Genealogia della nostra ferocia

Nicola Lagioiadi Antonio Tricomi

L’impressione è che La ferocia (Torino, Einaudi, 2014) rappresenti, se non una svolta, uno snodo però cruciale nell’opera di Nicola Lagioia. Lo sforzo compiuto dallo scrittore è il medesimo da cui nascevano i suoi altri romanzi, vale a dire Tre sistemi per sbarazzarsi di Tolstoj e, ancor più, Occidente per principianti e Riportando tutto a casa: dar corpo a disilluse archeologie di un’era, la nostra, segnata da una radicale crisi della civiltà e nella quale si registrano quindi sia la carnascialesca bancarotta dei valori etici e culturali, sia il nichilistico ripudio dei princìpi democratici e legalitari. E in particolar modo con quello precedente, il libro grazie al quale Lagioia nelle scorse settimane ha vinto il premio Strega, condivide anche la cornice narrativa: una Bari e una Puglia intera letteralmente sfigurate dalla smania di ricchezza, e dagli appetiti tutti, dei troppi impuniti che si rivelano assoggettati all’impudica ossessione dell’ascesa sociale e di un giocoforza frustrato desiderio di godimento a qualsiasi costo, sicché una città e una terra che diventano l’emblema non solo del Meridione d’Italia, ma di una nazione che il narratore mostra di ritenere la cartina di tornasole del degrado occidentale. Per sondare il quale l’autore barese aveva fatto sin qui ricorso anzitutto a un inesausto virtuosismo espressivo, se non addirittura a un frizzante camaleontismo stilistico, che lo aiutava a restituirci un’esasperata e dissacrante, una parodistica ma ugualmente tragica rappresentazione mimetica del funzionamento e dei risultati di quelle macchine, non soltanto massmediatiche, incaricate di costruire e di imporre linguaggi e immagini dalla cui fruizione obbligata ognuno ricavi un fuorviante ritratto della propria società come unico spazio davvero libero e aperto, come esclusiva garanzia di felicità e benessere per chiunque. In altre parole, specie in Occidente per principianti, una disciplinata abilità ventriloqua consentiva a Lagioia di confrontarsi con uno dei tratti precipui del nostro tempo – cioè la rinuncia alla profondità da parte di un pensiero al contrario entusiasta di mantenersi in superficie, di aderirvi e così di perdersi in mille rivoli – passando in rassegna i miti, le convenzioni, i fremiti orgiastici, le promesse di autenticità, le illusorie o demagogiche pretese di senso di un’età strutturalmente e, in una certa misura, persino felicemente vuota di significato e di verità, con l’obiettivo sia di demistificare gli assunti ideologici di una civiltà capitalistica sedicente aliena da qualsivoglia vocazione totalitaria, sia di alludere alla distruzione del tessuto sociale non proprio invisibilmente prodottasi dietro le quinte di quell’interminabile spettacolo di consumistica ingordigia collettiva alla cui definizione noi tutti siamo richiesti di partecipare attivamente.

