La democrazia commissariata

di Paolo Bagnoli

La rielezione di Sergio Mattarella alla presidenza della Repubblica, nonostante avesse, da tempo, dichiarato che non era sua intenzione di accettare un eventuale secondo settennato, segna il punto di arrivo di una crisi lunga della Repubblica. Una crisi che la corrode da oltre un trentennio; da quando il tarlo dell’antipolitica ha prodotto un vero e proprio sfarinamento istituzionale e generato un populismo diffuso.

Crisi delle istituzioni e crisi sociale, intrecciandosi, hanno determinato quella generale del sistema. La pandemia vi ha gravato un ulteriore peso, evidenziando i molteplici deficit dei nostri sistemi pubblici.

La rielezione di Mattarella nasce dal vuoto di politica in cui si trova il paese. L’osservazione non lambisce la figura del presidente e la questione non investe nemmeno la disputa costituzionale circa la rielezione di un presidente uscente, bensì un problema squisitamente politico, visto che, al momento, sembra solo che la presenza simultanea di Mario Draghi alla guida del governo e quella di Mattarella al Quirinale possano garantire la tenuta del sistema. Vale a dire, che l’Italia riesce a stare in piedi nel congelamento dovuto a questo equilibrio: una specie di doppio commissariamento benedetto dall’Europa.

Cosa possa significare per il futuro del paese che, a ruota della rielezione di Giorgio Napolitano nel 2013, vi sia stata un’altra rielezione è difficile dire. Va comunque osservato che le due rielezioni hanno caratteristiche diverse che affondano nelle leggi non scritte della politica, quindi, appartenenti alla sfera morale e non a quella giuridica.

A Napolitano, infatti, fu chiesto di restare da rappresentanti di “partiti allo sbando”, asserragliati dentro Montecitorio con una piazza tumultueggiante che assediava il Palazzo inveendo contro gli occupanti. Fu la resa alla loro incapacità, al ruolo che avrebbero dovuto svolgere, ma che, privi delle riserve della politica – già assente da anni, peraltro – risultavano prigionieri dell’impotenza che essi stessi avevano provocato. Napolitano acconsentì e, nel rivolgersi ai grandi elettori, fece un discorso improprio contrapponendosi all’istituzione della rappresentanza; rivolgendo un sapienziale indirizzo che dimostrò quanto la scollatura del sistema fosse ampia. Credette di rispondere alla crisi che si evidenziava assumendo i toni impropri di un maestro che assegna i compiti, non comprendendo che gli era stato richiesto di rimanere non per motivi didattici, ma solo per una paralizzante paura che tutto venisse travolto; per paura di una piazza inferocita che già anticipava il clamoroso successo elettorale conquistato nel 2018 dal M5S, soggetto principe del populismo e dell’antiparlamentarismo. Un sentimento, questo, che avrebbe poi trovato nel taglio dei numeri di Camera e Senato la sua più alta espressione e il suo scandalo, non tanto per il fatto che deputati e senatori venivano ridotti, ma per lo spirito e le giustificazioni di sprezzo della rappresentanza che lo motivava, camuffato da risibili argomentazioni sul risparmio che si sarebbe ottenuto.

Quanto la bussola girasse all’impazzata, lo conferma l’atteggiamento del Pd che, in principio fermamente contrario, alla fine si accodò sia per il timore di rimanere isolato sia per iniziare a essere quella tela di “alleanza strategica” con il grillismo che, nel futuro, gli avrebbe permesso di non essere all’opposizione. Una scelta, quindi, di opportunismo assai grave – fermo restando che i numeri del Parlamento italiano erano per lo più equivalenti a quelli delle altre democrazie europee – e, soprattutto, chi veniva dal Pci avrebbe dovuto sapere che la critica al Parlamento e alla sua funzione semina, alla lunga, una raccolta favorevole alla destra.

