Partigiani, guerra di Liberazione, Carlo Smuraglia

«Noi eravamo un esercito in cui tutti i giorni ci si arruolava di nuovo»[i]. Queste parole di un partigiano descrivono un passaggio ai fatti volontario e non cieco, una scelta senza retorica. La libertà si pagava. Dura comunque per il soldato, la vita del partigiano è anche fame, rifugi precari, armamento rimediato, cure mediche di fortuna, nessuna protezione legale.

Poi ci sono i programmi: per i partigiani, ben più della vittoria militare. Un esempio dalla formazione Nevilio Casarosa, sui Monti pisani:

Gli ideali della formazione erano: lotta al nazifascismo e aspirazione ad un mondo di liberi e di uguali. In pratica gli uomini del distaccamento riuscirono ad attuare una sorta di autogoverno, nella futura visione di una società basata sull’amore e sulla fratellanza. […] I partigiani vivevano in definitiva una vita comunitaria da cui erano banditi l’odio e l’egoismo[ii].

E c’è il conflitto sociale, ideologico e di classe; gli studi di Claudio Pavone sulla guerra civile non sono ancora abbastanza apprezzati. Eppure, già Victor Hugo in Novantatré, sulla Vandea: «Sì, è più che la guerra nella patria, è la guerra nella famiglia. Occorre, ed è bene che ciò sia. I grandi ringiovanimenti dei popoli si pagano così».

La differenza tra partigiano e soldato deve essere chiara, anche perché la Resistenza, il combattimento dei civili, comprendendo le donne e i giovanissimi, caratterizza la Seconda guerra mondiale e l’esito di questa pesa sugli anni successivi, sino ad oggi. Adesso, poi, la parola resistenza si usa con disinvoltura, e non è un caso: la confusione fra partigiani e militari va di pari passo con l’offuscamento della sconfitta del nazifascismo.

Carlo Smuraglia, presidente dell’Anpi dal 2011 al 2017, spesso è indicato come partigiano. Vediamo qualcosa a sua firma.

Smuraglia è scosso dal settembre 1943: «Una scuola di formazione per un giovane come me, vissuto fino ad allora con idee politiche molto generiche»[iii]. Studente alla Normale di Pisa, partecipa a riunioni e sceglie di non aderire alla repubblichina: «Per parte mia la scelta fu quella degli “sbandati” – come allora venivano chiamati nei rapporti delle prefetture e delle polizie fasciste – cioè di quei giovani che pensarono che fosse meglio non farsi vedere in giro, nascondersi, cercare qualche altro con cui condurre un percorso insieme»[iv]. Le scelte si concretano in atti, ma la sobrietà del racconto ci priva di tutto:

Non mi dilungo sulle esperienze del periodo “partigiano”, perché per me, più che le vicende specifiche di quel tempo (non particolarmente interessanti, perché non ho avuto né incarichi di comando, né medaglie e poi c’è sempre il pericolo del “reducismo”), conta – in questa sede – il percorso di formazione, e dunque l’esperienza umana e personale e la questione delle scelte[v].

Neppure altri testi, suoi o che riportano sue dichiarazioni, chiariscono meglio[vi]. Mentre si esprime sulla guerra in Ucraina, gli chiedono dove abbia fatto il partigiano ma la risposta non è più precisa[vii].

Prendiamo in considerazione documenti ufficiali. All’Archivio centrale dello Stato, fondo Ricompart (Archivio per il servizio riconoscimento qualifiche e per le ricompense ai partigiani), c’è la sua scheda personale. La formazione è «Gap Ancona dist. Serra San Quirico» (in altre schede il nome è «Gap Serra San Quirico» o equivalenti).

Qualcosa sui Gap di Serra San Quirico, dal Ricompart. Fra partigiani e patrioti si tratta di 74 schede[viii]. Sono riconosciuti gradi a quattro persone: due sottotenenti e due sergenti. Dieci qualifiche sono state revocate. Risultano un ferito, un invalido e un caduto: Augusto Chiorri, fucilato nel 1944, che però secondo la scheda apparteneva al Cln. Molti sono di età elevata: l’uomo più anziano è nato nel 1873, la donna più anziana è del 1887 e ci sono altre tredici persone nate nell’Ottocento. I Gap sono ricordati come formazioni caratterizzate da alto rischio, perdite elevate, presenza di giovani. Ma va detto che la memoria ha privilegiato i Gap urbani e ha evidenziato le azioni audaci[ix].

Il Ricompart contiene un lungo documento intestato Comando V Brigata B Garibaldi (poi si chiamerà Brigata Ancona)[x]. Si deve tener conto di alcune cose. I partigiani erano persone, non macchine:

Molti problemi [sic] s’imposero subito al sorgere delle formazioni partigiane, per la loro enorme importanza […] L’ordinamento e l’inquadramento delle formazioni partigiane subì molte varianti, sia per adattare alle possibilità di vita e alle esigenze della lotta, sia per qualche dissidio interno generato da invadenze politiche o da ambizioni personali, con conseguente nocumento alla effettiva efficienza dei Reparti ed alla loro più intima cooperazione[xi].

