Premierato e dintorni

Finalmente, dopo le chiacchiere della campagna elettorale (presidenzialismo, dialogo con l’opposizione, commissione bicamerale, ecc.) e dopo che la bozza Casellati aveva chiarito che l’obbiettivo della «madre di tutte le riforme» non era più la Presidenza della Repubblica, ma il premierato (concentrazione di poteri sul capo del governo eletto dal popolo col 40% dei voti o dopo il ballottaggio), il 3 novembre veniva approvato dal Cdm un articolato, che, eliminando anche quella soglia, prevedeva l’assegnazione automatica di un premio di maggioranza al vincitore e la modifica di alcuni articoli della Costituzione: l’art. 88, sul potere del capo dello Stato di scioglimento delle Camere, l’art. 92 sulla nomina del presidente del Consiglio, l’art. 94 sulla mozione di fiducia e sfiducia al governo e persino, a sorpresa, l’art. 59 sulla nomina dei senatori a vita da parte del Presidente della Repubblica (è parso dunque eccessivo, a questi sedicenti “cultori del merito”, che in Senato, accanto ai vari parlamentari scelti nei partiti per la fedeltà dimostrata ai rispettivi capi, continuino ad esservi anche «cittadini che hanno illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario»: questi dunque e non i primi, non potranno più sedere in Parlamento).

Due sono dunque gli assi portanti di questa riforma: l’elezione diretta del premier (l’obiettivo di ogni populismo, sconosciuto al costituzionalismo europeo) e il premio del 55% dei seggi a essa connesso (spettante al vincitore, a prescindere dalla soglia di voti raggiunta). La memoria della volontà di alterare i risultati elettorati ricorre inevitabilmente ai precedenti della legge Acerbo e della “legge truffa”: la prima che, per il cedimento di liberali e cattolici, aveva aperto la strada parlamentare al fascismo, attribuiva due terzi di seggi al partito o alla coalizione che avesse raggiunto il 25% dei voti, la seconda, con cui De Gasperi intendeva supportare la “democrazia protetta”, assegnava il 65% dei seggi al vincitore, purché fosse stata, comunque, raggiunta la soglia del 50 più 1 di voti.

Questa volta la maggioranza di governo si è tenuta le mani libere, non ha fissato alcuna soglia e si è limitata a prevedere che la legge elettorale garantisca «al candidato e alle liste collegate al Presidente del Consiglio il 55% dei seggi delle Camere»; ma nel frattempo, contravvenendo alle decisioni dei Costituenti, ha inserito nella Carta rinnovata il principio maggioritario in materia elettorale, blindando in tal modo non solo questa ma anche le future norme regolatrici della materia.

Le audizioni in Senato dei maggiori costituzionalisti italiani – Cartabia, Zagrebelsky, De Siervo e Silvestri – ha già fatto giustizia della motivazione con cui questo esecutivo e i media di contorno hanno accompagnato il cammino della riforma («questa legge non intacca i poteri del capo dello Stato»), dato che, a parte la revisione degli articoli della Costituzione già richiamati che l’hanno privato di singoli poteri, la semplice elezione diretta del premier da parte dei cittadini depotenzia automaticamente, relegandolo sullo sfondo, il ruolo di un presidente della Repubblica nominato non dal “popolo”, ma “solo”, indirettamente, dal Parlamento.

Pure destituita di fondamento è l’altra asserzione, pure costantemente ribadita, secondo cui una tale riforma sarebbe necessaria per assicurare la stabilità dei governi, poiché l’esperienza di questo trentennio ha evidenziato come la maggioranza dei seggi garantisce sì la formazione di un esecutivo ma non la sua durata, che dipende invece dalla coesione o meno dei partiti raccolti nella coalizione vincente; coesione che è sempre deperita in tempi brevi in quelle di sinistra e che è stata più a lungo mantenuta in quelle di destra solo grazie allo scambio di bandierine, salvo poi franare miseramente, per comune insipienza, in quella gestita da Berlusconi sino al 2011.

