La bolla mediatica

Sommersa tra le pagine dedicate alle lettere della Meloni che cerca di far dimenticare quanto sostenuto sino a ieri e quelle riservate ai vari opinionisti del giornale impegnati a spiegarle come deve comportarsi un Europa, è apparsa sul «Corriere» dell’1.4.2023 finalmente una notizia degna di nota: quella relativa alla causa da 1,6 miliardi di dollari intentata da Dominion, produttore di macchine per gli scrutini elettorali, contro Fox News, la rete megafono della campagna di Trump, per i danni arrecati alla società a seguito delle accuse di aver manipolato i dati informatici relativi al voto del 2020.

Ma perché dovrebbe avere importanza per noi una causa civile di risarcimento danni promossa in un tribunale di Delaware, nei lontani Usa?

Per una serie di buone ragioni. Innanzitutto perché riguarda il processo elettorale, ormai unico criterio per valutare la salute della democrazia procedurale che, stante il costituzionalismo egemone, si basa appunto sul voto periodico del cittadino informato; in secondo luogo perché, incidendo sulla credibilità di questo sistema, conferma come il consenso dell’elettore sia stato progressivamente catturato col passaggio da una propaganda che forzava la realtà a una narrazione che la travisa completamente; e, infine, perché dalle carte processuali, solo in parte finite sui giornali, si apprende che gli autori di questo travisamento non avevano semplicemente male interpretato i fatti accaduti, ma li avevano falsificati consapevolmente per incrementare l’audience, favorendo in tal modo il loro sponsor politico, in quel caso David Trump.

Gli sms scambiati tra i più noti conduttori della Fox, da Tucker Carlson a Laura Ingraham, hanno infatti rivelato che pur nutrendo scarsa considerazione per Trump e i suoi avvocati (degli “svitati”), avevano però, con un crescendo di ascolti, dettato loro l’agenda in campagna elettorale, fornendo editoriali dedicati alla sostituzione etnica, alle teorie “complottiste”, all’assedio di minoranze minacciose e alla conseguente necessità di armarsi per resistere alla deriva; prospettando, da ultimo, futuri brogli elettorali prima del voto e scatenando poi la rabbia per la “vittoria rubata”, grazie alla «truffa elettronica delle macchinette di Dominion», una volta resi noti i risultati (con le conseguenze che si sono viste a Capitol Hill).

Il giudice Eric Davies aveva già stabilito che tutte quelle “notizie” erano false; il processo doveva appurare solo se nell’accusa a Dominion vi fosse stata mala fede nel divulgarle: una domanda retorica, peraltro, perché la Fox aveva convinto per mesi i teleutenti del fondamento di quei messaggi e della forza di chi li sbandierava e alla fine non li aveva voluti deludere annunciando la sconfitta del banditore (e causando in tal modo il loro allontanamento dalla rete): quella parola infausta non doveva essere pronunciata, non c’era stata alcuna sconfitta, bensì una vittoria «rubata», conseguenze dell’ennesimo complotto ordito tramite le macchinette di Dominion.

Il processo si presentava, però, denso di incognite: il giudice, infatti, aveva disposto l’imbarazzante convocazione di Robert Murdoch e quella, sorprendente, di un giurista che avrebbe dovuto illustrare il precetto del Primo emendamento della Costituzione americana («Il Congresso non farà nessuna legge diretta a limitare la libertà di parola o di stampa»): si trattava cioè di interpretare una norma fondamentale del costituzionalismo liberale, un compito, questo, denso di rischi, per la difficoltà di stabilire l’ambito di applicazione concreta di quel nobile principio, ma, soprattutto, per il precedente che avrebbe finito per creare, non tanto per i cittadini quanto per i governanti.

In passato il primo emendamento era stato orgogliosamente richiamato dal giudice Hugo L. Black quando la Corte Suprema aveva emesso la sentenza a favore del «New York Times» per la pubblicazione dei The Pentagon Papers sulla guerra decisa dagli Usa nel Vietnam («solo una stampa veramente libera può denunciare con efficacia un inganno in seno al governo»): in realtà quella enfasi era eccessiva, poiché la divulgazione di quegli atti segreti era dipesa soprattutto dallo scontro insorto tra due opposte componenti dell’Amministrazione Usa, contraria l’una e favorevole l’altra al continuo invio delle truppe nel Vietnam, con la prima che aveva giocato la carta dei media. In quel caso il Procuratore generale John Mitchell aveva cercato di aggirare il primo emendamento, rispolverando un articolo di legge sullo spionaggio, ma aveva perso.