I mezzi erano limitati e le pressioni tedesche incalzanti, con effetti sulle formazioni: «Necessità di doversi pertanto sbandare e sciogliere spesso, per sottrarsi alla distruzione, rendendone difficile la comandabilità, molto rischioso l’impiego e determinando periodi di attività molto ridotta»[xii]. Eppure ci sono numerosissime azioni, a partire dal 15 settembre 1943; si notano gruppi come Mario, Porcarella e Ferro. I numeri parlano: oltre ottanta partigiani caduti, più di trecento tedeschi e settanta fascisti italiani eliminati, tre episodi di soppressione di falsi partigiani, salvataggio di oltre mille fra internati politici e prigionieri di guerra. Il testo chiude in caratteri maiuscoli rossi:

La brigata partigiana Ancona ha assolto il suo compito ed ha raggiunta la meta sognata dai caduti, dai martiri e da tutti coloro che, con purezza di intenti, con coscienza di italiani e volontà di riscatto, hanno fedelmente servito nei suoi ranghi. L’Italia, grazie anche all’opera loro, sta duramente e lentamente riconquistando la sua libertà ed il suo prestigio di popolo. […] Lo confermano undici mesi di dura lotta, di durissimi sacrifici, di tormento spirituale, confortato solo dalla speranza che il sangue versato ed i sacrifici compiuti, siano oggi muti interpreti del nostro sacro diritto di italiani, di vivere la nostra libera vita, sul suolo libero e nostro della patria amatissima[xiii].

Nel documento Smuraglia non è nominato. Va considerata la possibilità che azioni dei Gap siano riportate altrove; comunque lo scritto indica una continuità fra i Gap e la formazione, e comprende azioni dei Gap[xiv]. La continuità è confermata da una diversa fonte[xv], anche se un’altra nomina separatamente la «V Brigata B Ancona» e la «Brigata Gap Ancona»[xvi]. Sulla situazione marchigiana, quanto ai Gap, proprio quest’ultima fonte ricorda le insidie e osserva: «I distaccamenti Gap agivano secondo le possibilità che si presentavano; molto spesso avvenivano degli atti sporadici non sempre controllabili, creando confusione e qualche volta anche degli abusi. Si cercò di mandare i commissari politici nei Gap ma le difficoltà stavano perché vi era scarsità di uomini capaci»[xvii]. Un’altra fonte, a proposito di armamento, logistica e vettovagliamento: «Una sola era la soluzione dei problemi: agire alla garibaldina! Per questi e per altri casi del genere è doloroso dover denunciare che i Gruppi di azione patriottica (Gap), sorti per provvedere ai bisogni della brigata, non hanno più risposto e hanno trascurato gli uomini costretti alla dura vita della montagna»[xviii]. Il tema è connesso agli schieramenti politici e alla sostituzione controversa di un comandante; qui non può essere approfondito.

Lo stesso Ricompart comprende «Fascicolo personale di Smuraglia Carlo, n. 8029», che contiene il modulo a sua firma, compilato a mano in nero; si dichiara «caporal maggiore di fanteria volontario nel Gruppo di Combattimento “Cremona” in tutta la guerra di liberazione», con incarico di comando nelle formazioni partigiane «comando del gruppo Sasso-Sant’Elena del dist. Serra San Quirico». Dichiara di aver fatto parte della brigata Gap Ancona, distaccamento Serra San Quirico, «dalla costituzione (ottobre-novembre 1943) fino alla liberazione». Un intervento in blu sovrascrive l’inizio dell’appartenenza con «1.11.43» e aggiunge dopo «liberazione» così: «18.7.44». Sono le date che compaiono nella scheda personale. Di seguito, dove il modulo richiede «fatti d’armi e sabotaggi a cui ha partecipato», si legge:

Il gruppo operava alle dipendenze del distaccamento Serra San Quirico ed ha agito isolatamente nella sua zona per tutti i normali servizi di approvvigionamento, misure di sicurezza, ecc. Ha partecipato alle operazioni di brillamento del ponte di Mergo e alle varie operazioni intorno al [incomprensibile] degli Angeli. Sottrasse all’Ufficio IES delle Ferrovie (in mano dei tedeschi) di Castelplanio stazione il documento con tutto il piano di brillamento delle officine elettriche, portandolo al Comando per provvedimenti. Operazione contro il Segretario politico di Jesi, Riccardo della Bella ed altri noti fascisti, al Sasso.

