Attualità di un messaggio

di Tristano Codignola

[Testo integrale del discorso pronunciato in Palazzo Vecchio l’11 agosto 1975 per la ricorrenza della Liberazione di Firenze.]

Amico Sindaco, cittadini, compagni,

noti, eminenti rappresentanti della Liberazione fiorentina ci hanno lasciato da poco: da Carlo Levi, che portò – non fiorentino – alle nostre lotte un contributo originale di umanità e di sensibilità critica (vorrei auspicare per lui la cittadinanza onoraria alla memoria), al ferroviere Carlo Campolmi, che con coraggioso fervore dette tutto se stesso all’organizzazione militare del Partito d’Azione e conobbe le inumane torture dei «quattro santi» della banda Carità, all’operaio Alessandro Pieri, condannato dal Tribunale Speciale e poi nel Comando della Divisione Potente; da Eugenio Artom a Giacomo Devoto ad Ezio Donatini che nel Comitato Toscano di Liberazione e nella prima giunta di Firenze liberata prima e nella vita civile poi furono esempio di rettitudine e di coerenza; a due donne, degne di rappresentare il dolore e la fierezza di tante altre, che simbolicamente hanno chiuso quasi contemporaneamente la loro vicenda terrena, così come era accaduto del loro marito e figlio, Enrico Bocci ed Italo Piccagli. E quanti altri che neppure sappiamo se ne saranno andati in silenzio fra i tanti che – come dice Primo Levi – è difficile rivestire di parole, perché stavano tutti nelle loro azioni.

Ma nel doloroso distacco da ciascuno di loro non vediamo chiusa per sempre una parentesi: al contrario, sentiamo sempre di piú che la Resistenza non è e non deve essere patrimonio d’una gloria passata, geloso retaggio d’una generazione di reduci che si assottiglia nel tempo, ma è il cemento della nostra democrazia, la sostanza delle aspirazioni di una gran parte del nostro popolo, dei nostri giovani. Se vogliamo evitare di cadere nella italica retorica, che ha già largamente appannato lo splendore di quelle aspirazioni, se sentiamo tutti chiaramente che il nostro 11 agosto è e deve essere sempre meno una stanca e rituale commemorazione, ma piuttosto una sfida, dedichiamo anzitutto qualche breve riflessione a ciò che fu la Resistenza italiana nella sua essenza storico-politica, alla rottura che essa rappresentò nei confronti della tradizione aulica e moderata dell’Italia monarchica e giolittiana, alla forza di conservazione che tuttavia questa Italia antagonista ha dimostrato, al momento presente nel quale sintomi non confondibili fanno riaffiorare nel nostro tessuto comunitario tensioni ma anche speranze nuove, che ridanno quasi d’improvviso attualità insospettata al messaggio di allora.

La Resistenza italiana, gli studiosi l’hanno da tempo assodato, presenta alcune caratteristiche peculiari ed originali, che converrà qui ricordare sommariamente.

Non nacque dal nulla, come spontaneo moto di resistenza all’ invasore, anche se lo fu per la maggioranza dei giovani, ma questo moto s’innestò sul robusto tronco del pensiero antifascista militante che in vent’anni di lotta (da Amendola a Donati, da Gobetti a Matteotti, da Gramsci a Rosselli) aveva individuato alcune linee di analisi del fascismo e della società che ne era stata matrice. Questo dibattito, spesso anche aspro, attraverso vent’anni di dittatura – nelle galere, negli esili, nella clandestinità delle discussioni giovanili, nei giornaletti alla macchia della Resistenza – si tinse delle diverse ideologie ma fu unanime in alcune conclusioni: essere il fascismo solo il processo degenerativo di un male antico, la struttura autoritaria d’uno Stato di origine militare, profondamente avverso alla democrazia, burocratizzato e verticistico. Sicché tutti si trovarono concordi nel ritenere l’abbattimento del fascismo solo la necessaria premessa di un più profondo processo di rigenerazione democratica delle strutture del potere pubblico.

La Resistenza si riconobbe in una esigenza generale di giustizia sociale, teorizzata in forme e gradi diversi, ma presente in tutti; e nel riconoscimento che questa giustizia, per essere vera, non può trovarsi in contrasto con le moderne istituzioni di libertà politica. L’acquisizione dei grandi principi dell’89 al patrimonio ideale, che sta al movimento operaio per primo preservare e difendere, rispetto alla dottrinale interpretazione di quei principi a forme del potere borghese, è un processo ancora in corso: ma sta sotto agli occhi di tutti che puri miti resterebbero egualmente i due grandi principi, se disgiunti l’uno dall’altro. La letteratura della Resistenza ci testimonia della presenza di questo grande problema nella pubblicistica di ogni parte, anche se forse soltanto il gruppo giellista ne fu consapevole antesignano.