I tempi sono cambiati.

Da anni gli Usa si battono per ottenere l’estradizione di Julian Assange, reo di aver pubblicato tramite VikiLeaks informazioni segrete che rivelavano crimini commessi dall’esercito americano nelle guerre in Iraq e in Afghanistan e per questo ristretto da 4 anni nel carcere di massima sicurezza di Belmarsh, in Inghilterra: per lui non viene invocata l’applicazione del Primo emendamento, ma è stata elevata l’accusa di violazione dell’Espionage Act, una legge risalente alla Prima guerra mondiale, che prevede una condanna sino a 170 anni di carcere.

Bene. L’ iniziativa del giudice Davies di dar vita in tribunale a una discussione sui contenuti e i limiti concreti di quella norma costituzionale sembrava utile nella causa Dominion contro Fox, necessaria nel giudizio su Assange, ma entrava in netta collisione con gli interessi dell’Amministrazione americana, che riteneva di essere l’unica depositaria dell’interpretazione autentica di quel principio: così, il giorno in cui il processo doveva iniziare, i due contendenti privati improvvisamente si accordavano, la Fox staccava un assegno di 787,5 milioni di dollari, Dominion accettava la transazione, il giudizio prematuramente si chiudeva e i media non dimostravano più alcuna curiosità per divulgare le altre carte processuali, di sicuro interesse pubblico, ma destinate ormai all’archivio.

Parlare di una causa tra privati non rende bene la sostanza della vicenda: la Fox News Channel è il canale televisivo internazionale con 100 milioni di utenti nella sola America, seconda solo alla Cnn; la Dominion Voting Sistem è l’azienda che gestisce gran parte del voto elettronico negli Usa e nelle elezioni del 2020 ha fornito i suoi servizi a 28 Stati. Si tratta, cioè, di due mega-imprese che forniscono servizi pubblici e che, rispettivamente, contribuiscono a formare l’opinione dei cittadini e che la registrano al momento delle elezioni. La democrazia procedurale, astrattamente, presuppone la correttezza dell’informazione e la regolarità dei conteggi: un tasso di manipolazione è dato per scontato, il peso delle lobbies, pure, la spettacolarizzazione della politica, anche, ma una campagna elettorale condotta all’insegna della “strategia della menzogna”, che coinvolga sia i messaggi che gli esiti certificati del voto, comporta un tale salto di qualità da rendere problematica la credibilità della stesso processo democratico (e questo, a parte le regole elettorali dirette a distorcere la rappresentanza, tali da premiare spesso il candidato meno votato).

Sta di fatto che poco meno della metà degli elettori ha puntato su un candidato che ha sì sviluppato i temi cari alla tradizione conservatrice repubblicana (Dio, Patria e Famiglia), ma li ha accompagnati con menzogne di ogni genere, suscitando paure (dei comunisti, dell’invasione degli immigrati, della sostituzione etnica, ecc.), grazie alla rappresentazione di una realtà parallela e inquietante: una propaganda che ha rimodellato l’ideologia di quel partito (ancora nella primavera del 2021 il 61% dei repubblicani riteneva che le elezioni fossero state truccate), visto che Trump continua a essere il loro leader più votato e che nel Texas, nel giugno 2023, ha inaugurato la nuova campagna elettorale promettendo di liberare il paese da «marxisti, comunisti e drogati» e di «vendicare» i suoi elettori per la «vittoria rubata».

Certo non scopriamo oggi la manipolazione del consenso, la propaganda drogata, la politica spettacolo, ma la novità è costituita dal fatto che la vicenda in esame documenta tutto questo dall’interno, attraverso le voci degli stessi manipolatori delle notizie e ne certifica inoltre l’efficacia, evidenziando come quel falso, pur grossolano, abbia messo solide radici presso gli elettori fidelizzati.