Subito dopo, in blu: «Visto si conferma poiché fece continuamente staffetta», con la firma «Frillo». È il nome di battaglia di Alfredo Spadellini[xix], con funzioni nella Commissione regionale riconoscimento qualifica partigiani delle Marche[xx].

Gli archivi non bastano, è bene interpellare l’interessato. Smuraglia conferma la contrarietà al reducismo, il disinteresse per i racconti di guerra e la preferenza per la sostanza, i valori, le scelte. Esclude di aver rivendicato riconoscimenti o altro, per quel periodo. Ricorda i suoi meriti nell’Anpi. Elenca libri, quasi tutti a sua cura. Aggiunge: «Spero di aver risposto con chiarezza ai suoi interrogativi, assicurandole – per sua tranquillità – che tutto ciò che ho fatto in quel periodo è ampiamente e pienamente documentato»[xxi].

È possibile un approfondimento più concreto? Secondo una storica, che ha anche intervistato Smuraglia nel 2017, dopo l’arruolamento dei giovani nelle formazioni militari inquadrate con gli Alleati, alcuni sono inviati per l’addestramento a Cesano, altri no: «I contingenti partiti da Perugia, Terni o Ancona all’inizio del 1945 sono mandati direttamente nel Ravennate ed entrano in linea dopo pochi giorni dall’arrivo e dopo aver ricevuto un addestramento sommario all’uso delle armi inglesi»[xxii].

Sempre nel Ricompart, in «Fascicolo personale di Smuraglia Carlo, n. 8029», c’è una lettera del 19 luglio 1946, intestata «Partito comunista italiano, federazione provinciale di Pisa», indirizzata «caro Sarti» e firmata da Smuraglia. Rodolfo Sarti presiede la Commissione regionale per le Marche sino a febbraio 1948[xxiii]. Il mittente chiede aiuto per il riconoscimento della qualifica di partigiano. Prima non gli serviva, ma ora sì, altrimenti dovrebbe pagare tutte le tasse arretrate dell’università; soprattutto, senza la qualifica dovrebbe attendere due anni per fare l’esame di procuratore; la partecipazione alla guerra di liberazione nel Cremona non basta perché è durata troppo poco («ho combattuto solo quattro mesi e non un anno, come è richiesto»). Parole che si conciliano a fatica con quello che ha raccontato in seguito, cioè l’arruolamento nel Cremona dopo la liberazione di Ancona e dopo due mesi di discussioni[xxiv], e la partecipazione alla liberazione di Venezia, a fine aprile 1945[xxv]. Ancona è liberata il 18 luglio 1944[xxvi]; fra la liberazione di Ancona e quella di Venezia ci sono nove mesi abbondanti.

Gli elementi noti, considerando anche l’intervista del 2017, lasciano congetturare così: Smuraglia, dopo la liberazione di Ancona, partì a gennaio del 1945 o, meno verosimilmente, a fine dicembre del 1944, ed è per questo che il suo periodo nel Cremona fu di quattro mesi, come dice nella lettera del 1946. Sono compatibili con questa versione anche due relazioni dell’Ufficio del rappresentante militare dei patrioti: all’arrivo degli Alleati in un primo momento «nessuna banda seguì le truppe nelle successive operazioni militari»; successivamente l’arruolamento proposto dal governo italiano prima ebbe poco ascolto ma poi, sostenuto dal Cln, a gennaio 1945 ebbe successo[xxvii]. Comunque in un certo arco di tempo, prima o dopo la partenza col Cremona, Smuraglia, studente universitario iscritto a Pisa, sostenne esami a Camerino (in tempo di guerra era consentito)[xxviii].

Nel seguito della lettera del 1946 il giovane è in apprensione: «La preoccupazione deriva dal fatto che i fatti d’arma del mio gruppo furono pochi e non tutti di rilievo. Facendo parte del Gruppo di Peppe da Roma, non c’è forse da meravigliarsi che persone oneste si siano trovate isolate». Aggiunge il suo punto di vista sulla sottrazione del piano di distruzione delle officine elettriche: se ne poteva salvare almeno qualcuna, ma quando portarono il documento al «Comandante» (tra virgolette) quello osservò che era un bel disegno ma che non valeva la pena rischiare uomini. Commenta: «E pensa che il lavoro si svolse quasi sempre così». Non è possibile attribuire torti, ragioni o malintesi. Indirettamente lo scritto getta ombre su altri: le persone oneste erano isolate, cioè circondate dalla disonestà. Comunque, un’altra fonte accenna alla costituzione di un gruppo, sulla montagna di Serra San Quirico, comandato da «Peppe Romano», fra il 24 marzo e i primi di aprile 1944, dopo un periodo critico[xxix]. Quanto alla lettera, c’è una difficoltà di raccordo con la scheda: se il comandante era un altro è oscura la rivendicazione di un incarico di comando, ma forse Smuraglia si riferisce all’aver comandato il gruppo Sasso-Sant’Elena; però allora c’è un’incongruenza fra la scheda e il libro già citato («né incarichi di comando, né medaglie»).

