Linguaggio esopico degli intellettuali sotto il fascismo: un esempio illustre ricostruito da Canfora

Luciano Canforadi Silvia Calamandrei

Luciano Canfora ha già dedicato pagine significative a Concetto Marchesi, latinista e comunista staliniano che lo ha sempre intrigato, a partire dall’episodio di Giovanni Gentile giustiziato dai partigiani fiorentini.

A partire da quella sua indagine (La sentenza, Palermo, Sellerio, 1985), condotta come una perizia filologica – come ebbe a commentare Sergio Romano sul «Corriere della sera» –, ha continuato a ricevere e a raccogliere testimonianze e materiali avviando una ricerca ben più vasta sull’intera biografia del grande classicista, fin dagli anni giovanili siciliani e all’adesione al bordighismo, per approdare al secondo dopoguerra e alle sue prese di posizione in occasione del Ventesimo Congresso, ostinato oppositore di Krusciov e della messa in discussione dello stalinismo.

La biografia (Il sovversivo, Roma-Bari, Laterza, 2019), condotta con la consueta acribia filologica impiegata per il papiro di Artemidoro, con ampie ricognizioni negli archivi e negli scritti storiografici, memorialistici e autobiografici, si dipana per più di novecento pagine, alternando la ricostruzione dei contributi scientifici dello studioso di Livio, Tacito e Sallustio alla storia della letteratura latina, all’approfondimento degli snodi del suo impegno politico di comunista e di intellettuale e accademico, sotto il fascismo e dopo la Liberazione. Canfora è in continua colluttazione con i biografi troppo agiografici e o le falsificazioni propagandistiche a posteriori, di cui spesso la responsabilità risale allo stesso protagonista, che preferisce adombrare un’origine proletaria, giocare su una propria partecipazione ai moti siciliani o nascondere momenti di compromissione eccessiva con il regime fascista. Canfora è infastidito dalle imprecisioni e dalle falsificazioni, ed è orgoglioso di poter allineare le prove che le smentiscono, bacchettandone i responsabili. Ma è anche consapevole che la memoria tradisce e che le falsificazioni spesso corrispondono a sovrapporsi di ricordi e di punti di vista in un procedere tortuoso degli avvenimenti e in un alternarsi di elaborazioni. Ci offre con questa opera magna un bel contributo alla metodologia storiografica, non accontentandosi mai della vulgata, ma cercando spiegazioni anche alle sistemazioni a posteriori. E fa appassionare il lettore all’indagine, in un contrappunto di testimonianze, lasciando talvolta in sospeso il giudizio.

Ci sono tanti begli esempi di approfondimento, a partire da quella conferenza su Tacito a Perugia del 1942 di cui esistono tante interpretazioni e versioni. Non va dimenticato che Marchesi sarebbe andato rieditando le sue opere apportandovi via via modifiche significative nei passi più controversi, Ẻ il caso di questa conferenza che si colloca nell’ambito delle celebrazioni fasciste dei Grandi Umbri (da Tacito a San Benedetto da Norcia), il cui finale di esaltazione della romanità può ben essere stato apprezzato dall’organizzatore Cornelio Di Marzio (nel cui fondo è conservato il manoscritto autografo che Marchesi gli aveva inviato), che dichiara che sarà particolarmente gradito al Duce.

Canfora ne segue le tracce nelle lettere scambiate tra amici all’epoca (la conferenza a Perugia doveva essere occasione di una retrouvaille tra Valgimigli, Marchesi, Diego Valeri e altri a Bagnoregio da Bonaventura Tecchi), nel Diario di Piero Calamandrei che riferisce quanto gli ha raccontato Pancrazi, e negli archivi stessi di Di Marzio. E la conclusione non può che essere di ambiguità della conferenza, del resto subito mandata alle stampe da Di Marzio stesso: sicuramente non ha alcuna connotazione antifascista, ma neanche antitedesca come si è preteso. Ma è interessante notare come nella corrispondenza privata Marchesi faccia di tutto per minimizzare e glissare sulla sua conferenza, mentre la portata è colta da Pancrazi e Calamandrei, che annota: «andò a salutarlo il gerarca Cornelio Di Marzio, che rappresentava il governo, e stringendogli la mano gli disse: “Questa chiusa farà molto piacere al Duce”» (Diario, ed. 2015, II, pp. 78-79).