Orbene, è noto che la democrazia procedurale si distingue dalle altre forme di governo per le “elezioni periodiche” che la caratterizzano; ma i suoi stessi sostenitori ritengono necessario per il suo corretto funzionamento che le opinioni degli elettori si siano formate «quanto è più possibile liberamente» (Bobbio), che gli stessi siano perciò in grado di resistere «alle lusinghe di truffatori e maneggioni» (Schumpeter); tutti, poi, convengono nel ritenere che «una democrazia esiste nella misura in cui i suoi ideali e i suoi valori si traducono in realtà» (Sartori).

Guardando da lontano e dall’esterno queste vicende statunitensi, si coglie immediatamente il divario crescente venutosi a creare tra quel modello di democrazia e la sua attuale realizzazione. Stupisce, invece, che per le vicende italiane, a noi molto più vicine, la maggioranza dei votanti condivida la narrazione degli ultimi trent’anni offertaci dai media e la minoranza la ritenga opinabile, ma non falsa; laddove la semplice descrizione dei fatti accaduti in tale periodo evidenzia come quella rappresentazione descriva una realtà virtuale, che quei fatti ha sistematicamente e deliberatamente ignorati.

Eppure, sin dal 1997, Sartori (Homo videns, televisione e post-pensiero) aveva individuato i rischi per la democrazia derivanti da forme anomale di apprendimento («la televisione produce immagini e cancella i concetti», il computer cibernetico, «unificando parole, suoni e immagini introduce realtà simulate»), comportanti un «impoverimento del capire», una crescente «disinformazione», il dilagare di «opinioni etero dirette», con evidenti ricadute sul sistema politico, grazie alle video-elezioni e ai successivi governi «sondaggio-dipendenti».

Un avvertimento irriso, ovviamente, dalla maggioranza andata al potere nel ’94 («le televisioni non spostano voti»), ma, soprattutto, colposamente ignorato da una opposizione che si è subito adeguata (persino l’incandidabilità prevista dalla legge per il proprietario delle televisioni private è stata presa in considerazione).

Non a caso, col primo atto di governo, Berlusconi ha cambiato subito i dirigenti della televisione pubblica, dando così inizio alla bolla mediatica: divulgando, in tal modo, la storia di un imprenditore di successo che scende in campo con la sua azienda per salvare l’Italia dal comunismo; che vuole promuovere una rivoluzione liberale, ma che viene impedito a farla perché attaccato dalla sinistra giudiziaria; che perde le elezioni nel 2006, ma solo perché vi sono brogli e irregolarità nei conteggi; e che nel 2011 si dimette, perché costrettovi da un «colpo di Stato» orchestrato dall’Europa: a questo punto compaiono “documentari” televisivi e libri che parlano non più di uno, ma di «tre colpi di Stato», che vedono implicati, con allusioni varie, Magistratura Democratica, Scalfaro, Draghi, ecc.

Una storia virtuale, perché falsa: nel ’94 non c’era alcun pericolo comunista, la rivoluzione liberale, promossa da un oligopolista televisivo, supportato da neofascisti e secessionisti, era, viste le premesse, solo uno “specchietto per le allodole”; le elezioni del 2006 erano state regolari e Berlusconi era stato semplicemente sconfitto; le dimissioni del 2011 erano dipese dal fatto che se «i ristoranti erano pieni», il paese, con lo spread a oltre 500 punti, era sull’orlo della bancarotta; e quanto all’attacco dei giudici di sinistra, Davigo e Di Pietro nulla avevano a che fare con Magistratura Democratica, tanto da essere inizialmente sollecitati a entrare nel governo del Cavaliere: qualcuno, prima di Trump, aveva dunque raccontato di aver salvato il paese dai comunisti, di aver perso per elezioni irregolari, ecc.

