Gli Stati Uniti di Obama e il caos mediorientale

Irandi Rino Genovese

Non v’è dubbio, “quella potenza declina”, avrebbe detto Bertolt Brecht: ma gli Stati Uniti restano il paese leader del mondo occidentale che, dopo la comprovata inesistenza dell’Europa, appare in lento declino insieme con gli Stati Uniti. Se dalla storiografia futura una data sarà trovata per indicare l’inizio della fine, questa potrebbe essere il 2003, anno della seconda guerra del Golfo con la quale, imbrogliando le carte all’Onu, una coalizione guidata dall’America di Bush figlio e dall’Inghilterra di Blair cacciò l’Occidente in un pantano in cui ancora si dibatte. Oggi in Iraq gli Stati Uniti (che si sono ritirati dal paese nel 2011, dopo otto anni di occupazione militare) sono oggettivamente alleati delle milizie sciite di osservanza iraniana – che li detestano – nella guerra contro il gruppo sunnita denominato Stato islamico. “Lo Stato islamico” – dice, intervistato da Le Monde del 19-20 luglio 2015, uno dei capi sciiti – “è la creazione dei servizi occidentali e il loro strumento militare per dividere la regione e ridisegnare i confini stabiliti dagli accordi Sykes-Picot [sono gli accordi del 1915 tra la Francia e il Regno Unito] su base etnica o religiosa. L’obiettivo finale è la sopravvivenza dello Stato di Israele come Stato ebraico”. Questo per mostrare come certi “alleati” sfuggano del tutto alla presunta egemonia occidentale, e come non siano meno determinati nella loro avversione all’Occidente dello stesso Stato islamico.

Tutto ciò spiega perché Obama, nell’ottica di una riduzione dei potenziali conflitti, si sia spinto a firmare un accordo con l’Iran che rischia di indebolirlo all’interno (ma il presidente, al suo secondo mandato, non ha da misurarsi in una prossima prova elettorale) e lo mette in difficoltà con Israele. Obama ha fatto certamente la scelta giusta, ma l’ha fatta in uno stato di necessità. In Siria, dove alleato dell’Iran è il dittatore Assad, una guerra civile con più forze in campo, e di differenti confessioni, non accenna a risolversi. Sarà una guerra regionale di lunga durata che vede impegnate, dalla parte della frontiera libanese, le forze sciite di Hezbollah, il Partito di Dio, anche questo di osservanza iraniana. Che lo voglia o no, nell’assenza di una consistente alternativa laica, l’Occidente gioca una partita che è la stessa di Assad; sono solo un ricordo le manifestazioni e le proteste, soffocate nel sangue, che avevano spinto i paesi occidentali a dichiarare che Assad se ne sarebbe dovuto andare. Sull’altro fronte, quello sunnita, è l’Arabia Saudita che si muove più o meno larvatamente nel caos siriano, mentre interviene apertamente in chiave anti-sciita nello Yemen.

Non si profila alcuna soluzione. Il mondo arabo-musulmano è scosso al suo interno da una guerra civile su basi confessionali, e l’Occidente non sa bene che pesci pigliare, a parte le prese di posizione contro il “terrorismo internazionale”. La strategia degli Stati Uniti di Obama, lo sappiamo, è quella del minimo intervento (niente truppe al suolo, per esempio) ed è anche quella degli omicidi mirati contro i jihadisti, che saranno anche produttivi ma sono immorali e non contribuiscono certo – anche per via dei cosiddetti danni collaterali che ne conseguono – a crearsi delle simpatie. Non esiste un’egemonia occidentale in quel mondo, non esiste più da tempo. C’è solo il navigare a vista, e ci sono delle alleanze tattiche con quelli che potranno essere i nemici di domani.

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