Un carteggio inedito 1946-47 tra Gaetano Salvemini, Ciro Polidori ed Egidia Calamandrei

salvemini

di Silvia Calamandrei

L’Archivio Calamandrei di Montepulciano custodisce un carteggio 1946-1947 tra Ciro ed Egidia Polidori e Gaetano Salvemini, a suo tempo donato dalla figlia Serenella Polidori.

Particolarmente significative per il contenuto umano e il tono amicale le lettere che si scambiano Egidia Calamandrei e Gaetano Salvemini, che riproduciamo, mentre ci pare utile offrire una ricostruzione sintetica dell’intero carteggio, per l’interesse che può suscitare nei tanti studiosi delle carte Salvemini, personalità chiave del nostro Novecento.

Sull’intensa amicizia e collaborazione tra Calamandrei e Salvemini non è questa la sede per commentare: le lettere reciproche sono state in gran parte edite anche se disperse in diversi volumi: forse riunificare il carteggio completo tra i due sarebbe auspicabile. Molte lettere tra i due sono custodite all’Istituto storico della Resistenza in Toscana di Firenze, che ha intrapreso un riordino delle corrispondenze; altre sono presenti in diversi archivi. Si rimanda ai due volumi di Piero Calamandrei, Lettere 1915-1956, curato da Giorgio Agosti e Alessandro Galante Garrone (Firenze, La Nuova Italia, 1968) per le lettere di Piero a Salvemini, nonché alla rivista «Il Ponte» che nel 2012 ha raccolto in volume (Il nostro Salvemini. Scritti di Gaetano Salvemini su «Il Ponte», 1945-1957) tutti gli scritti di Salvemini sulla rivista. Dopo la lunga separazione del ventennio fascista, con Salvemini esule prima in Francia e poi negli Stati Uniti, il primo saluto Piero glielo invia nel discorso di inaugurazione dell’Università di Firenze, il 15 settembre 1944, augurandosi di rivederlo presto a insegnare in quelle aule e Salvemini gli scrive il 3 ottobre di essersi messo a piangere come un bambino alla lettura delle sue parole1.

 

La Repubblica italiana è appena uscita vincitrice dal Referendum di giugno e Gaetano Salvemini si preoccupa delle sue sorti in una lettera a Ciro Polidori, cognato di Piero Calamandrei, scritta a Cambridge Mass. il 13 luglio 1946.

Ricorda che nell’estate del 1944 aveva auspicato una concentrazione repubblicana-socialista in un opuscolo: «ma purtroppo devo riconoscere nell’estate del 1946 che io sognavo ad occhi aperti. Nenni ha reso impossibile quella concentrazione fuori della quale io non vedo salvezza e temo assai che la neonata repubblica italiana non avrà vita sicura, proprio per gli errori commessi da Nenni in questi ultimi anni».

Si dichiara «scoraggiato, indignato, stomacato per l’opera dei socialisti, degli azionisti e dei repubblicani in Italia» e conclude che sia «inutile perdere il mio tempo a pestar acqua nel mortaio».

Approfitta per inviare saluti cari a Piero Calamandrei e per consigliarlo quanto alla salvezza dalla rovina delle collezioni dell’Università di Firenze: c’è un comitato per la raccolta fondi di aiuti alle università e si augura che l’Università in cui ha a lungo insegnato e da cui era stato estromesso negli anni venti possa profittarne. La collaborazione in termini di donazioni librarie sarebbe stata particolarmente efficace, grazie proprio all’iniziativa di Calamandrei e Salvemini e all’ufficio fiorentino dell’Usis.

Consiglia di affidare la corrispondenza, perché non vada dispersa, alle cure dell’ufficio dell’United States Information Service, da poco aperto a Firenze in via Tornabuoni, e in effetti sarà Caroline P. Orza a fare da tramite.

Ciro Polidori, socialista fiorentino e professore di liceo, torna alla carica l’11 agosto per sollecitare contributi di Salvemini al giornale socialista «La Difesa», condividendo la preoccupazione per la «deleteria politica di Nenni e compagni». Auspica un Partito socialista «assolutamente indipendente e perfettamente democratico» e osserva con preoccupazione il settarismo del Partito d’Azione, di cui vorrebbe favorire l’ingresso nel Partito socialista: «Alcune dichiarazioni di qualcuno dei più alti esponenti del Partito d’Azione sono oggi molto più benevole verso il comunismo che verso il socialismo, Se il P.d’A. dovrà morire – essi dicono – molti di noi passeranno al P.C.».