Ebbene, pur senza perdere in congrua inventività e in elegante effervescenza, la scrittura di Lagioia, nella Ferocia, si asciuga molto più di quanto i suoi abituali lettori possano magari supporre, divenendo lucidamente rigorosa nello scolpire gli ambienti e le figure che ambisce a evocare e spietatamente esatta nel riconoscere, all’origine delle logiche che caratterizzano il fosco spaccato sociale offerto al pubblico, il sentimento dichiarato dal titolo del libro o, per meglio dire, il sadomasochistico impulso distruttivo e autodistruttivo percepito da coloro che vivono l’incontenibile «rabbia», cui il nostro tempo sembra tutti inderogabilmente educarci, «come l’arma di chi brama la sconfitta» e però la ricerca inseguendo perversi miraggi di non plausibile affermazione individuale. Processo di sofisticata rastremazione anche stilistica che si spiega col desiderio dell’autore di non misurarsi più, benché al fine di delegittimarne la funzione pubblica, con le scintillanti immagini di superficie smerciate da un presente abile a camuffare i propri scempi, per scoprire invece la segreta legge, che in profondità governa l’epoca attuale, in una spudorata regressione degli esseri umani tutti a un belluino stato di natura in cui a dominare, senza nutrire pietà alcuna per i vinti, sono ovviamente i soggetti meglio collocati nella scala sociale. Ne deriva un maturo esempio di romanzo famigliare quasi alla maniera di Balzac, che sfrutta un intenzionalmente pretestuoso spunto narrativo ricavato dalla letteratura poliziesca, quale la concepivano scrittori come Simenon, per mostrarsi a propria volta e però mai pregiudizialmente feroce nell’accusare appunto di ferocia (finanche gratuita) l’oscena borghesia italiana, sì da proporsi alla stregua di un compiuto risultato della disciplina forse più adatta a studiare una civiltà divenuta brutale: «l’etologia». Grazie a una narrazione che sembra addirittura avvolgerli, e che tende perciò a frantumarsi – verrebbe da dire: tenendo a mente la lezione di Volponi o, più verosimilmente, del miglior romanzo modernista – in persino autonomi blocchi di prosa disponibili ad avanzare e retrocedere nel tempo per scrutare la loro esplosa interiorità, i vari personaggi di una storia a suo modo corale – tutti indubitabilmente tridimensionali, a differenza di quanto avveniva forse in Riportando tutto a casa – sono dunque scortati dall’autore alla dolorosa scoperta o all’ostinato rinnegamento della logica assolutoria che li autorizza, e che altresì legittima l’intero corpo sociale cui essi appartengono, a perpetrare ogni nefandezza. A guidarli, in un’epoca nella quale sembra divenuto incontestabile che «nessuno ha più coscienza delle proprie azioni peggiori», è insomma la convinzione che per loro non sussista ormai «scelta» e non possa di riflesso esserci «nemmeno colpa», quest’ultima dovendosi attribuire o «al meccanismo», supposto immodificabile e comunque intrinsecamente violento, che determina i comportamenti degli individui o – in alternativa – «alla natura», presunta divoratrice, che riduce gli esseri umani a suo pasto.

Ci siamo convertiti in bestie feroci pronte a sbranarsi a vicenda – lascia intendere Lagioia – perché ci siamo per mera ipocrisia persuasi di poter vittimisticamente esibire un’innocenza che solo per bieco opportunismo siamo lieti di addebitare a una nostra cinicamente dichiarata impotenza ontologica. In quest’ottica, si direbbe allora che il romanzo scaturisce da un sentimento di costernata stupefazione e sofferto disincanto analogo a quello che ispirava un libro importante di qualche anno fa, Spaesamento di Giorgio Vasta, giacché, in maniera appunto non diversa dal collega, l’autore barese, da un lato, sembra voler notare come nessuno di noi possa ormai supporre di non avere i necessari strumenti culturali per riconoscere e decifrare, ad esempio, l’imbarbarimento dell’Italia, ma, dall’altro lato, parrebbe incline ad ammettere che a mancare non sono oggi convincenti diagnosi intellettuali sul presente, bensì proposte in pari grado credibili di trasformazione in meglio dell’ordine dato. Anche se La ferocia, diversamente dal testo di Vasta appena ricordato, a ben guardare una strada in tal senso la indica. Il solo personaggio del romanzo che abbia il coraggio di scoprire tutta intera e di impegnarsi ad allontanare quantomeno da sé l’abiezione in cui è nato, che lo circonda e della quale arriva a giudicarsi perciò corresponsabile, è anche l’unico che, pur sapendo di ricavarne un danno materiale, trova la forza di dire risolutamente “no” all’abisso morale che l’odierna società capitalistica ci intima di venerare. Perché, ci suggerisce Lagioia, ogni superamento del sistema vigente, ancora prima che dal “sì” a un qualche modello alternativo di convivenza, discende dal sincero, feroce rifiuto dell’esistente.

[Con il titolo Le archeologie di un’era carnascialesca, in “La Città. Quotidiano di Teramo”, 8 ottobre 2014]

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