Salvatore Satta e Piero Calamandrei

Salvatore Satta

di Silvia Calamandrei

Due studiosi sardi, lei critica letteraria e lui storico, hanno ricostruito un prezioso carteggio tra i giuristi-letterati Salvatore Satta e Piero Calamandrei, che documentano momenti di consonanza e collaborazione significativi[1].

Le lettere provengono essenzialmente dal Fondo Calamandrei dell’Istituto storico della Resistenza in Toscana di Firenze (quelle di Satta) e dal Fondo autori e scrittori sardi di Sassari (quelle di Calamandrei). L’epistolario è introdotto da due testi dei curatori, e corredato dai profili biografici dei due giuristi e da una nota al testo. Un lavoro accurato e partecipe, che sollecita il lettore a ulteriori approfondimenti. Una bibliografia e qualche notizia in più sui curatori sarebbero state utile complemento.

Il punto di gravitazione è il De profundis di Satta, e le sue difficoltà di pubblicazione nell’immediato dopoguerra. L’autore lo invia a Calamandrei, con il quale intratteneva una corrispondenza fin dal 1939, soprattutto in relazione a lavori giuridici e alla «Rivista di diritto processuale civile» che Calamandrei dirigeva insieme a Carnelutti. Già nel 1939 Calamandrei aveva sottolineato il comune «amore per il diritto», e la condivisione di un senso di angoscia che si esprimeva negli scritti, augurandosi di poter «parlare lungamente su questi argomenti di studio, nei quali ci è ancora dato di avere qualche opinione».

E nel 1945, dopo la Liberazione, aveva voluto complimentarsi da rettore dell’Università di Firenze per il «bellissimo discorso» che Satta aveva tenuto inaugurando da pro-rettore l’Università di Trieste (il significato dell’esperienza triestina è approfondito nel saggio introduttivo di Casola e ci mostra come Satta sapesse vincere il suo pessimismo e la sua riluttanza all’azione, mobilitando energie costruttive).

Satta aveva inviato il suo manoscritto a Einaudi ma ne aveva ricevuto un rifiuto molto politically correct da Massimiliano Mila in data 8 maggio 1946, «perché il suo modo di vedere le cose è troppo radicalmente diverso dal nostro». E questo in nome della lotta partigiana vittoriosa contro il sentimento di sconfitta e sfacelo, di «morte della patria» che pervadeva lo scritto. Satta è tacciato di «tipico assente» che sconta la sua assenza dall’antifascismo «con il catastrofico pessimismo che Le fa vedere il nostro popolo come un abulico e passivo oggetto di storia». Di fronte al “fossato” che la redazione di Einaudi definisce come distanza, Satta risponde pacatamente da Trieste, allegando quel discorso inaugurale che era stato apprezzato da Calamandrei, per dimostrare che «lo stesso bisogno di sincerità e di onestà che ha ispirato il De profundis ha spinto il “tipico assente”, il “catastrofico pessimista”, lo “estraneo agli ambienti antifascisti”, come Ella ama pensarmi, ad assumere una responsabilità e ad occupare un posto da cui gli italiani attivi ed ottimisti si terrebbero oggi prudentemente lontani».

Mi piace pensare che Satta reagisca al rifiuto di Einaudi premurandosi di verificare, con una lettera del 29 maggio, se Calamandrei, di cui Satta intuisce una possibile sintonia, abbia ricevuto il suo manoscritto, inviato il 4 maggio. Impegnato com’era con il referendum e le elezioni dell’Assemblea costituente Piero aveva tardato a reagire, ma ripresosi di una settimana di «collasso» (parola cara anche al sensibilissimo Satta) replica: «il tuo saggio è stupendo, e mi ha profondamente commosso. Bisogna pubblicarlo».

Intanto chiede di pubblicarne qualche pagina sul «Ponte», come avverrà nel numero di fine anno. E dunque anche in questo caso, come per quello di Primo Levi, la rivista fiorentina si fa ospite e promotrice di testimonianze ed «esami di coscienza» sgraditi al clima di euforia dominante. La gioia di Satta è immensa, perché Calamandrei ha inteso le sue motivazioni profonde, come scrive il primo luglio: «Per me ha un’importanza immensa che un Uomo come te, che hai lottato e sofferto per la libertà, sia rimasto commosso dalla lettura: è segno che non ti è sfuggito che al fondo dello spietato esame di coscienza sta una incrollabile e quasi soprannaturale speranza. È un libro triste, ma non desolato e desolante, un libro che io sono fermamente convinto possa fare del bene, anche a chi non sia disposto a condividere il mio personale atteggiamento di fronte alla nostra spaventosa esperienza».

Se la rivista pubblica alcune pagine, il testo integrale non viene invece accolto nei «Quaderni del Ponte» e neppure da La Nuova Italia, forse per le esitazioni di Tristano Codignola e Corrado Tumiati, che lo liquidano come inadatto per i suoi «intendimenti artistici» (un pretesto?). Satta finisce per persuadersi che «la nuova Italia, e non la casa editrice, ma questo nostro singolare paese, non sia il posto adatto per la pubblicazione del mio libro» e si augura che tra cent’anni qualche studente ritrovi il manoscritto, reperto per i postumi «sullo stato d’animo degli italiani durante la seconda guerra mondiale». Ma in fondo non era stato lo stesso intento di Calamandrei nello scrivere il suo Diario, che paragonava a un testo dell’epoca di Giuliano l’Apostata, destinato alla lettura dei posteri? E forse non fu un caso il ritardo della sua pubblicazione (1982) proprio perché gli stessi allievi esitavano a offrire un ritratto in chiaroscuro del cantore della Resistenza?