L’unità della Resistenza. Si è detto e scritto molto su questo. Certo, nel caldo di una lotta armata per l’abbattimento del nemico comune, l’unità era un imperativo morale, oltreché una esigenza pratica. Ragghianti ha osservato che questa unità fu inoltre conseguenza di un tacito patto democratico: in assenza di istituzioni rappresentative, la pariteticità delle decisioni sembrò essere l’unica garanzia possibile contro ogni sopruso. A mio giudizio, c’è una ragione ancora più di fondo di quella mirabile unità nel dissenso che rappresenta certo un fatto unico nella storia italiana; e questa sta appunto nella esistenza di un consenso che sovrastava i dissensi, per la creazione di una società democratica che rinnovasse dal fondo l’eredità piemontese-umbertina.

La Resistenza, a differenza di qualunque altro movimento politico in Italia (tentativi di riforma religiosa, moti giacobini, Risorgimento, lo stesso movimento operaio di fine secolo) ha mosso grandi masse, ha superato le classi: operai e studenti, in primis, naturalmente i politici; ma anche cattolici e preti, e – fenomeno che trova un precedente solo nella grande delusione dei soldati tornati dal fronte del 15-18 – contadini, tradizionalmente arroccati ai margini della vita politica del paese; e ancora larghi ceti di borghesia, minuta ma anche grassa, moltissimi intellettuali, anche alcuni detentori di potere economico. Un fenomeno dunque nazionale, nel senso gramsciano della parola, non mai nazionalistico o provinciale.

Né l’internazionalismo della Resistenza fu soltanto un effetto del parallelismo dei moti che si attizzarono in Europa contro il tedesco invasore ed il nazismo distruttore; esso è frutto, anche qui, di un giudizio politico, circa la natura tendenzialmente oppressiva dell’onnipotente macchina statale del nostro tempo se non è bilanciata da una democrazia attiva, che faccia della giustizia e della libertà il suo cardine. Certo, è anche assodato dal giudizio storico, capitalismo è matrice d’imperialismo e di tirannia; e tuttavia abbiamo imparato in questi drammatici trenta anni che impe­rialismo e tirannia possono trovare anche diversi strumenti per affermarsi. Le drammatiche testimonianze da Praga del grande studioso marxista Kosić sono un ammonimento. Questo internazionalismo spiega perché il movimento democratico italiano ha sentito come proprie, dall’interno delle diverse formazioni politiche, le più recenti lotte per la libertà di Grecia e di Spagna; perché l’orrore per la dittatura fanatica di Pinochet è stato così generale da consentire all’Italia il grande onore di essere l’unico paese occidentale a non riconoscere quel regime; perché la tragedia del Vietnam, che con così alto eroismo ha subito le terribili conseguenze della logica im­perialista, è diventata anche un dramma del nostro paese, generalizzato, di massa; perché infine l’auspicio generale di tutti è che la sconfitta del salazarismo in Portogallo, dovuta al coraggio di giovani generazioni di militari, non si faccia fuorviare dal suo logico corso, che è quello della democrazia, della giustizia e della libertà, col riconoscimento a tutte le forze politiche presenti del loro posto e del loro ruolo secondo la volontà liberamente espressa dal popolo di quel paese.

Infine, la Resistenza è stata un grande esperimento autonomista, nello spirito intransigente di Emilio Lussu: autogoverno di base, democrazia diretta, orgoglioso sentimento di gestione del proprio destino, si manifestarono nelle forme splendide delle Repubbliche partigiane, da Montefiorino alla Val d’Ossola: e nessuno dimentichi il contributo politico offerto a tutto il paese dall’episodio di autogoverno del Comitato toscano di liberazione nazionale, l’esempio piú avanzato della capacità e maturità di governo civile realizzate dal movimento partigiano.