Napolitano viaggiava in una stagione oramai passata e chiaramente la sua allocuzione si rivolgeva ai partiti come fossero quelli di un tempo, ossia soggetti della produzione politica e non più mere sigle senza sostanza ideologica e senso della propria funzione. Infatti, furono severe parole che a nulla servirono e in niente incisero. Da un pezzo, oramai, il concetto di “politica” era stato sostituito da quello di “potere”e il governo ridotto a prassi governista.

Nel caso di Mattarella il canone è stato diverso; egli, nel suo discorso, non si è contrapposto al Parlamento e i ben cinquantacinque applausi ricevuti in poco più di mezz’ora sono stati la testimonianza della riconoscenza di una realtà debole che si sentiva, però, quasi riscattata dalla propria incapacità. Un po’ ipocritamente senatori e deputati si sono sentiti motivati da una responsabilità che per un attimo li ha riportati alla loro funzione e a ciò su cui spendere le loro energie. Mattarella toccando con tatto e fermezza sedici argomenti – gli studenti, gli anziani, le carceri, la schiavitù, la bellezza, le mafie, la maternità, l’informazione, la diseguaglianza, i giovani, la democrazia, l’ambiente, le donne, la precarietà, le morti sul lavoro, il razzismo – si è fatto ponte tra le grandi tematiche sociali del paese e l’istituzione che lo rappresenta.

La cifra diversa tra la rielezione di Napolitano e quella di Mattarella risiede nel fatto che a chiedergli di rimanere sono stati gli eletti e non i partiti. Investendo l’ordine dei fattori il prodotto certo non cambia; ma va rilevato lo sforzo d’evitare contrapposizioni. Senza partiti, tuttavia, l’atto appare “di scuola” poiché non sono sufficienti le istituzioni per creare politica in assenza del tramite che consente alla gente di essere nella politica, a concorrervi, a dare senso alla rappresentanza stessa: ossia forma e contenuto alla politica democratica.

Già nelle fasi immediatamente successive alla rielezione si è assistito alla ripresa della rappresentazione che l’ha accompagnata e, quindi, il richiamo al Colle è servito a congelare quanto a una preoccupata Europa stava a cuore, ma la disfatta cui abbiamo assistito ha cambiato anche le condizioni del governo con il presidente del Consiglio sicuramente più forte di prima e un governo più debole con visibili segni asmatici perché oramai, quanto prima era sottotraccia – lotte correntizie, divergenze di linea e antipatie personali – ora può emergere liberamente.

L’Italia si è quindi stabilizzata, almeno per un altro anno e ciò tranquillizza l’Europa, ma l’effetto Draghi non funziona più come prima; il clima politico di governo  è cambiato, per l’indebolirsi della sua coesione iniziale e l’emersione delle disfunzioni burocratiche di una macchina statale fortemente da innovare; sono motivi che rendono questa simil-unità nazionale una specie di immobilismo dinamico; una contraddittoria rappresentazione nella quale l’autorevolezza di Draghi, le garanzie che fornisce Mattarella, l’europeismo sparso a quattro mani, e via dicendo, tratteggiano un paese che si è rimesso in moto mentre invece non lo è con l’aggravante che, ai mali endemici di cui soffriamo, si sono aggiunti quelli dovuti alla sublimazione dell’antipolitica e della mancanza di classe politica.

La crisi degli anni novanta ha generato l’affermarsi dell’antipolitica, poi divenuta populismo antisistema. Si è trattato di un lungo percorso partito con Antonio Di Pietro e arrivato, in un climax crescente, a Beppe Grillo, passando per lo snodo fondamentale del berlusconismo; si è registrato un cambiamento nel modo di intendere, vivere e organizzare la nostra democrazia. I ripetuti cambiamenti della legge elettorale e i tentativi di modifica della Costituzione lo dimostrano. E dimostrano pure come, al di là dei dovuti ossequi formali, sia stata messa da parte la Costituzione, nella lettera e nello spirito. Il quasi continuo rimbalzare sul dotarsi di un sistema maggioritario è stato motivato solo dalla ragione governista e non si può giustificare con il fatto che esso avrebbe ricompattato un sistema travolto da Tangentopoli e insanabilmente corroso dal proporzionalismo, considerato che le forme di maggioritario adottate non hanno garantito né stabilità né maggiore incisività nell’azione di governo; né, ed è la cosa più clamorosa, il ricompattarsi delle forze politiche le quali, al contrario, si sono moltiplicate, dando vita al vagabondaggio degli eletti da una sigla a un’altra in maniera così estesa, senza alcuna sostanza politica vera. Il maggioritario ha testimoniato solo la perdita di senso della rappresentanza e, di conseguenza, lo svuotamento del Parlamento che va in parallelo e di pari passo con l’assenza di “politica”.