Il De profundis uscì per la Cedam nel 1948 a spese dell’autore, e nel testo che appartiene alla biblioteca di Piero sono posti due punti interrogativi a passaggi anti-inglesi che deve aver commentato anche in una lettera a Satta forse andata smarrita (i curatori non ne fanno parola). Lo desumiamo dalla lettera di Satta del 7 luglio 1948 che si riferisce alle parole di Calamandrei sul «libretto» e insiste di non aver voluto fare «un’opera di storia»: «Ho voluto solo rappresentare il dramma di un individuo che si trova d’un tratto in mezzo alla tormenta […] ed è spinto da ciò a un doloroso esame di coscienza, di null’altro desideroso che di veder chiaro nella propria anima. E perciò quei giudizi di cui tu lamenti l’asperità (come quello sull’Inghilterra) non possono essere considerati come l’espressione del mio pensiero, ma solo del mio sentimento in quelle circostanze di tempo e di luogo».

E a proposito della lotta per la liberazione, afferma di non averla voluta oscurare, «o sommergere nella vivisezione dell’individuo tradizionale, ma se mai esaltare e purificare negli uomini eletti, nei credenti che l’hanno combattuta».

Insomma siamo sulle orme del classico esame di coscienza del letterato di Renato Serra, caro a Calamandrei, e a un discorso sul carattere degli italiani, topos della nostra tradizione: e così verrà interpretato tardivamente, negli anni ottanta dopo che Adelphi lo recupera dalla Cedam insieme a Il giorno del giudizio, pubblicato postumo nel 1977. Le edizioni Adelphi che si susseguono tra il 1979 e il 1980 gli assicurano finalmente il successo letterario. Poi ci sarà la vulgata di Galli della Loggia sulla «morte della patria» (1996), che coinvolgerà in polemiche antirevisioniste lo stesso Satta, con anche l’infortunio di attribuirgli una lettera a Segni di un suo omonimo avvocato sassarese per dare degne onoranze alle spoglie di Mussolini.

Il successo di Satta si colloca dopo l’Intervista di De Felice, che inaugura una nuova stagione di studi sull’antifascismo e il fascismo, a indagarne la complessità al di là delle sistemazioni retoriche. Stagione tuttora aperta sia pur con la pietra miliare posta da Claudio Pavone. E in tali studi, con la nuova introduzione all’edizione integrale dei Diari di Mario Isnenghi (Roma, Edizioni di storia e letteratura, 2015), anche le pagine di Calamandrei sono testimonianza essenziale.

Negli scambi epistolari con Calamandrei Satta coglie un’assonanza spirituale nella mestizia che spesso li pervade, segnale di un «comune sentimento della vita». La divergenza starebbe nell’azione: «La mia povera azione è tutta nel pensiero; la tua si svolge nella partecipazione attiva alla vita, che io posso intendere negli altri, ma non in me, perché l’azione ha sempre qualcosa di impuro, che non riesco ad accogliere».

Riluttante ad accogliere l’invito a collaborare al numero speciale del «Ponte» dedicato alla Sardegna, pur prodigando consigli, Satta riesce a consegnare più tardi il saggio che gli era stato chiesto su Lo spirito religioso dei sardi, che infatti verrà pubblicato in un numero successivo, del settembre-ottobre 1951. Ci tiene però a segnalare un lavoro della moglie Laura Boschian su Dostoevskij, che verrà pubblicato nel maggio del 1954. Un altro lavoro di Laura Boschian sulla letteratura russa verrà inoltrato per «Il Ponte» nel 1956, anno della morte di Piero Calamandrei.

Satta sarà tra i migliori commemoratori e compendiatori del pensiero di Calamandrei, nel suo Interpretazione di Calamandrei (Milano, Giuffrè, 1967): Ada Cocci Calamandrei lo ringrazia e ne ricorda l’amicizia in una lettera del novembre 1967, che conclude questo intenso epistolario. Peccato che il giurista sardo non abbia potuto leggere i Diari di Piero, pubblicati nel 1982, dopo la sua morte nel 1975: forse avrebbe avuto occasione di trovare maggiori consonanze, soprattutto nelle pagine di Colcello nell’inverno-primavera 1943-1944, quando Piero era più bloccato e lontano dall’azione. Gli scriveva: «quando la tua azione sosta, si manifesta il tuo vero essere, e allora sento quanto il tuo animo sia vicino al mio, e come tu viva la mia stessa passione, cioè come la vita si rifletta in te nello stesso modo». Una consonanza di animi che i curatori hanno saputo ben documentare e commentare.

[1] Salvatore Satta, Lettere a Piero Calamandrei. 1939-1956, a cura di Angela Guiso e Carlo Felice Casula, Bologna, il Mulino, 2020.

 

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