Ma è la situazione attuale che rende ancor più pretestuoso tale argomento: nelle elezioni politiche del 2022 la coalizione guidata dalla Meloni, conseguendo il 43,8% dei voti validi, ha ottenuto 350 seggi su 600, con una percentuale pari al 58,3%, superiore quindi a quella prevista dalla riforma progettata. Quindi già con la normativa esistente è stato possibile dar vita ad un governo “stabile”, senza dover ricorrere a una così radicale trasformazione della Costituzione.

Se ciò invece si persegue con tanta decisione, la ragione va ricercata altrove e non attiene alla semplice salvaguardia della durata di questo o quel governo, quanto piuttosto al mirato programma di mutare in modo permanente la forma-Stato attraverso l’alterazione dei suoi equilibri interni, “adeguando” la Carta del ’48 a quella costituzione materiale che in quest’ultimo trentennio ha messo le radici nella realtà istituzionale del paese.

Il problema, a questo punto, non è però quello di misurare la distanza che ormai separa lo Stato dei partiti previsto dalla Costituzione del ’48 da quello attualmente funzionante, tema su cui esiste ormai una vasta e ripetitiva letteratura, bensì quello di esaminare come e perché ciò sia avvenuto nel tempo e perché oggi sia divenuto urgente, per la maggioranza di governo, colmare quella distanza, sì da trasformare la Repubblica parlamentare in uno Stato decidente.

Il primo passo, sotto questo profilo, era stato compiuto già da chi, sulla spinta del maggioritario, aveva ritenuto di poter dividere l’Italia in due: «noi contro i comunisti» era stata infatti la parola d’ordine con cui Berlusconi, nel ’94, era “disceso in campo” e con la quale aveva proiettato sull’avversario politico il fantasma del nemico di sempre, con cui ci si doveva solo contrapporre, non più confrontare.

Questa costruzione ideologica aveva però bisogno di riplasmare la cronaca, reinventare il comunismo attraverso le “toghe rosse”, decise a impedire, per conto terzi, le riforme con cui il politico liberale tentava di risollevare le sorti dell’Italia, precipitate a causa dei partiti della Prima repubblica. Ma per dare una qualche consistenza a questa narrazione, è stato necessario rivedere anche la Storia, colorando negativamente la Resistenza (una superflua guerra civile, sporcata per giunta dal sangue poi sparso dai comunisti), delegittimando così la Costituzione nelle sue radici, rappresentata dai più facinorosi (Ostellino) come “sovietica” e comunque bollata dal nuovo “buon senso comune” come frutto di un clamoroso compromesso con quello storico nemico, foriero di tutti gli “inciuci” successivi.

In questo brodo di cultura è maturato, insieme alla ricercata demolizione dell’antifascismo, il contemporaneo “sdoganamento” degli eredi del Msi, dapprima tenuti in subordine al tempo di Berlusconi, quindi emersi come protagonisti al momento del suo inarrestabile declino e dopo l’esito infelice dell’esperienza di Salvini nel governo Conte. Così nel ’22, l’elettorato di destra, fedele alla solita coalizione, ha gonfiato al suo interno il terzo partito, la lista di Fratelli d’Italia, che per quanto riguardava la contrapposizione al comunismo, vero o immaginario che fosse, aveva tutte le carte in regola per guidare questa destra; la sua crescita repentina è stata poi favorita, in modo determinante, dallo scoppio dei conflitti armati in Ucraina, prima, nel Medio Oriente, poi.

Il clima di guerra fredda calato sull’Europa dopo il febbraio ’22 ha radicalizzato le contrapposizioni e ha condizionato pesantemente l’esito di quelle elezioni, poiché di fronte al tergiversare di Berlusconi con l’amico Putin e ai rapporti d’interesse coltivati da Salvini con gli emissari russi al Metropol, l’accorta Meloni, ottenuta con la spinta di Trump l’investitura europea dal partito dei conservatori polacchi, aveva subito fatto dimenticare il sostegno dato alla Federazione Russa ancora nel 2017 (con le Tesi di Trieste) e promesso per tempo fedeltà all’amministrazione Usa, diventando così la leader degli atlantisti di casa nostra.