Una storia virtuale, ma, al tempo stesso, “necessaria” per occultare la natura di quel governo, le sue pratiche e le ricadute prodotte sulle istituzioni: lo “scontro magistratura-politica” era l’unico modo per “giustificare” il fatto, unico nella storia delle democrazie occidentali, di tre fondatori del partito guida – Berlusconi, Previti, Dell’Utri – condannati in via definitiva e finiti in carcere per gravi reati (frode fiscale, corruzione in atti giudiziari, concorso esterno con la mafia); cambiare le leggi in otto casi è servito per far prescrivere reati già accertati a carico del presidente del Consiglio; in occasione della corruzione alla Guardia di Finanza, la colpa è ricaduta sui soli collaboratori, condannati ma poi premiati dal dirigente assolto; quando non si sono cambiate le leggi, sotto la guida degli avvocati divenuti parlamentari, si è cambiato il lessico giudiziario, l’innocentismo è stato spacciato per garantismo, le prescrizioni (che attestavano la commissione dei reati) sono diventate, nel linguaggio dei media, sentenze di assoluzione (e Ferrarella, sul «Corriere» del 14.6/.2023, ha fornito un’ampia e accurata sintesi degli sfregi istituzionali compiuti negli anni, una rassegna utile per chi ha perso, o non ha mai coltivato, la memoria dei fatti).

La bolla mediatica non si è arrestata con la “caduta” politica di Berlusconi consumatasi nel 2011, ma è continuata anche dopo la sua condanna definitiva (neppur questa accettata dai “garantisti”), è proseguita con l’offerta fattagli dagli ex vassalli di una candidatura a presidente della Repubblica ed è culminata, in occasione della sua morte, con la proclamazione di un lutto nazionale, prolungato per giorni e giorni in Parlamento, onoranze che nessuno statista italiano ha mai ricevuto nella storia repubblicana.

All’interno di questa bolla mediatica e su queste macerie istituzionali (esecutivo personalizzato, Parlamento umiliato, controlli osteggiati, commissioni per “processare” gli avversari politici, ecc.) – macerie, peraltro, non percepite come tali dalle varie forze di opposizione – ha preso corpo la successione: gli elettori della destra, affascinati più degli altri dalle persone sole al comando – purché impediscano, con qualsiasi mezzo, l’arrivo dei migranti, protestino contro i “poteri forti” e non «mettano le mani nelle tasche degli italiani» (il “pizzo” nella versione più recente) – hanno subìto i governi tecnici, gonfiato e sgonfiato i 5 Stelle, rinforzato e poi abbandonato Salvini, per poi virare verso l’ estrema destra della Meloni.

L’ex ministra di Berlusconi, che ha subito occupato la Rai e gli enti economici di rilievo, che si appresta a sostituire 4 giudici costituzionali “in scadenza” con altrettanti patrioti (qui è stato Trump ha segnare il solco), per poi, come dichiarato, cambiare la Costituzione, ha per ora raccolto e sviluppato l’eredità del Cavaliere.

Il vassallo di ieri ha infatti preso, dopo il voto del 25 settembre, la guida della coalizione. Inutile dire che, cambiata la prospettiva, è cambiata rapidamente la propaganda. Archiviato in silenzio il progetto di legge sulla supremazia del diritto nazionale su quello comunitario, oscurato l’elogio della Russia quale «parte del nostro sistema di valori europei e difensore dell’identità cristiana», lasciata ad altri camerati la teoria complottista della sostituzione etnica pianificata da Soros, la Meloni si è subito sdraiata sulla linea Draghi in politica economica (soldi agli imprenditori perché assumano qualcuno: questa la fine della “destra sociale”) e in politica estera (subordinazione totale agli Usa e alla Nato: questo il punto d’approdo dei sedicenti sovranisti).

Tanto, nella bolla mediatica, si può dire e disdire, a seconda delle circostanze; quel che è importante, è però non uscirne mai, dovendo altrimenti fare i conti con la realtà: solo continuando a vivere in questo mondo parallelo si può considerare normale che fonti del governo, coperte dell’anonimato (sic!) accusino una «fascia della magistratura di svolgere un ruolo attivo di opposizione», solo perché una ragazza denuncia di stupro il figlio della seconda carica dello Stato (e la procura, ovviamente, apre un’indagine) e perché un gip, andando di parere opposto al Pm, ordina l’imputazione coatta di un ministro che aveva rivelato pubblicamente notizie segrete (a riprova dell’inutilità della separazione delle carriere, che si persegue infatti per ben altre finalità).

Dopo di che si dà vita all’ormai noto copione: il governo è vittima della magistratura di sinistra, in Italia impera una «giustizia ad orologeria», sono necessarie riforme per impedire «invasioni di campo», ecc.

Come si vede, niente di nuovo sotto il sole: Berlusconi è vivo e lotta insieme a loro.

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