È a questo insieme di caratteristiche che sono ormai, ripeto, storicamente accertate che fa d’uopo riflettere allorché si afferma che «la Resistenza continua», che la Resistenza si affida ormai piú alle giovani generazioni che a quelle che la fecero. C’è sempre il pericolo d’un tanto di retorica gratuita in queste affermazioni; e tuttavia va confrontato il patrimonio ideale insito nelle caratteristiche che ho sopra rapidamente delineato, e lo stato della nostra società attuale. Uno iato profondo si è venuto a creare in questi trenta anni, nonostante l’operare vivace e spesso produttivo della generazione antifascista, fra le istituzioni, la costituzione stessa, e i giovani. L’opportunismo del sistema, reso inevitabile da un modo di governare attento piú a detenere il potere in strutture arcaiche o cadenti che a risolvere gli enormi problemi della società nazionale, ha offuscato ciò che c’è di piú permanente e sincero nei giovani, il disinteresse, divaricandolo fra l’ambizione smodata e la ricerca astratta di palingenesi totali; li ha distratti dalla concretezza della battaglia politica, li ha visti perfino contestare Resistenza e costituzione come portati della borghesia, con la medesima unilateralità con la quale forze consistenti del movimento operaio ridussero ad analoga qualificazione la concezione stessa delle libertà politiche. Il Sessantotto è stato frutto di questa crisi morale; ma ha lasciato un’eredità importante, quella della lotta contro la democrazia solo formale, mentre democrazia è anzitutto partecipazione reale di popolo alle scelte di ogni ora e di ogni giorno, attraverso strumenti partecipativi che non hanno da sostituire quelli sui quali si asside la democrazia istituzionale del mondo moderno, ma da integrarli, inverarli, proporli alla portata di ogni cittadino. Ha da dire qualcosa, al di là della suggestione di un’epopea, la Resistenza a tutti coloro appunto che, per usare ancora un’espressione gramsciana, aspirano in questa situazione a un ordine nuovo?

La Resistenza, si è detto, si trovò unita intorno a due nodi d’azione: la distruzione radicale del fascismo – se non distrutto, distrugge tutto il resto di vita sociale –; una grande opera di rifondazione democratica delle strutture del paese, strutture tramandate da una tradizione monarchico-autoritaria, che fu la matrice del fascismo. Questa era la sostanza del patto che ci unì.

La monarchia è stata travolta; con essa, sembrava lo fosse anche il fascismo. Ma (c’è chi lo disse fin dal 1946-1947, ed è oggi principio di riconoscimento comune) il fascismo non ha una sua vita autonoma, si annida nelle connivenze, nelle compiacenze, nelle debolezze di un sistema clientelare che media fra democrazia puramente parlamentare e incontrollati poteri reali (quello economico prima di tutto, quello dei corpi separati dello Stato, quello della burocrazia). La svolta del ’46, con la fine del governo di liberazione nazionale, fece prevalere il principio della continuità dello Stato, di quello Stato, non di un altro. Via i prefetti, si invocava sulle strade nel ’45, con un profondo anelito di autonomia di base che stava al fondo della Resistenza: ma l’opera politica intrapresa nel ’46 (mentre tutta Italia era protesa in uno sforzo gigantesco per la ricostruzione materiale) favorita dalla grande crisi internazionale andava in senso opposto, non modificare la sostanza, anche se si modificano gli attributi, i nomina rerum. La lunga stagione di discriminazione antipartigiana, la spaccatura del paese, la tentazione di valersi di ogni istituzione (Chiesa compresa) a fini di conservazione se non di reazione, la lunga dolorosa attesa che si attuassero finalmente i precetti costituzionali (la costituzione tradita di Calamandrei), tutto questo ha determinato progressivamente una discrasia, una contraddizione insuperabile fra la costituzione, il cui spirito integralmente antifascista è anche uno spirito d’innovazione democratica avanzata, e la realtà sempre piú chiusa in se stessa, spesso meschinamente detentrice di puro potere, che si andò progressivamente realizzando nel paese. In questa struttura del nostro Stato il fascismo sarebbe rinato anche senza bisogno del Msi perché le era congeniale; ma divenne anche un immediato pericolo perché, anziché essere messo da tutte le forze politiche al bando della nazione, come costituzione impone, si giocò con esso a rimpiattino, giungendo perfino a richiederne il sostegno parlamentare.

Se la prevalente responsabilità politica di questa situazione è ben nota, mi sia permesso di affermare che responsabilità non mancano neppure nel comportamento delle sinistre italiane, troppo spesso indotte da astuti calcoli pseudopolitici a sopportare l’esistenza di questo mostro che va finalmente messo fuori legge (il compagno Terracini ha ragione), a sopportare l’obbrobrio che il libero parlamento italiano lo finanzi al pari degli altri partiti politici democratici, travolgendo in una bassa operazione di regime un provvedimento che avrebbe dovuto essere di alto contenuto democratico.