Ancora nella lettera: «Certo, il mio contributo sarà stato modesto, ma sono andato poi ancora in guerra con la “Cremona”; dunque, la volontà c’era, dal momento che la guerra di liberazione l’ho fatta fino in fondo e sono stato anche decorato. Credo di non chiedere troppo». Quanto all’essere decorato: sempre nel libro citato, «né incarichi di comando, né medaglie»; ma potrebbe riferirsi al certificato al patriota o «brevetto Alexander», cui accenna poco prima.

Il sostegno chiesto c’è, e le parole in blu ridefiniscono le cose: continuamente staffetta. In cima alla lettera ci sono il timbro «partigiano» e una firma blu uguale a quella sotto la dichiarazione «Visto si conferma poiché fece continuamente staffetta» sul modulo: «Frillo». A intervenire sul modulo e a firmare sulla lettera il timbro col sunto del provvedimento è la stessa persona: Alfredo Spadellini. È stato combattente in Spagna, incarcerato, confinato, partigiano[xxx].

Nel 1946 non si può prevederlo, ma questo avrà un peso. Quanto all’appartenenza di Smuraglia all’Anpi, per capire meglio bisognerebbe sapere a quando risale; comunque, molti anni dopo la guerra lo statuto dell’associazione ha previsto anche l’ammissione dei combattenti militari[xxxi] (ancora dopo, dal 1991, Smuraglia ha fatto parte del consiglio nazionale[xxxii]). Quanto alla sua posizione, sino a ridosso dell’arrivo di Carla Nespolo si dirà che l’Anpi è stata presieduta sempre da partigiani.

È difficile superare un senso di perplessità, leggendo la missiva del 1946. Va riconosciuto che Smuraglia fece pur qualcosa e che si comportò ben diversamente da chi si schierò col nazifascismo, o da chi semplicemente si fece i fatti suoi. Ma la condotta successiva, quando è già attivo in politica e scrive su carta intestata di un partito, ha il sapore di un fardello accorto che si riproduce imperterrito attraverso l’Italia postunitaria, il fascismo e la democrazia, capace di abitare la politica, la prassi e il costume, sciorinando i meriti, tacendo i limiti o ammettendoli solo fra vicini.

Facciamo un’ipotesi: nel 1946 Smuraglia, conoscendo la realtà e le circostanze che lo riguardano fra il settembre 1943 e la liberazione di Ancona, presenta la domanda alla Commissione, coi nudi fatti, senza chiedere appoggi. Forse gli riconoscono lo stesso la qualifica di partigiano, forse no. Alla peggio la domanda è rigettata, e non viene certo trattato come la dittatura trattava i non tesserati: l’esito è che deve pagare le tasse universitarie dall’autunno 1943 e che per fare l’esame di procuratore gli occorrono due anni di pratica. Ma tasse e soprattutto tirocinio sembrano timori insuperabili.

Certo, ci tiene a entrare nel mondo del lavoro. Nel modulo in cui si dichiara «caporal maggiore di fanteria volontario nel Gruppo di Combattimento “Cremona” in tutta la guerra di liberazione», alla voce professione abituale scrive «pratica di procuratore». Questo conferma la voglia di lavorare e, sia chiaro, bisogna essergli riconoscenti se trascurò la pratica legale, si sottrasse all’arruolamento nella repubblichina e dopo combatté nel Cremona: rischiò e lo fece per la nostra libertà. La apprezzo e sono libero di dire il mio disagio: nella lettera del 1946 non vi è cenno a una necessità interiore, a un bisogno di appartenenza; non si parla di politica, si chiude con «saluti fraterni» ma non c’è mai la parola compagno. Si tace sul successo epocale di qualche settimana prima: c’è la Repubblica, i Savoia sono in Portogallo. Non ci sono neanche i desideri umanissimi di un giovane, nell’Italia tornata alla vita, come la voglia di non sfigurare, di avere belle frequentazioni, di far colpo su una ragazza. Il mittente ha scelto: senso pratico e carriera, e per questo il riconoscimento di partigiano fa comodo.

Evitando di fare di Smuraglia il bersaglio di rampogne fuori misura, va detto, più in generale, che un combattimento spontaneo difficilmente va d’accordo con la burocrazia e che questa si concilia male con quello. Così, la questione dei riconoscimenti e degli inquadramenti successivi non è una novità, in Italia. Dopo l’impresa dei Mille l’ingresso dei garibaldini nell’esercito fu contrastato; Raffaello Giolli – prima di essere catturato, torturato e deportato a Mauthausen Gusen, dove morirà – in La disfatta dell’Ottocento ricorda lo zelo selettivo di Genova di Revel:

Neppur fra i veterani permette che s’iscrivano: non bastano ferite e strazi: sono necessari documenti, bolli, certificati. Una folla d’ogni genere, di sciancati e malati, assedia l’ufficio napoletano dello svelto conte piemontese: egli chiede certificati, anche se troppa di quella gente nel giorno d’un’insurrezione aveva preso le armi senza pensar prima a farsi una dichiarazione notarile, anche se era pur noto che la rivoluzione s’era sempre fatta senza verbali autentici[xxxiii].