Stavolta alla lettera di Ciro se ne aggiunge una di Egidia Calamandrei, che ricorda una visita di Salvemini di molti anni prima a Montepulciano.

Egidia vince la riluttanza, e «l’abitudine che mi è cara di… “stare a guardare” in tutto quello che si riferisce alla vita politica», e vuole trasmettere un messaggio di incoraggiamento.

Ma soprattutto a Egidia preme la sorte di «questa povera Italia disorientata» e chiede a Salvemini un po’ di benevolenza: la parola di Salvemini è quanto mai necessaria «in mezzo a tante rovine materiali e morali».

Salvemini replica a Ciro2 ricordando il suo consiglio ai membri del Partito d’Azione di iscriversi o al Partito socialista o al Partito repubblicano: «Il rimaner isolato o raggruppati in un nucleo senza seguito non servirebbe a niente. Naturalmente quelli che si iscrivono al partito socialista dovrebbero raggrupparsi intorno alla “Critica sociale” di Mondolfo.

Purtroppo non ho molta fiducia che questa linea di condotta possa essere accettata largamente. Non solo vi sono pretese assurde in parecchi di coloro che hanno fatto parte del Partito d’Azione, ma vi sono anche presunzioni, incomprensioni, rigidità anche fra i socialisti e i repubblicani. In Italia dovrebbe esserci un popolo da liberare e invece i più non vedono che una bandita da conquistare. Tutte le discussioni che si fanno su punti di astratta dottrina servono solamente a dissimulare le vanità personali di coloro che, sbandierando una dottrina astratta, vogliono mettere in mostra le proprie persone.

Forse è necessario che ci sia il pericolo di un colpo di mano monarchico per costringere molta gente a rendersi conto non dei propri doveri, ché ormai ho perduto ogni fiducia in questo, ma del proprio interesse a smettere la tattica dei capponi di Renzo».

Ma è con Egidia che Salvemini si espande più ampiamente, commosso dalla dolce memoria «di quel giardino di Montepulciano che vorrei rivedere prima di morire».

Sollecitato da Egidia, Salvemini si sforza di superare il proprio pessimismo e annuncia un prossimo rientro in Italia per fare un «lavoro di investigazione», per «scoprire se c’è qualcuno il quale meriti di essere aiutato». Rimanda comunque la sua venuta all’anno venturo, perché gli pare necessario «lasciare tempo al tempo, perché quei due o trecento italiani […] trovino la loro strada da sé. Si difende disperatamente solo quello che si conquista da sé». Insomma Salvemini coltiva l’idea della formazione di una nuova classe dirigente, disinteressata e libera dalle ipoteche del passato, che possa prendere in mano le sorti del paese.

Ciro Polidori segnala a Mondolfo l’apprezzamento di Salvemini, con una lettera del 14 ottobre 1946, e Mondolfo replica da Milano, contento di «essere riuscito a soddisfare le esigenze del nostro caro Gaetano», ma anche desideroso di alcuni distinguo dal pessimismo salveminiano: «Nello spazio di una lettera non mi è possibile dire entro quali limiti io sono d’accordo con Salvemini, il quale mi pare abbia una visione chiarissima delle necessità che la situazione e gli avvenimenti creano, ma si lascia poi trascinar troppo dalla sua natura pessimistica e sospettosa, esagerando responsabilità di uomini e la gravità del male che i loro atti hanno prodotto e possono produrre».

Riferisce di un lungo articolo di Salvemini fattogli recapitare da Piero Calamandrei attraverso Alessandro Levi, poiché «Il Ponte» ha sovrabbondanza di materiali per i prossimi numeri.

