I tempi del romanzo lirico di Attilio Bertolucci

di Gabriella Palli Baroni

Nel ventennale della scomparsa di Attilio Bertolucci l’editore Garzanti presenta, nella collana «I grandi libri», la raccolta Viaggio d’inverno, introdotta da un testo di Giovanni Raboni[1], e il poema-romanzo in versi La camera da letto con la prefazione Il tempo e lo sguardo di Nicola Gardini[2]. La prefazione di Raboni, Bertolucci alla ricerca del presente, riprende una recensione apparsa su «Paragone-Letteratura» del dicembre 1971 con il titolo Dissanguamento e altre metafore nella poesia di Bertolucci ed è passaggio importante della storia critica di Viaggio d’inverno nell’indicare nel tema del «dissanguamento» una metafora descrittiva e di senso, «metafora […] di ogni possibile metafora testuale», essendo parte del rapporto «strettissimo, inestricabile, fra quotidiano e magico, normalità del repertorio e inquietante eccezionalità delle luci». Si riconosce in quest’opera un itinerario coerente con la poesia della Capanna indiana, ma pronunciata con accenti più drammatici, che traspongono l’idillio della giovinezza, appena oscurato dal timore della fine, in desolazione e tragica espiazione. «Lasciami sanguinare» dall’invocazione «così classica, così “letteraria” e insieme così dolorosamente personale» è infatti l’incipit di una delle poesie che meglio testimoniano lo svenamento e lo «sgocciolamento», un respiro metrico e ritmico «informale», che per Raboni rimanda all’action painting di Pollock o alla hautes pâtes di Fautrier, rivelando un mutamento di stile. Ne parlò il poeta, dicendolo generato dal profondo del suo essere e dal malessere psicologico, che segnò dolorosamente un periodo della sua vita e la sua poesia[3]. L’estenuazione e la nudità delle immagini naturalistiche, il loro tragico incupirsi nella serialità nominale senza micce di luce («per le solitudini aria acqua del Bràtica / non soccorrermi quando nel muovere / il braccio riapro la ferita il liquido / liquoroso m’inorridisce la vista») fanno pensare all’astrattismo di Mafai, che per i graffiti di Macchiare è come vivere Bertolucci aveva avvicinato al pittore americano[4].

In verità Viaggio d‘inverno può essere considerato il terzo tempo o, se preferiamo, il terzo libro della Camera da letto, che si interrompe nel 1951 con il capitolo XLVI La partenza. Dopo tale conclusione, tre sequenze di un capitolo XLV restarono inedite[5]. Fu nel 1971 che il poeta, superati gli anni più difficili e duri, quelli della «malattia necessaria» e dei ricoveri in clinica, ma fertili di nuova e originale poesia, non solo pubblicò le liriche composte dal 1955 al 1970, ma affiancò la raccolta con alcuni capitoli del romanzo, che lungo gli anni, a partire dal 1954 («Ma vorrei esser andato più avanti in quella cosa lunghissima che è tutto per me ora», lettera di fine settembre a Sereni)[6] e fino alla pubblicazione degli anni 1984 e 1988, era stato conforto all’autoesilio romano, alla luce della memoria e del riscatto del passato. Che poi l’approdo all’«informale» attesti una trasformazione metrica e logica, ma in linea con l’impressionismo lirico giovanile di Bertolucci, non stupisce. Il poeta critico d’arte, che con Francesco Arcangeli aveva colto il legame tra impressionismo e informale, aveva scritto in una delle controcopertine del «Gatto selvatico», rivista della quale era direttore: «Se spesso si scorge una sorta di reticolo angoscioso entro cui l’uomo in brandelli, irriconoscibile, cerca invano di trovare scampo e uscita, in Pollock, altre volte ci si può avviare per una “più spirabile aura”. Come in questo Profumo del 1955, che è uno degli ultimi quadri del pittore: c’è sempre quell’infinito della pittura (e della poesia) americana, ma in un’accezione non tragica, lirica. Non siamo molto lontani dalle estreme propaggini dell’Impressionismo, dal Monet delle Ninfee, dall’immersione totale, dolcemente passiva della natura del vecchissimo maestro francese»[7].