Quanto a ciò che accadde dopo il 1945, Claudio Pavone osserva:

Per cementare la visione unitaria l’aspetto patriottico fu […] nettamente privilegiato a danno non solo di quello di classe, ma anche di quello “civile”. Corollario ne fu che le truppe messe faticosamente insieme dal regno del Sud – il Corpo italiano di liberazione – e che combatterono a fianco degli Alleati sul fronte italiano sono state in misura sempre maggiore, nelle celebrazioni ufficiali, assimilate ai partigiani, con scarso rispetto della verità storica[xxxiv].

Eppure la distinzione fra partigiani e militari era chiara e gli antifascisti ci tenevano. Per esempio, poco dopo la guerra, così nella prefazione a La Resistenza Italiana, poi compresa nel volume Antologia della Resistenza, frutto di una decisione presa nel 1950 al congresso dei centri del libro popolare:

Il contributo maggiore alla vittoria alleata sul fronte italiano, anche se meno appariscente e meno noto, è stato indubbiamente quello fornito da noi partigiani. Ma non è stato il solo. Dal fronte di Abruzzo sin oltre Bologna combatterono con gli Alleati numerose truppe italiane dell’esercito regolare. […] Erano divisioni organiche: ma furono chiamate “Gruppi di combattimento” perché anche il nome “divisioni” parve compromettente. Furono frazionate tra le grandi unità alleate: non si volle riunirle in un’armata organica perché un esercito italiano non figurasse tra i combattenti e i vincitori[xxxv].

E così nel volume Il secondo Risorgimento d’Italia, nel decennale della Liberazione:

Nella guerra partigiana le regole militari, i manuali di stato maggiore, le formulette imparate alla scuola allievi ufficiali, non hanno alcun valore, e i galloni meno che meno. […] E i concetti militari si rovesciano: una squadra di partigiani può imporre a una divisione corazzata la sua tattica di combattimento, può fermare un’armata, può mettere in crisi un esercito: dipende solo da come essa combatte, dagli obiettivi che sceglie[xxxvi].

La differenza tra partigiani e militari era anche nelle canzoni: «Il bersagliere ha cento penne e l’alpino ne ha una sola, il partigiano ne ha nessuna e sta sui monti a guerreggiar»; più esplicita questa, ossolana: «Non c’è tenente né capitano, né colonnello né general: questa è la marcia dell’ideal, questa è la marcia del partigian».

Sempre sulle differenze, qualche caso noto, cominciando da due presidenti della Repubblica. Carlo Azeglio Ciampi, che combatté come militare, a volte era indicato come appartenente alla Resistenza; a chiarire, con intelligenza inconfondibile, è stato soprattutto Antonio Tabucchi[xxxvii]. Quanto a Giorgio Napolitano, a Napoli, si iscrisse al Pci nel 1945. Invece Giaime Pintor nel 1943 prima raggiunse il Sud, ma poi decise di riattraversare le linee verso Roma per raggiungere i partigiani. La sua lettera da Napoli del 28 novembre 1943 è celebre:

In tutto questo periodo è rimasta in sospeso la necessità di partecipare più da vicino a un ordine di cose che non giustifica i comodi metodi della guerra psicologica; e l’attuale irrigidirsi della situazione militare, la prospettiva che la miseria in cui vive la maggior parte degli italiani debba ancora peggiorare hanno reso più urgente la decisione[xxxviii].

La scelta fu eccezionalmente coraggiosa. Pintor colse un problema e uno spartiacque:

A un certo momento gli intellettuali devono essere capaci di trasferire la loro esperienza sul terreno dell’utilità comune, ciascuno deve saper prendere il suo posto in una organizzazione di combattimento. Questo vale soprattutto per l’Italia. Gli italiani sono un popolo fiacco, profondamente corrotto dalla sua storia recente, sempre sul punto di cedere a una viltà o a una debolezza. Ma essi continuano a esprimere minoranze rivoluzionarie di prim’ordine: filosofi e operai che sono all’avanguardia d’Europa[xxxix].

Chi scriveva con questa lucidità aveva ventiquattro anni e saltò su una mina. Franco Antonicelli, commentando la lettera: «C’è stata questa vera rivoluzione, quel riscatto, quella rigenerazione totale? Cominciò, non fu portata a termine. Cominciò e si chiamò guerra partigiana, vittoria repubblicana, Costituzione democratica. Che ne resta della vittoria, quale autorità, quale fondamento ha la Costituzione?»[xl].