Cancellati i partiti, cancellato il concetto stesso di partito, denigrata la politica e chi l’aveva interpretata fino alla caduta della Prima repubblica, esorcizzato ogni richiamo all’ideologia, qualunque essa fosse, come un qualcosa di vecchio – o per meglio dire, come poi si userà, di “novecentesco” – appartenente a un passato non solo superato, ma equivalente a una vicenda storica negativa addirittura da cancellare.

La malversazione del pubblico denaro, che è stata la causa prima della fine della Prima repubblica, doveva essere affrontata, la giustizia fare il suo corso e i responsabili rispondere evitando, tuttavia, la contrapposizione tra azione giudiziaria e ruolo della politica; ritenendo che,  a fronte di una politica solamente colpevole, esistesse una riserva virtuosa della Repubblica trasformando la giurisdizione in un ordine esercente non solo il potere giudiziario, ma un’invasività pesante su quello politico. Ora, fermo restando che una cosa era la questione politica e una quella giudiziaria, ciò ha partorito il deleterio risultato di fare del “partito” il simbolo del male e, quindi, della politica rappresentata e interpretata dai partiti, quasi una forma simbolica di come non si dovesse agire per il bene della democrazia e il recupero della sua virtuosità.

Il periodo che si apre con gli anni novanta inaugura la stagione – lunga – dei movimenti, dell’attacco scandalistico alla “casta”, del richiamo sempre più frequente a un riformismo che non si capiva bene cosa fosse e a un liberalismo altrettanto oscuro e falso per lo più in un paese, quale l’Italia, che ne è sempre stato carente.  Così il sentimento antipolitico ha messo radici sempre più in profondità e invece di applicarsi a una riflessione storica, culturale e intellettuale quale la situazione avrebbe richiesto, ci si è concentrati in un continuo annunciato rinnovamento delle cose e degli uomini – ma le cose peggioravano progressivamente e gli uomini rimanevano sempre gli stessi – mirando solo alla conquista del governo e a progettare leggi elettorali non rispondenti a ciò cui esse dovrebbero servire, ma solo a favorire la continuità al potere di chi, in quel momento, lo deteneva.

Oggi che, a seguito del caos che ha accompagnato l’elezione di Mattarella, le coalizioni si sono dissolte e la situazione complessiva è ben più grave di quella dell’inizio degli anni novanta, si pensa alla legge elettorale non solo prescindendo dall’idea di paese che si ha o si vorrebbe avere, bensì perpetuando nell’errore che le soluzioni tecniche possano risolvere quelle politiche, quando è ben noto che così non è, non è mai stato, né mai sarà.

Acconsentendo una tale deriva, la sinistra si è suicidata. Scomparso il Psi, ridimensionato il Pci, ma ancora presente, liberato per di più dalla caduta dell’Urss da quanto gli aveva impedito di far valere il suo peso sugli equilibri nazionali, il post-comunismo invece di costituire il perno ricostruttivo di una sinistra necessariamente socialista, di un socialismo nella libertà, drogato da una irreale “diversità” si è adeguato al clima e, sempre ben attento dal rimanere lontano da quanto potesse apparire come socialista, di sigla in sigla, destrutturando quanto aveva presente nella società, ha visto possibile realizzare finalmente il disegno togliattiano, che non aveva mai abbandonato, dando vita con la sinistra dc, sopravvissuta allo scioglimento del proprio partito, a un nuovo soggetto che, non solo non poteva dirsi di sinistra, ma che sin dall’inizio dimostrava la propria impossibilità a poter essere “partito”.

