diritto internazionale e «lo statuto pubblicato dal prof. Pico», un volume consegnato da Boggiano Pico ai tedeschi. Il mito è duro a morire: un discorso ambiguo sulla città aperta a Roma è ripresentato da Tommaso Baris, in Enzo Fimiani e Tommaso Baris, La linea Gustav, nel volume a corredo dell’Atlante delle stragi: Gianluca Fulvetti e Paolo Pezzino (a cura di), Zone di guerra, geografie di sangue. L’Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia (1943-1945), il Mulino, Bologna 2016, p. 232.

iv Per esempio, la strage del Padule di Fucecchio è un puntino senza scheda. Fucecchio è il quinto caso in Italia per grandezza, anche se il numero di 184 morti, nel pannello geografico della mostra, è superato da vent’anni. La prima ricostruzione seria della cifra è in Enrico Bettazzi e Metello Bonanno, Le vittime dell’eccidio del Padule di Fucecchio, in «QF, Quaderni di farestoria», III, n. 2 (aprile-giugno 2001), p. 41, dove si conclude per 174 morti.

v Per il Lazio è stato fatto un confronto con ricerche più accurate, basate su altre fonti, ed è emersa una sproporzione vistosa, che fa pensare per l’Italia ad almeno trentamila persone. Il tema è stato trattato nel convegno La Germania deve pagare per stragi e deportazioni: la memoria spesata non è risarcimento, svolto il 20 aprile 2018 presso il Museo storico della Liberazione, a Roma. Il presidente del Museo, Antonio Parisella, che ha dato ospitalità all’incontro, ha tenuto la schiena dritta, malgrado tutto quello che si può immaginare. Per un riassunto del convegno mi permetto di rinviare a Debito tedesco e riparazionismo: un convegno, tante domande, in «ilponterivista.com», 17 maggio 2018.

vi Nell’Atlante Isabella Insolvibile è fra i principali redattori delle schede, oltre duecento. Nel convegno Riconciliazione e diritto al risarcimento per le vittime dei crimini nazisti: esperienze a confronto per un’Europa giusta e solidale, Caiazzo 12 ottobre 2019, Insolvibile ha difeso l’Atlante anche così: «Noi storici siamo qua perché forniamo alle comunità, ai sindaci, alle associazioni di familiari delle vittime le basi scientifiche per avanzare le richieste di risarcimento. Diamo numeri, contesti, luoghi». L’Atlante, pagato dalla Germania, sarebbe un utensile per rivendicazioni economiche; alle autorità tedesche si possono muovere molte accuse, non quella di autolesionismo.

vii L’Atlante ha inconvenienti di metodo e di contenuto, ma ha avuto molte presentazioni, con sostegni politici, appoggio tedesco e discorsi conformi. Fa parte delle iniziative culturali finanziate con poca spesa dalla Germania, che non paga i risarcimenti. Su «questionegiustizia.it» è stato preso in considerazione in Atlante delle stragi, debito tedesco e crediti italiani il 28 ottobre 2016, in Quale memoria? I crimini nazifascisti senza giustizia il 27 gennaio 2017 e in Il debito tedesco e un convegno necessario il 24 aprile 2017. Il 2 maggio 2017 Pezzino ha avuto spazio sullo stesso sito per difendere l’Atlante. Pezzino, all’epoca non ancora presidente dell’Istituto Parri, non aveva mai scritto su «questionegiustizia.it», una pubblicazione promossa da Magistratura democratica e con sede presso l’Associazione nazionale magistrati. Si nota l’asimmetria: il direttore dell’Atlante può difenderlo in un sito sulla giustizia, mentre le famiglie delle vittime, che chiedono giustizia, non possono fare critiche nel sito dell’Atlante (con altri mezzi di comunicazione lo chiamano «piatto di lenticchie» o «monumento funebre tardivo e intoccabile»). Con Lettera aperta al presidente dell’Istituto nazionale Ferruccio Parri, in «fondazionecriticasociale.org», 8 settembre 2018, ho rivolto a Pezzino, diventato presidente dell’Istituto, la proposta di un convegno; non ha mai risposto.

viii Antonino Intelisano, Giustizia e storia: metodologie a confronto, in Giorgio Resta e Vincenzo Zeno-Zencovich (a cura di), Riparare Risarcire Ricordare. Un dialogo tra storici e giuristi, Editoriale Scientifica, Napoli 2012, p. 80.

ix Convegno Colpevole impunità. Lo scandaloso insabbiamento dei processi per le stragi naziste in Italia, Genova 21 maggio 1999.

x Convegno Colpevole impunità, cit.

xi Commissione parlamentare di inchiesta sulle cause dell’occultamento di fascicoli relativi a crimini nazifascisti, istituita con legge 15 maggio 2003 n. 107, relazione di minoranza, p. 337: «Nel corso delle audizioni, che hanno riguardato tutti i magistrati militari che all’epoca ebbero un ruolo diretto sia nel rinvenimento, sia nelle decisioni che ne seguirono, si è potuta cogliere la tendenza a mantenersi quanto più possibile estranei alla vicenda, quasi in un tentativo di appannare e scaricare le pesanti responsabilità dell’istituzione cui appartengono». In seguito alla riemersione dell’archivio è stata istituita una stravagante «commissione mista» e centinaia di fascicoli sono stati ancora trattenuti. Un procedimento penale nei confronti di Giuseppe Scandurra è stato archiviato; Scandurra, magistrato militare dal 1960, al momento della riemersione era procuratore generale militare presso la Corte militare d’appello, e nel 1997 è stato nominato procuratore generale militare in Cassazione, dove è rimasto sino al pensionamento; è stato in servizio per quarantasette anni.

xii Corte militare d’appello, 3 dicembre 2014, dep. 30 gennaio 2015 n. 171, imputati Winkler e altri, divenuta irrevocabile l’11 luglio 2015.

xiii Con Trib. militare La Spezia, 10 ottobre 2006, dep. 2 febbraio 2007 n. 49, imputati Böttcher e Milde, lo Stato tedesco è stato condannato a pagare i risarcimenti, ma non ha pagato. Del dispositivo della sentenza compare nella teca solo la prima pagina, dove quel capo della decisione non si vede.

xiv Malgrado il FOIA, Freedom of Information Act, in una prima vertenza è stato escluso l’accesso agli atti dell’Avvocatura generale dello Stato: Tar Lazio, 25 giugno 2019 n. 8264. In una seconda vertenza è stato escluso anche l’accesso agli atti del Ministero degli esteri: Tar Lazio, 22 maggio 2020 e 20 ottobre 2020, dep. 19 gennaio 2021 n. 748; Consiglio di Stato, 8 luglio 2021, dep. 30 agosto 2021 n. 6115.

xv Così, la mostra non ricorda neanche Giuseppe Tesauro, presidente ed estensore della sentenza della Consulta, scomparso a luglio 2021.

xvi Lo Stato di eccezione, regia di Germano Maccioni, 2007.

xvii Alessandro Portelli, L’ordine è già stato eseguito. Roma, le Fosse Ardeatine, la memoria, Donzelli, Roma 1999, p. 4, sulla parola ordine nel comunicato dell’Agenzia Stefani, segnala un verso di Shakespeare; Anthony and Cleopatra: «Come, Dolabella, see / high order in this great solemnity».

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