Questa sua scelta di politica internazionale ha fatto aggio su ogni altra considerazione.

Sulla pregiudiziale antiputiniana si è incardinato il confronto delle diverse propagande elettorali, su questa scelta la Meloni ha fatto il (relativo) pieno di tanti sedicenti moderati; e questi, una volta appresi i risultati delle urne, hanno scoperto in lei una serie di qualità prima non percepite («la Repubblica», il 16.02.2023, è giunta a definirla «una fuoriclasse»). «La Stampa» e il «Corriere» – Orsina e Galli della Loggia – hanno cercato di cucire addosso a Fratelli d’Italia la veste del partito conservatore, lontano dal fascismo: ma già i suoi vertici, La Russa, con la storia personale e col voluto sfregio inferto ai partigiani di Via Rasella e Lollobrigida, con la sua fattiva esaltazione di Rodolfo Graziani e gli sproloqui sulla sostituzione etnica, dimostrano, per dirla con Isabella Rauti, che «quelle radici non gelano mai»; e, come non bastasse, da ogni angolo del paese sono poi emersi periodicamente rigurgiti fascisti, come si è visto in occasione della parata militare dei mille camerati schierati ad Acca Larentia o come si è appreso dal portavoce del presidente della Regione Lazio, Marcello De Angelis, secondo cui neppure la strage di Bologna è stata compiuta da fascisti, malgrado diverse sentenze della Cassazione abbiano accertato il contrario.

Orbene, la Meloni, che con Federico Mollicone, co-fondatore di Fratelli d’Italia, aveva presenziato nel 2012 alla posa della lapide commemorativa per l’eccidio di Acca Larentia (per ricordare gli «assassinati dall’odio comunista e dai servi dello Stato», firmato: «i camerati»); che, nel 2004, aveva sostenuto l’estraneità dei Nar alla strage di Bologna (così si era espressa in un pubblico evento, organizzato da Azione Giovani a Catania, ove era intervenuto anche Luigi Ciavardini, l’assassino del giudice Amato, allora imputato, e poi condannato, proprio per quella strage) – nel 2023 non ha potuto sciogliersi da quel passato ed è rimasta in silenzio; il «Corriere», del resto, già prima della sua elezione, aveva sostenuto che non era più il caso di sollevare quei problemi (e aveva avvertito gli incauti che l’antifascismo non portava voti); dopo il responso delle urne, poi, il quotidiano milanese molto si è impegnato per migliorare l’immagine della premier, divenendo prodigo di consigli: così, autorevoli opinionisti le hanno suggerito la necessità di guardare avanti e di dialogare col “centro” (Galli della Loggia, il «Corriere» 21.09.2023) o le hanno spiegato come uscire dall’impasse in cui era finita sul Mes, senza perdere troppo la faccia (Monti, il «Corriere» 23.06.2023).

La Meloni, ovviamente, ha fatto la sua parte: la scelta di appiattirsi sulla “linea Draghi”, dopo averla criticata quando era all’opposizione, è stato il biglietto da visita con cui si è presentata in Europa (e gli abbracci con Ursula von der Leyen, tanto vituperata in precedenza, sono stati sempre molto pubblicizzati): questa e le sue altre giravolte (i blocchi navali dimenticati, le tasse alle banche subito evaporate) sono state minimizzate e “contestualizzate”: la coerenza – tanto esaltata in campagna elettorale – ha cessato di essere una virtù, perché, ora, in «un contesto storico troppo cangiante e pericoloso, non importa più di tanto» (Orsina, Se cambiare idea consolida Meloni, «La Stampa» 23.08.2023). Del resto i riconoscimenti rivolti dall’amministrazione Usa al governo vassallo per le scelte in politica internazionale, che tanto hanno commosso il direttore di «Libero» (I veri liberatori elogiano la Meloni ha titolato il 25 aprile), hanno cancellato gli ultimi dubbi e chiuso trionfalmente il cerchio dei consensi.