La rinascita del fascismo (con i suoi consueti e ben noti corteggi di distruzioni, violenze, stragi) non poteva che essere la conseguenza della continuità dello Stato. Se lo Stato che si perpetua è strutturalmente capace di generare il fascismo, il fascismo risorge. Dobbiamo combatterlo dunque sul suo terreno: quello della repressione certo, ma anche quello della trasformazione dello Stato. La storia delle riforme mancate in questi trent’anni è l’allucinante storia di una classe dirigente che tutto sommato riteneva che non ci fosse granché da riformare, e la cui forza si è spesa nell’ostacolare, fer­mare, ridurre ogni sforzo che si potesse o volesse compiere per avviare il processo di rifondazione dello Stato.

Dopo trenta anni siamo a questo punto: distrutta la monarchia, creata la costituzione e finalmente completata nei suoi istituti fondamentali con la nascita della Regione; nulla di fatto, se non marginalmente, nella riforma degli istituti, e quindi rinascita del fascismo; un costume pubblico profondamente corrotto.

C’è posto, oggi, per la Resistenza? siamo qui a celebrare un rito o a riprendere un processo ostacolato e interrotto?

Non mancano i segni d’un cambiamento di rotta, d’un giro di boa. Ne citerò due, che mi sembrano significativi.

Nuovi fermenti emergono nella Giustizia, il corpo separato che finora ha maggiormente simbolizzato quel principio della continuità del vecchio Stato, che di fatto ha interrotto il moto resistenziale. All’opera di pochi coraggiosi magistrati giovani, gli Stiz, i D’Ambrosio, i Tamburino, i Violante, che per primi hanno compreso di che cosa fossero fatte le trame nere, quali pericoli rappresentassero per la comunità nazionale, segue ora la richiesta della Procura generale di Roma di autorizzazione a procedere contro tutti i maggiori esponenti parlamentari del Msi: un fatto che, comunque lo si giudichi per i suoi aspetti politici, è una svolta di grande significato; un fatto preparato dalla generosa iniziativa di un magistrato che appartenne anch’egli alla Resistenza fiorentina, Bianchi d’Espinosa.

D’altronde, un altro corpo separato, la scuola, viene attraversata per la prima volta in senso positivo dal vento impetuoso di un rinnovamento democratico, che apre grandi spazi di cogestione. L’impegno col quale il paese, a cominciare dalla gente più umile, ha realizzato la legge che istituisce organi di governo democratico è l’indice di un bisogno che si è andato maturando, di una pressione partecipativa alla quale occorre dare gli strumenti di sbocco.

Ma più in generale, il paese, nonostante la gravità della crisi economica, è uscito dal letargo, capisce che bisogna intervenire, capisce che senza modificare le strutture si ricade nel baratro antico: si pronuncia, col deciso apporto delle donne e di forze cattoliche, per il divorzio; chiede diverse condizioni di vita nelle caserme e nelle carceri; pone all’ordine del giorno il problema dell’aborto, un problema fatto d’infinite ed oscure pene, che colpiscono soprattutto le classi popolari; sbocca nel 15 giugno che non è una sconfitta dei cattolici per quello che essi hanno fatto di autonomo e di valido nella Resistenza e dopo la Resistenza, ma il principio della liberazione di questi cattolici dal pesante soprappotere del conformismo e del clientelismo. Non è un caso che alla raccolta dei relitti del naufragio di un modo non piú sopportabile di gestire il paese sia chiamato ora (quasi per un segno provvidenziale, amico La Pira?) un uomo come Benigno Zaccagnini: un valoroso combattente della Resistenza, che avrà un compito difficile ma al quale auguriamo di saper sconfiggere i grandi e i piccoli profittatori.

È in questa temperie che autorizza speranze ma invoca un impegno da troppi anni sconosciuto, che si pone il problema primario delle autonomie locali. La Resistenza fu soprattutto un movimento autonomista, la formazione di una costituzione di autonomie democratiche. Il mostruoso potere dello Stato moderno trova il contropotere necessario in istituzioni locali che non dipendono da lui, ma traggono dal popolo la propria legittimazione. La storia della democrazia inglese ci ricorda che la democrazia è nata come lotta contro il potere regio, contro i baroni, contro i vassalli dei baroni; è nata come organizzazione autonomistica dei poteri. L’Italia non è l’antica Atene, dove nell’areopago si decideva con voto diretto; il sistema della rappresentanza politica, che la democrazia francese portò a perfezione, non sembra sostituibile in una società davvero pluralista, e va difeso senza equivoci e debolezze; ma esiste anche un livello di problemi, che investono la vita di ogni giorno di ogni uomo, che devono essere risolti nelle loro sedi, con tutte le mediazioni opportune, ma a contatto diretto del popolo. Vi è una differenza sostanziale di qualità, anche se il tema non è stato sufficientemente saggiato in sede teorica, fra potere politico generale, e potere di amministrazione locale.

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