Secondo Canfora c’è un sentimento di inferiorità degli azionisti nei confronti dei comunisti, capaci di tenere in piedi una rete di resistenza clandestina, e una “scivolata” di Marchesi non passa inosservata a chi è reduce dalla collaborazione con Grandi sui codici. A parte il giudizio dell’autore, simpatetico più verso Marchesi che verso Calamandrei, è interessante comunque la comparazione tra i comportamenti di antifascisti di diverse appartenenze che hanno entrambi giurato per conservare l’insegnamento universitario e che si trovano chiamati a collaborare a iniziative del regime per le loro alte competenze scientifiche.

Altro momento topico è l’assunzione del rettorato a Padova e il discorso di inaugurazione dell’anno accademico. Marchesi è l’unico tra i rettori nominati nell’agosto 1944 a restare al suo posto sotto il regime di Salò, a differenza di Einaudi, Calamandrei e De Ruggiero, che si “danno alla macchia” timorosi di arresto. Alla cerimonia di inaugurazione assiste anche il ministro Biggini, con il quale Marchesi intratteneva ottimi rapporti. Questo discorso, che viene pronunciato in nome dei “lavoratori”, e nel pensiero del Marchesi corrisponde alla sua ideologia comunista, può ben essere recepito nel linguaggio “socialisteggiante” di Salò, e prestarsi all’equivoco di una compromissione di Marchesi. Così la interpreta del resto il suo Partito, che si appresta ad adottare un provvedimento di espulsione nei suoi confronti, peraltro mai documentato. Comunque Marchesi dovrà cercare di nuovo il contatto col Partito, riabilitato dall’appello all’insurrezione diffuso al momento delle sue dimissioni nel dicembre.

Canfora non manca di contrapporre il comportamento di Marchesi a quello di Einaudi o Calamandrei, eccessivamente allarmati dal pericolo di arresto: in verità la sua più prolungata permanenza al rettorato gli consente un momento di messa in scena antitedesca probabilmente gonfiata nei racconti e soprattutto un appello efficace agli studenti al momento delle dimissioni, che non passano in sordina come le altre. Tant’è vero che spesso, nelle ricostruzioni a posteriori, discorso di dimissioni di dicembre e di inaugurazione di novembre si sono rimescolati nelle memorie, come se l’appello alla resistenza fosse stato già anticipato al momento dell’apertura dell’anno accademico.

Quella che il Pci considera una colpa di compromissione verrà poi cancellata nella promozione di Marchesi a intellettuale di grande prestigio e rappresentatività negli anni cinquanta; sarà lo stesso Togliatti, grato a Marchesi di essersi schierato con lui nel 1956, a pronunciare i discorsi più celebrativi, soprattutto post mortem (1957), mentre Ludovico Geymonat gli rinfaccia pretestuosamente ancora la scelta del 1943.

Il periodo svizzero dopo la fuga da Padova e i contatti con i servizi inglesi per i lanci di armi ai partigiani vengono ricostruiti con precisione, offrendoci il ritratto di un Marchesi uomo d’azione. Il suo impegno prosegue dopo il rientro in Italia, facendone un punto di riferimento significativo nei rapporti interpartitici. È da Padova con la costruzione del Cln Veneto con Silvio Trentin e Meneghetti che coltiva buoni rapporti col Partito d’Azione. Alla Costituente non esiterà a prendere posizione indipendente contro l’articolo 7, staccandosi dalle indicazioni togliattiane. Ne esce il ritratto di un uomo complesso e sfaccettato, mai burocratico nella militanza partitica, spesso con un percorso tutto suo.

Canfora in fondo lo ammira, come si desume dall’epilogo, pur evidenziandone le debolezze umane e le contraddizioni: e non solo come grande letterato e cultore dei classici, ma come intellettuale comunista che attraversa tempi oscuri mantenendo una sua coerenza e dignità. Il culto della romanità che il fascismo celebra gli ha consentito di infilarsi nelle pieghe dei pepli e degli orpelli per cercare di evocare figure di riferimento, dai Gracchi a Catilina a Cesare, che indichino percorsi di giustizia sociale. Cesare e Stalin si sovrappongono nel suo ragionamento, anche se negli anni del fascismo qualcuno ha potuto pensare che si riferisse a Mussolini. Un uomo dalla doppia vita, quella vera e quella cucitagli addosso nel mito postumo, che Canfora si sforza di smontare.

Sicuramente la democrazia non è la sua fede, reso scettico dai successi elettorali del fascismo e del nazismo: propende per una dittatura illuminata, un cesarismo progressivo e questo ne spiega lo schierarsi contro la destalinizzazione, ma anche le ambiguità sotto il fascismo e le tensioni con gli azionisti e i liberali.

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