L’euforia ulivista altro non era se non la raccolta dell’opposizione a Berlusconi, di conseguenza si è dimostrata, in quanto vuota di ogni idea dell’Italia e di una cultura politica vera, per quel poco che era nonostante due vittorie elettorali. Nella retorica del centrosinistra – significativamente senza trattino – si è snaturato, più di quanto non lo fosse per conto suo, il nuovo soggetto, divenendo, con lo strumento delle primarie aperte a chiunque passasse per strada, un fattore di destrutturazione delle modalità democratiche e dell’idea stessa di partito, e anche strumento di incubazione di un populismo post-berlusconiano ben interpretato da Matteo Renzi. Gli effetti sono stati devastanti. I sindacati, per esempio, sono stati lasciati a se stessi, permettendo a Renzi di archiviare lo Statuto dei lavoratori.

Pensando di salvarsi cambiando nome, inventando un impossibile partito e vivendo nella paura dell’opposizione, non solo i post-comunisti hanno contribuito alla scomparsa della sinistra, ma sono venuti meno a quella funzione che avrebbe dovuto essere loro propria di salvaguardare il sistema e, tramite un sostanziale rinnovamento ideologico, concorrere a rinnovare la democrazia italiana.

Le due questioni sono entrambe aperte ed entrambe vanno a braccetto. La preoccupazione del Pd è quella di non perdere l’aggancio col M5S, peraltro in preda a un virus distruttivo da cui non si capisce come possano uscirne. È la miseria della politica. Ma la sinistra, per essere, per rinascere, avrebbe bisogno di mettersi al centro del dibattito, lanciare idee che entusiasmino, conquistare il potere culturale.

Per ridare vigore al nostro sistema democratico occorre dotarlo della “politica”, ossia di idee e proposte riguardanti lo Stato e il suo governo e ricostruire il soggetto “partito”, che non significa necessariamente ridare una seconda vita ai partiti scomparsi, ma avere nuovi strumenti del sistema democratico, con culture precise di riferimento, con agganci veri nel “sociale” che vogliono rappresentare, con un’idea dell’Italia che vorrebbero costruire; ossia con un’ideologia senza la quale non può esservi alcuna politica.

Allo stato cui il paese è giunto, l’esigenza di una rifondazione della democrazia appare non solo evidente, ma sempre più all’ordine del giorno. Non è certo la Repubblica presidenziale la soluzione. Per la sua realizzazione, al di là delle tante considerazioni che si potrebbero fare, occorrerebbe riscrivere la Costituzione e ridisegnarne l’ordinamento e questo sarebbe pericoloso.

La nostra è una Repubblica parlamentare in quanto il Parlamento è il centro motore della sua vitalità politica e ciò deriva dall’impianto generale che la Costituzione ha in quanto essa è di natura programmatica. Spetta alle forze politiche, vale a dire alla volontà del Parlamento, sviluppare e attuare quel programma. L’art. 3 suona come un programma di governo e l’art. 49, che sancisce il diritto dei cittadini di associarsi liberalmente in partiti per concorrere a determinare la politica dell’Italia con metodo democratico, indica non solo la modalità del sistema democratico medesimo, ma collega strettamente e indissolubilmente questo alla presenza attiva del soggetto partito non solo nelle istituzioni ma nella società.

Il partito, quale corpo intermedio tra le istituzioni e la società, è il luogo tramite cui i cittadini partecipano alla politica. Il populismo è la politica senza cittadini, chiamati a esprimersi solo alle scadenze elettorali; con i partiti, cui spetta anche la selezione della classe politica, i cittadini concorrono al farsi della politica giorno dopo giorno.

La democrazia italiana per avere un valore costituzionale ha bisogno di ridar vita ai partiti quali soggetti attivi e propositivi nelle istituzioni e nella società. Solo con il ritorno di ideologie, di pensieri culturali a cifra valoriale e di visioni lunghe della Storia, la Repubblica riconquisterà quella solidità morale di cui necessita, senza alcun bisogno di forme di commissariamento. Una democrazia commissariata è un ossimoro.

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