«L’articolo ricapitola i fatti e gli errori compiuti dai Partiti di sinistra dopo il settembre 1943 e specialmente dopo la venuta di Togliatti e di Sforza in Italia. A me questo rivangare le responsabilità passate non riesce molto gradito, se dal loro ricordo non sorga qualche preciso ammonimento intorno alla via da seguire ora; ma sia per il bene che voglio a Gaetano, sia per il piacere di veder ricomparire il suo nome sulle colonne della Critica che hanno ospitato tanta bella roba di lui e con tanto profitto dei lettori, sarei disposto a pubblicare l’articolo, quantunque sia così lungo che dovrei spezzarlo in tre, o almeno in due, puntate».

Resta comunque dubbioso perché il punto di vista espresso è troppo piegato sul fronte “azionista”, e chiede a Polidori di farsi tramite di un proprio messaggio a Salvemini. In tale lettera3 esprime a Salvemini le sue perplessità, e in effetti non risulta che l’articolo sia mai stato pubblicato.

Salvemini ne accusa ricevuta in una lettera del 16 gennaio 1947. Dichiara di non sentirsi «il diritto di iscriversi a nessun partito italiano». Ma autorizza l’uso delle sue idee da parte di qualsiasi partito.

«Purtroppo il Partito d’Azione – e sventuratamente anche i due partiti socialisti – hanno il difetto di tutti i partiti: sono settari, e pensano più a pestarsi a vicenda che a mettersi d’accordo per un’azione comune, quando vi sarebbero mille ragioni per un’azione comune. Rimedio? Non ce n’è. Anche sotto il martello della reazione, i partiti più affini continuano a beccarsi come i capponi di Renzo».

In attesa del rientro in Italia Salvemini affida una richiesta di indagine a Polidori: ricostruire come il quotidiano l’«Avvenire d’Italia» di Bologna abbia riferito dell’uccisione di don Minzoni, «cominciando dal 21 agosto 1923 fino alla fine del settembre 1923, mettendo insieme tutto quanto il giornale disse sull’argomento».

Se ne incaricherà la figlia di Ciro ed Egidia, Serenella, laureata da pochi giorni in Lettere, inviando a Salvemini in aprile un repertorio di estratti stampa dall’«Avvenire». A testimonianza dell’attivismo di Salvemini nel ricostruire le posizioni della Chiesa sotto il fascismo, in giugno chiede un’altra ricerca a proposito di papa Pio XI, che nell’autunno del 1938 avrebbe «fatto un discorso in francese in difesa degli ebrei contro la politica di Mussolini, in cui avrebbe detto che “noi siamo tutti semiti”». Non ne ha trovato traccia né sull’«Osservatore romano» né su «Civiltà cattolica» e si domanda se si sia trattato di censura del Vaticano o di una «mistificazione fabbricata in America a scopo di propaganda cattolica».

Alla vigilia del rientro in Italia, il 26 giugno 1947 Salvemini comunica di aver trovato altre informazioni che dovrebbero facilitare la ricerca su Pio XI: «il discorso del papa fu fatto nel settembre 1938 a un gruppo di giovani belghi [sic!]. I belghi, tornati in patria, pubblicarono la cronaca dell’incontro e Farinacci vi si buttò sopra per scrivere uno dei suoi più virulenti attacchi contro il Vaticano. Fissata la data al mese di settembre, bisognerebbe vedere se il testo di quel discorso (che non fu pubblicato né dalla “Civiltà cattolica” né dall’“Osservatore romano”) fu riprodotto in qualche giornale italiano. L’attacco di Farinacci nel giornale di Cremona dovrebbe facilitare la ricerca».

In un post scriptum aggiunge che sarebbe il caso di vedere se l’«Osservatore romano» abbia scritto qualcosa al riguardo della visita dei giovani belgi. Nel frattempo spunta un altro tema di ricerca: gli articoli della rivista dell’Università cattolica di Milano a favore dell’impresa di Mussolini in Abissinia. Ma si ripromette di parlarne a voce a Firenze avendo in programma di partire da Cambridge il 12 luglio.

Si chiude così questo interessante scambio epistolare, agli albori della Repubblica e alla vigilia della nuova stagione italiana di Salvemini.

 

1 Gaetano Salvemini, a cura e con prefazione di Alberto Merola, Lettere dall’America 1944-46, Bari, Laterza, 1967.

2 Lettera 13 settembre 1946 da Cambridge, Mass.

3 Pubblicata in G. Salvemini, Lettere dall’America 1944-1946 cit., vol. I, pp. 399-403.

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