Ma la presidente del Consiglio sa bene che in questi tempi il voto è liquido e che le circostanze favorevoli che le hanno garantito il successo nel ’22 potrebbero, almeno in parte, non ripresentarsi; per questo ha deciso di utilizzare la presente congiuntura per rendere stabile e duraturo il successo della destra da lei guidata. E ha premuto sull’acceleratore sul premierato.

La disponibilità mostrata nei confronti dell’opposizione durante la campagna elettorale è subito rientrata («la riforma ce la facciamo da soli»), ogni compromesso è stato liquidato («l’elezione del premier è fuori discussione»), l’obiettivo deve essere raggiunto, perché deve sancire la rivincita storica degli “esuli in patria”, finalmente in grado di mutare di segno alla Costituzione antifascista del ’48.

Questa è la partita, istituzionale e simbolica, ormai avviata.

L’opinione pubblica è stata preparata: da tempo Galli della Loggia, quando parla della Carta del ’48, usa virgolettarne la qualifica “antifascista”, quasi si trattasse di un’invenzione della sinistra («Corriere 11.08.2022); e, più recentemente, con un eccesso di zelo, Panebianco ha sostenuto che gli elettori devono convincersi «che non è stata la Costituzione a garantire fin qui la democrazia», bensì «la pax americana, la protezione offerta al nostro paese dagli Stati Uniti» («Corriere» 29.11.2023): la Carta del ’48, quindi, può essere tranquillamente messa da parte.

Avanti dunque verso una Costituzione di nuovo tipo.

Con decisione, ma senza fretta eccessiva, peraltro, perché Meloni deve tener conto delle esigenze dell’alleato più vicino, la Lega di Salvini. Per questo, almeno sino alle elezioni europee, la riforma del premierato deve procedere di pari passo con quella dell’autonomia differenziata, tanto che in Senato una zelante regia ha voluto che, nello stesso giorno, il 16.01.2024, in Commissione si parlasse della prima e in aula si discutesse della seconda, in una sorta di circo mediatico a due piste. Del resto erano già sorte troppe questioni per la spartizione dei candidati presidenti in vista delle prossime elezioni regionali e non era il caso di creare ulteriori frizioni tra gli alleati.

Nel frattempo, all’ombra di queste progettate riforme costituzionali, il governo ha seminato, pressoché indisturbato, in vari campi, tracce evidenti della direzione di marcia che ha inteso dare alla sua politica.

I provvedimenti via via emanati, al di là della loro apparente disorganicità, hanno invece un solido collante, caratterizzato da un’univoca impronta classista: l’avversione per i lavoratori dipendenti, manifestata con la netta chiusura alla proposta di un salario minimo di 9 euro lordi all’ora, malgrado vi siano oggi 3 milioni di lavoratori che non raggiungono questa soglia (e la relativa proposta di legge dell’opposizione è stata vanificata con l’ennesima forzatura, con un emendamento, cioè, che l’ha trasformata in una delega al governo per poter decidere diversamente!); il vero e proprio accanimento dimostrato nei confronti dei poveri assoluti (2,18 milioni di famiglie, per complessivi 5,6 milioni di individui, si trovano oggi in questa condizione), con la cancellazione del pur limitato e imperfetto reddito di cittadinanza (ciò al fine di spingere quei «fannulloni distesi sul divano» ad accettare qualsiasi lavoro, anche di tipo servile); il razzismo praticato nei confronti degli immigrati “di colore” (i 150.000 “bianchi e cristiani” dell’Ucraina sono stati accolti invece senza alcuna protesta), utili solo se impiegati nei campi con salari da fame (e se no, lasciati morire in mare, come visto con lo scaricabarile di Cutro e poi con la legge, varata per l’occasione, volta a ostacolare i soccorsi a opera delle Ong).