La “più spirabile aura”[8], che, se rileggiamo Lasciami sanguinare, si respira nel calore della casa e della famiglia, si ritrova nella Camera da letto, cui ci accostiamo nuovamente con Il tempo e lo sguardo di Gardini; non solo per la nozione di Tempo, sul cui «palcoscenico» (rubiamo la parola a Giuseppe Bertolucci) si colloca questo immenso romanzo, quanto sullo «sguardo», sul modo di vedere e riflettere la natura, la vita famigliare e la stessa soggettività del poeta. Gardini inizia la sua analisi da Sirio e dai versi giovanili di Ottobre, dove Attilio Bertolucci è «contemplativo e pittorico» fino alla similitudine finale («Muto è il giorno, muta sarà la notte / simile a un pesce nell’acqua»), che sposta il figurativo in astrazione e in poetico. È una caratteristica questa che coincide, per il critico, con la consapevolezza di essere «Poeta» e con il bisogno di «tenere intatto il puer» lungo gli anni. Del puer aveva scritto Cesare Garboli  in Falbalas, chiarendo che «La Camera da letto […] è la storia di un puer anche se e quando il  puer è già cresciuto. Così si eclissa il tempo, facendolo trionfare per ingannarlo, e si ritualizza il cambiamento»[9]. O meglio: si blocca e si annulla il tempo in un “senza tempo”, che rende eterni gli istanti e la durata, il sostare e il fluire precipitoso degli istanti, delle ore e dei giorni, mentre si osserva e si percorre il corso della vita accompagnati, dice ancora Garboli, dal «passo calmo e padano di Attilio Bertolucci filtrato dagli autori inglesi e dalla voce di Omero e di Tasso. Omero accompagna il fanciullo».

Anche Gardini, dopo aver tralasciato i problemi relativi al canone del romanzo in versi e  al rapporto tra prosa e poesia e dopo aver accennato all’influenza intertestuale esercitata da autori, indicati dallo stesso poeta o individuati dai suoi critici (Toulet, Keats, Proust, Woolf, Wordsworth, Whitman, D’Annunzio, Pound, per citarne alcuni), si sofferma sull’originalità dell’opera, «uno degli eventi più significativi nella storia della poesia del secondo Novecento». Concordiamo con lui, sapendo inoltre che nelle intenzioni di Bertolucci sin dagli anni trenta ci fu il progetto di scrivere un romanzo, annunciato a Zavattini, a Falqui e alla sua fidanzata Ninetta. Ecco cosa le scrisse in una lettera del 15 febbraio 1934 a proposito del romanzo, che desiderava intitolare Giovinezza: «Sarà una cosa delicata, realistica e fantastica, come sono certi sogni»[10]. Sono componenti che, sfumato il romanzo in prosa cui pensava, entrano nel romanzo in versi, che rappresenta, con Nicola Gardini, «l’espressione più pienamente realizzata della sua idea di Poesia» e, con Niccolò Scaffai, «il culmine di un’esperienza poetica»[11]. È un romanzo in cui si realizza pienamente l’aspirazione al romanzo lirico del giovane Bertolucci, un romanzo ricolmo del pensiero del Tempo, sì che, col suo Proust,  il Tempo perduto può rinascere al presente  delle evocazioni e delle epifanie, proprio tra realtà, fantasticheria e sogno.

Per Gardini, che sottolinea la presenza delle «sensazioni» al modo delle sensations del poeta inglese Wordsworth, il cui Prelude fu letto appassionatamente al tempo della Capanna indiana, e tradotto da Bertolucci, questo Tempo è un tempo percettivo, «sensazione delle sensazioni», con il suo trascorrere su tutto, uomini e cose. Ed è qui che prevale lo sguardo, «la generosità e la libertà dello sguardo», che gli permette di dare  «briglia sciolta, finalmente, a quella contemplazione giovanile troppo a lungo trattenuta, aggregando, accumulando dettagli e momenti, tempo e visione». In questa percettività si crea la frase lunga della Capanna indiana e della Camera, non al modo di Proust (ma il divagare è in realtà molto proustiano), ma propria del poeta padano, frase lunga e culminante nella “visione”, verso cui tese fin dalle sue prove giovanili, se ripensiamo all’influenza che ebbe sui Fuochi in novembre la poesia di Keats.