Per Smuraglia né Quirinale né mina, ma una vita lunga quattro volte quella di Pintor e densa: avvocato, cattedra universitaria, Regione Lombardia, Consiglio superiore della magistratura, tre legislature in Senato, presidenza dell’Anpi.

Naturalmente si può dire che si sa come vanno le cose, che l’Italia è fatta così. Gaetano Salvemini nel 1947, tirando le fila, prova a contare i partigiani e chi li sosteneva, ammette l’incertezza, guarda alla sostanza:

E quand’anche gli italiani che sono fatti diversamente fossero non centomila, ma appena mille, cento, dieci, uno solo, quell’uomo solo – degno di rispetto, e non carogna – dovrebbe tener duro e non mollare. E sarebbe dovere approvarlo, incoraggiarlo, sostenerlo e non dirgli: “Pensa alla salute, tira a campare, chi te lo fa fare, bada ai fatti tuoi, lascia correre: gli italiani son fatti così”. Un uomo degno di rispetto è una ricchezza che non si deve buttar via[xli].

Adesso il «chi te lo fa fare» consiglia sia di evitare approfondimenti delicati su una figura conosciuta, sia di non urtare la sensibilità dell’associazione che ha presieduto.

Invece no. Qualcosa mi impedisce di lasciar correre. Dei partigiani che ho incontrato ricordo quello che, arrestato e spedito in Germania, si gettò da un treno in corsa per tornare a lottare; e quello che, bambino, imbracciò il mitra e alla Liberazione lo sotterrò smontato in una latta d’olio. Ricordo lei, che negli anni Ottanta abitava in una casa con due uscite, per quando viene la Gestapo. E lui, il francese: la guerra era finita da decenni, ma al caffè non si sedeva se non poteva vedere la porta; chiesi il motivo, sorrise solo con gli occhi. Ecco, me lo impediscono loro.

La storia della Resistenza è più grande di fatti personali, ma senza fatti e persone non c’è storia. Perché proprio Smuraglia? Nella Commedia Cacciaguida invita a dire la verità («e lascia pur grattar dov’è la rogna») e spiega l’importanza delle «anime che son di fama note»; si direbbe oggi, l’importanza del nome. Non si cattura l’attenzione «per essemplo ch’aia / la sua radice incognita e ascosa». Per parlare di quella generazione e di ciò che le sue vicende hanno fatto sedimentare bisogna prendere un essemplo di fama.

Il bisogno acritico di punti di riferimento non è un tratto esclusivo del fascismo, e l’accettazione di versioni tranquillizzanti, magari guardando con freddezza chi le mette in dubbio, non porta nulla di buono. Questo conta, più di cosa abbia fatto un ragazzo dal 1943 al 1945.

Per chi considera divisivo mettere in discussione queste cose, c’è Partigia, di Primo Levi: «Ci guarderemo senza riconoscerci, / diffidenti l’uno dell’altro, queruli, ombrosi». I partigiani non sono mai stati un blocco uniforme, quelle sono comodità per chi ha voglia di ubbidire; coi partigiani è diverso: «In piedi, vecchi, nemici di voi stessi: / la nostra guerra non è mai finita».

[i] Stragi naziste e fasciste sull’Appennino Tosco-Romagnolo, a cura dell’Istituto di Storia della Resistenza e dell’Età Contemporanea di Forlì-Cesena, Società editrice Il Ponte Vecchio, Cesena 2003, p. 105.

[ii] Renzo Vanni, La Resistenza dalla Maremma alle Apuane, Giardini, Pisa 1972, p. 220.

[iii] Carlo Smuraglia e Francesco Campobello, Con la Costituzione nel cuore. Conversazioni su storia, memoria e politica, Edizioni Gruppo Abele, Torino 2018, p. 15.

[iv] Ivi, pp. 15-16.

[v] Ivi, p. 17.

[vi] «I ragazzi delle scuole dove ci rechiamo a parlare, oggi, tra le tante domande ci chiedono cosa facessimo tutto il giorno nel periodo della Resistenza. Ebbene, c’erano giorni in cui non si faceva nulla, si restava nell’attesa di un’azione di guerriglia, si aspettava e si preparava l’occasione per un attacco. In quei giorni c’era spazio per discutere, confrontando le opinioni e le idee diverse che si andavano formando tra i più anziani e i giovanissimi», Carlo Smuraglia, Riflessioni sulle motivazioni dei volontari provenienti dalle file partigiane e arruolati nell’esercito italiano, in Carlo Smuraglia (a cura di), I volontari partigiani nel rinnovato esercito italiano, viella, Roma 2018, p. 23; il libro è realizzato col finanziamento del Ministero della difesa. In Gad Lerner e Laura Gnocchi (a cura di), Noi partigiani. Memoriale della Resistenza italiana, Feltrinelli, Milano 2020, pp. 85-86, Smuraglia racconta che nelle Marche si formò un gruppo; «Progressivamente, il gruppo si organizzò, tentò di collegarsi a formazioni più grandi, ma senza successo. Quindi, finimmo per organizzarci in forma di Gap (Gruppo di azione patriottica), impegnandoci per alcuni mesi nella guerra partigiana sulle montagne delle Marche. Non mi addentro nei particolari, perché non facemmo nulla di eccezionale né di diverso da tanti altri».

