Il nominabile attuale

Calassodi Mario Pezzella

Fino a che punto una critica tradizionalista della modernità può coincidere con quella del pensiero radicale? A quale limite si separano e si rende evidente la reciproca distanza? Si pongono queste domande leggendo l’ultimo libro di Roberto Calasso, L’innominabile attuale (Milano, Adelphi, 2017). Il titolo si riferisce al mutamento avvenuto nel mondo a partire dall’11 settembre 2011: non si può più parlare di liquidità, di fluidità indeterminata, come fece Bauman per la seconda metà del Novecento, ma di vera e propria “inconsistenza assassina”. Calasso mette insieme con questo termine alcuni fenomeni che sembrerebbero apparentemente avere poco in comune: il terrorismo suicida dei fondamentalisti islamici, il decadere dell’esperienza a massa informativa scandita dal ritmo binario e discontinuo dei computer, il declino delle religioni sostituite dal “culto della società divinizzata”, immanente e fine a se stesso. L’inconsistenza che accomuna questi disparati fenomeni sarebbe caratterizzata da un’adesione all’esistenza immediata, senza più alcuna traccia di quell’ethos del trascendimento, che per De Martino (ignorato peraltro da Calasso) costituiva il nucleo della cultura occidentale. Perfino l’omicidio-suicidio terrorista ricade nel mondo “istantaneo e simultaneo” dei media informatici, brilla un attimo e poi ricade in ceneri senza memoria. È un puro amore del nulla. La parte più geniale del libro è la seconda, un montaggio letterario di testimonianze degli anni tra il 1933 e il 1945, in cui si rintracciano i segni della fine della cultura europea e la distruzione dell’esperienza che fa da prologo all’inconsistenza attuale. Un filo unisce dunque la terribile prima metà del Novecento e ciò che ora stiamo vivendo, mentre una parentesi di effimera euforia sembrano gli ultimi decenni del secolo passato.

Calasso fa un uso molto ampio della categoria di secolarizzazione, che però già a Benjamin sembrava ormai inadeguata. Il capitalismo è andato ben al di là della secolarizzazione, secondo il filosofo berlinese: è diventato esso stesso un vero e proprio culto religioso, benché demoniaco e invertito rispetto alle immagini tradizionali del sacro. Il dio invisibile è stato sostituito dal denaro; i riti dall’adorazione delle merci; lo spirito santo dal valore di scambio. Il capitalismo ha occupato i ruoli simbolici delle antiche religioni, se ne è appriopriato distorcendoli dalla loro figura originaria. Come Marx diceva, “tutto si può vendere o acquistare. La circolazione diviene la grande storta sociale dove tutto affluisce per uscirne di nuovo come cristallo di danaro. Nulla resiste a questa alchimia, neppure le ossa dei santi…”. Di questa sorta di religione demonica e ipnotica del capitale, Calasso stesso si era occupato nella Rovina di Kash, a proposito del feticismo della merce e dei suoi grilli teologici. Nel suo ultimo libro ripropone invece l’immagine di un homo saecularis, come lo chiama, e sembra sfuggirgli la presa demonica e sovrarazionale che il capitale – e non la società in generale – esercita sulla psiche dei viventi.

Ma il punto in cui le strade dell’intelligente tradizionalista e del critico sociale si dividono riguarda proprio la tecnica e il capitale: quest’ultimo non viene mai nominato. Per Calasso la crisi della modernità si riassume nel dominio della tecnica, non diversamente che in Severino o ancor prima in Heidegger; mentre per il pensiero critico esso è indissociabile dal potere sociale ed economico, che ne determina la figura presente. L’ “innominabile attuale” non è poi così senza nome: molti fili lo legano al processo di astrazione del capitale che consuma i corpi e le menti dei viventi, e li consegna appunto all’inconsistenza.

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