Il poeta aveva chiarito che la sua poesia era «rappresentazione» e in questa definizione aveva convogliato proprio le componenti che derivarono dalla sua passione e dall’esercizio  nei campi dell’arte e del cinema, sia a proposito della nozione temporale  di “presente” sia di “sguardo”, che contempla, crea emozione, rinnova la memoria del passato e, sempre con Gardini, «rinnova lo sguardo», che «riconoscendo, assegna valore; impreziosisce, estetizza perfino. E il quotidiano, il banale, il contingente si eleva in rito; la rusticità sa un po’ di Parigi o di Londra, la stalla di salotto chic». Nella Camera entrano la Storia, in cui si confrontano civiltà contadina e cittadina, esperienza e coscienza politica e morale, verità sociale e colore d’epoca, quotidianità e eccezionalità; le vicende non sono tanto rivissute cronologicamente (benché i capitoli del romanzo scandiscano gli anni, pur attraverso un procedimento epifanico e apparentemente libero dal procedere cronologico o documentaristico), ma con quell’«affetto per la realtà raccontata», che giustamente Nicola Gardini sottolinea, ascrivendolo a uno dei grandi meriti dell’opera.

«Affetto per la realtà» era ciò che Bertolucci assegnava, insieme allo «spirito del tempo», all’arte cinematografica e riteneva fosse pregio dei film da lui visti con sguardo complice e appassionato da cinephile. Con l’«affetto della realtà» egli abbracciò tutto: Casarola e l’Appennino profondo, la casa degli avi tra i castagni, il padre intraprendente e la madre inquieta, le proprie infanzia e giovinezza; Parma e il tram verde, i ponti e la campagna; l’amore per  Ninetta, la vita con lei e con i figli bambini; la Versilia dell’amore e delle vacanze; i fatti pubblici e privati dallo sciopero agrario del 1908 alle violenze fasciste al doloroso rastrellamento nazista del luglio 1944. Inseriti nel moto circolare delle stagioni e della natura universale, li abbracciò nella sua contemplazione epifanica e nella sua immaginazione nutrita dal vero, sì che, al pari di Monet, potè arrestare i battiti di luce e d’ombra irripetibili, l’ora subito fuggente, la meteorologia «emblema», con Garboli, «di resurrezione e di morte», il nascere, il prolungarsi e il consumarsi delle passioni e dei sentimenti, dalla felicità all’incanto, dal timore al dolore, il male della Storia e l’innocenza della favola, il quotidiano e il «dolce rumore» della vita.

[1] Attilio Bertolucci, Viaggio d’inverno 1955-1970, Prefazione di Giovanni Raboni, Milano, Garzanti, 2020.

[2] Attilio Bertolucci, La camera da letto, prefazione di Nicola Gardini, Milano, Garzanti, 2020.

[3] Cfr. Sara Cherin, Attilio Bertolucci. I giorni di un poeta, Milano, la salamandra, 1980, pp. 67-70.

[4] Cfr. Gabriella Palli Baroni, Attilio Bertolucci non le cose ma la vita, Immagini e parole. Roma 1929-1965, Roma, Campaiola Studio d’Arte, 2019.

[5] Si leggono ora in Attilio Bertolucci, Il viaggio di nozze. Versi inediti a cura di Gabriella Palli Baroni con disegni e acquerelli di Carlo Mattioli, Università degli Studi di Parma, Facoltà di Architettura, Mup, 2004.

[6] Cfr. Attilio Bertolucci Vittorio Sereni, Una lunga amicizia. Lettere 1938-1982, a cura di Gabriella Palli Baroni, prefazione di Giovanni Raboni, Milano, Garzanti, 1994, pp. 202-203.

[7] Attilio Bertolucci, Lezioni d’arte, Introduzione di Gabriella Palli Baroni, Milano, Rizzoli, 2011, p. 232. L’articolo fu pubblicato sul numero del giugno 1962.

[8] Il verso, che Bertolucci forse citò a memoria, appartiene al 5 Maggio di Alessandro Manzoni. La lezione esatta del v. è «in più spirabil aere».

[9]Cfr. la nota che Cesare Garboli appose ad Atilius in Falbalas. Immagini del Novecento, Milano, Garzanti, 1990, pp. 231-235.

[10] Si legge in Attilio e Ninetta Bertolucci, Il nostro desiderio di diventare rondini. Poesie e lettere, a cura di Gabriella Palli Baroni, Milano, Garzanti, 2020, p. 283.

[11] Niccolò Scaffai, Temporalità famigliare, in «Alias», 6 settembre 2020, p. 5.

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