[vii] «Nelle mie Marche. Ero alla Normale di Pisa, lasciai perdere gli studi e tornai a casa per sottrarmi alla leva. Il fascismo mi aveva richiamato alle armi, ma io disertai nascondendomi. Conobbi dei partigiani e decisi di aderire anch’io alla lotta contro il nazifascismo», in Concetto Vecchio, Anpi, il partigiano Smuraglia: «Quella dell’Ucraina è Resistenza e va aiutata anche con le armi», www.repubblica.it, 18 marzo 2022, accesso 4 aprile 2022.

[viii] All’Archivio centrale dello Stato (d’ora in avanti ACS), fondo Ricompart, le schede sono 75 ma due sono della stessa persona. Ancora in ACS, fondo Ricompart, busta «Ricompart Marche AN 3 elenco formazioni Ancona», la rubrica «Ancona XIV, brig. Garibaldi Serra San Quirico», coi nomi in ordine alfabetico, che comprende anche Smuraglia, contiene un riepilogo in cui i Gap di Serra San Quirico consistono di 50 partigiani e 28 patrioti, totale 78, con 18 «non pubblicati». Sempre in ACS, fondo Ricompart, il documento Comando V Brigata B Garibaldi, citato in seguito, p. 23, per il periodo dal 12 giugno 1944 indica il distaccamento Serra San Quirico come composto da 100 uomini.

[ix] Così Luigi Longo, Un popolo alla macchia, Mondadori, Milano 1952, pp. 177-183.

[x] ACS, fondo Ricompart, busta «Ricompart Marche, formazioni partigiane Marche, 1) relazioni sulla attività svolta nella provincia di Ancona, 2) relazioni di 45 distaccamenti. 18», fascicolo «1 Formazioni partigiane, Marche, Relazione sull’attività svolta nella provincia di Ancona», Comando V Brigata B Garibaldi, comprendente l’ordine di operazione n. 1, del 19 giugno 1944, e una relazione a firma del commissario politico Gino Grilli e del comandante colonnello Remo Corradi. La relazione, col titolo Relazione sulla vita e l’attività della Brigata Garibaldi poi V Brigata Garibaldi Ancona, è anche in Istituto di storia contemporanea della Provincia di Pesaro e Urbino, fondo Mari Giuseppe (in memoriedimarca.it, accesso 5 maggio 2022).

[xi] Comando V Brigata B Garibaldi, cit., p. 3.

[xii] Ivi, p. 4.

[xiii] Ivi, p. 44.

[xiv] Ivi, p. 2.

[xv] Istituto di storia contemporanea della Provincia di Pesaro e Urbino, fondo Mari Giuseppe, Schema della vita della brigata Ancona dall’ottobre 1943 al giugno 1944, 15 agosto 1944 (in memoriedimarca.it, accesso 5 maggio 2022), p. 1.

[xvi] Istituto di storia contemporanea della Provincia di Pesaro e Urbino, fondo Mari Giuseppe, Per la storia della divisione Marche, a firma di Rodolfo Sarti (in memoriedimarca.it, accesso 5 maggio 2022), p. 24.

[xvii] Ivi, p. 22.

[xviii] Istituto di storia contemporanea della Provincia di Pesaro e Urbino, fondo Mari Giuseppe, Relazione brigata Ancona, 25 ottobre 1944, a firma di Amato Tiraboschi (in memoriedimarca.it, accesso 5 maggio 2022), p. 5.

[xix] Comando V Brigata B Garibaldi, cit., p. 24.

[xx] ACS, fondo Ricompart, busta «Ricompart Commissione marchigiana, carteggio 46-47, 47-48, 48-49», Relazione sulla ispezione alla Commissione regionale riconoscimento qualifica partigiani delle Marche, p. 1; Spadellini è indicato come segretario dal 27 febbraio 1948.

[xxi] Carlo Smuraglia, lettera a Luca Baiada, 27 settembre 2021.

[xxii] Roberta Mira, Dalla Resistenza all’esercito. Volontari partigiani nelle truppe regolari durante la campagna d’Italia, in Smuraglia (a cura di), I volontari partigiani nel rinnovato esercito italiano, cit., p. 102 (in nota cita un’intervista a Smuraglia fatta dall’autrice il 13 novembre 2017).