Di contro, mentre la scuola arranca e la sanità pubblica viene progressivamente privatizzata, nel Pnnr rinegoziato si sono “trovati” 12 miliardi da destinare alle imprese; la Meloni, che già definiva le tasse «un pizzo di Stato» e il Fisco «persecutore», ha dichiarato all’assemblea degli artigiani del Cna che il suo governo combatterà la «menzogna corrente» che individua nelle partite Iva e nelle piccole imprese la massa dell’evasione; ma si è dimenticata di dire che, dal rapporto del Mef del 28.09.2023, è risultato il mancato pagamento dell’Irpef da parte di imprenditori e autonomi, nel 2020, per una somma di 28,2 miliardi di euro e una evasione dell’Iva pari a 22,8 miliardi; se a ciò si aggiunge che gli imprenditori hanno omesso di versare 9,1 miliardi di contributi previdenziali, si avrà il quadro sufficientemente completo di quale sia stata la voragine aperta nei conti dello Stato da queste omissioni e di chi l’abbia provocata («La Stampa», 11.11.2023).

È in questo contesto che il governo ha pensato bene di incentivare (oggettivamente?) l’evasione, aumentando sino a 5.000 euro i pagamenti in contanti, inserendo nella legge di bilancio 12 sanatorie e riproponendo il concordato fiscale preventivo per le solite partite Iva e i piccoli imprenditori, garantendo loro, in caso di accordo, l’assenza di qualsiasi controllo per il biennio successivo.

Ma tant’è: nel Dna di questo esecutivo non vi è solo la difesa a oltranza dei profitti comunque accumulati, ma pure quella di difendere le rendite di posizione di taxisti, pescatori e balneari (proprio durante il contenzioso con Bruxelles, Salvini ha ulteriormente abbassato i canoni che questi ultimi già versano in misura minima rispetto al fatturato), ignorando ostentatamente il duplice monito di Mattarella sul punto e sfidando, con un sussulto sovranista, l’Ue e la prevista procedura d’infrazione.

Nulla di particolarmente nuovo, si dirà: si tratta del “normale” svolgersi della lotta di classe praticata da anni con particolare intensità in Italia, che approfondisce quotidianamente le disuguaglianze esistenti e che periodicamente viene rappresentata dalle statistiche che evidenziano, per esempio con il rapporto Oxfam, che lo 0,1% della popolazione detiene una ricchezza pari al 60% di quella riservata alla fascia più povera e che, negli ultimi 10 anni, il numero dei minori in povertà assoluta è triplicato, mentre quello dei miliardari è addirittura sestuplicato; di nuovo, se mai, vi è l’aggressività e il disprezzo manifestato da questi governanti nei confronti di coloro che rimangono ai margini della produzione (la Meloni ha qualificato il reddito di cittadinanza metadone di Stato, equiparando così i disoccupati poveri – ritenuti responsabili del loro stato – a fannulloni drogati) o di coloro che costano e non producono affatto (per i migranti sono stati tagliati i fondi per l’accoglienza, mentre si sono moltiplicati i centri di detenzione – amministrativa! –, un paio dei quali da costruire anche in Albania: altro successo “storico” della Meloni).

L’ascensore sociale non solo si è da tempo fermato, ma, grazie alla precarizzazione crescente del lavoro, appare in costante discesa. L’irrigidimento istituzionale che il premierato configura, con le scelte politiche che lo preparano (spoils system esteso a piacimento, occupazione progressiva dei media, stretta repressiva per tenere a bada i “diversi”, tutela “garantista” a protezione di affaristi e “colletti bianchi”), diviene così lo strumento per “governare” questa società profondamente spaccata, nella quale troppi cittadini vagano come “sonnambuli” in attesa del pifferaio di turno.

E ora che la Meloni è arrivata, le opposizioni, come le stelle, stanno solo a guardare.

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