[xxiii] Relazione sulla ispezione alla Commissione regionale riconoscimento qualifica partigiani delle Marche, cit., p. 1.

[xxiv] «Mi riferisco alla scelta fatta molti mesi dopo, nell’estate del 1944, quando venne liberata Ancona. […] Trascorsero due mesi in discussioni fra quelli che, come me, erano tornati a casa dopo aver fatto, in varie forme, la Resistenza», Smuraglia e Campobello, Con la Costituzione nel cuore, cit., pp. 18-19.

[xxv] «Abbiamo innalzato la bandiera italiana solo quattro ore prima dell’arrivo degli Alleati. […] Se non erro, a Venezia siamo arrivati il 28-29 aprile», ivi, pp. 21 e 25. La partecipazione alla liberazione di Venezia è anche in Smuraglia, Riflessioni sulle motivazioni dei volontari provenienti dalle file partigiane e arruolati nell’esercito italiano, cit., p. 26.

[xxvi] Massimo Coltrinari, I percorsi di ricostruzione delle forze armate dopo l’8 settembre 1943, in Smuraglia (a cura di), I volontari partigiani nel rinnovato esercito italiano, cit., p. 17.

[xxvii] ACS, fondo Ricompart, busta «Ricompart Marche, formazioni partigiane Marche, 1) relazioni sulla attività svolta nella provincia di Ancona, 2) relazioni di 45 distaccamenti. 18», fascicolo «2 Formazioni partigiane Marche (AN), Relazioni di 45 distaccamenti», «Ancona, Relazioni bande», sottofascicolo «Collegamenti fra VIII Armata e Bande patrioti», Ufficio del rappresentante militare dei patrioti, relazione alla Commissione alleata e alla Presidenza del consiglio, firmata dal capitano Corrado Scoto, senza data ma con protocollo 3 marzo 1945, e Ufficio del rappresentante militare dei patrioti, relazione del 15 gennaio 1945 alla Presidenza del consiglio, firmata dallo stesso Scoto.

[xxviii] Smuraglia, Riflessioni sulle motivazioni dei volontari provenienti dalle file partigiane e arruolati nell’esercito italiano, cit., p. 24.

[xxix] Schema della vita della brigata Ancona dall’ottobre 1943 al giugno 1944, cit., p. 2.

[xxx] www.antifascistispagna.it, accesso 12 aprile 2022.

[xxxi] Lo statuto approvato col d. luog. 5 aprile 1945 n. 224 è stato modificato col d.p.r. 26 febbraio 1970 n. 199.

[xxxii] Lucio Cecchini, Per la libertà d’Italia, per l’Italia delle libertà. Profilo storico dell’Associazione nazionale partigiani d’Italia, Arti grafiche Jasillo, Roma 1998, volume secondo, 1961-1997, pp. 399 e 407.

[xxxiii] Raffaello Giolli, La disfatta dell’Ottocento, Einaudi, Torino 1961, p. 213.

[xxxiv] Claudio Pavone, La Resistenza in Italia: memoria e rimozione, in «Rivista di storia contemporanea», XXIII-XXIV, 4 (1994-1995), pp. 484-492 (testo di una relazione al convegno La Guerre civile entre histoire et mémoire, La Roche-sur-Yon, ottobre 1994), specialmente p. 488.

[xxxv] Ferruccio Parri, Raffaele Cadorna, Luigi Longo, Giovanni Battista Stucchi, Enrico Mattei, Mario Argenton, Che cosa fu la Resistenza in Italia, prefazione a La Résistance Italienne (pubblicato anche col titolo La Resistenza Italiana), in Luisa Sturani Monti, Antologia della Resistenza. Dalla Marcia su Roma al 25 aprile, Edizioni Gruppo Abele, Torino 2012, pp. 125-126.

[xxxvi] Fausto Vighi, La Resistenza in Corsica, nei Balcani e nell’Egeo, in Aa.Vv., Il secondo Risorgimento d’Italia, Centro Editoriale d’Iniziativa, 1955, p. 43. Il volume comprende contributi di Francesco Flora, Luigi Longo, Ferruccio Parri, Raffaele Cadorna, Joyce Lussu, Giuseppe Mari, Italo Calvino, Renata Viganò, Mario Socrate e altri.

[xxxvii] Antonio Tabucchi, L’oca al passo. Notizie dal buio che stiamo attraversando, Feltrinelli, Milano 2006, p. 18.

[xxxviii] L’ultima lettera di Giaime Pintor, in Sturani Monti, Antologia della Resistenza, cit., p. 172.

[xxxix] Ivi, p. 174.

[xl] Cecchini, Per la libertà d’Italia, per l’Italia delle libertà, cit., volume primo, 1944-1960, p. 124.

[xli] Gaetano Salvemini, Gli italiani son fatti così, in Sturani Monti, Antologia della Resistenza, cit., p. 47.

 

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