Un ricordo di Licio Gelli

Licio Gellidi Giancarlo Scarpari

Il 15.12.2015 è deceduto, nella sua residenza di villa Wanda, Licio Gelli, “maestro venerabile” della Loggia P 2.

Il neo sindaco di Arezzo, Alessandro Ghinelli, ha parlato della morte di un cittadino illustre; ma i politici che un tempo facevano la fila all’hotel Excelsior per chiedere favori o prendere ordini non si sono fatti vedere al funerale; taciturni sono rimasti anche i “fratelli” ancora in servizio, Berlusconi e Cicchitto in particolare; e solo Bisignani, opinionista di Rai 2 e variamente inquisito, definendosi figlioccio di Gelli, ha avuto parole di stima per lo scomparso.

Significativa è stata la reazione dei media: le ricostruzioni delle vicende che l’hanno visto protagonista sono state rapide e spesso imprecise; è stato fatto un grande uso degli abituali stereotipi (il burattinaio, i misteri d’Italia, ecc.); è invece mancata ogni seria riflessione sull’incidenza avuta per anni da quella loggia sulla politica italiana (solo «il Fatto Quotidiano» ha dedicato allo scomparso uno “speciale” di quattro pagine).

Orbene, se non sorprende la fretta e la superficialità con cui le televisioni pubbliche e private hanno accolto la notizia della sua morte, vista la reticenza con cui da sempre hanno trattato le vicende della loggia P2, colpisce invece il commento a essa riservato proprio dal giornale di via Solferino, che pure, a suo tempo, era rimasto vittima delle manovre di Gelli, Rizzoli e Tassan Din e dove oggi opinionisti illustri e storici affermati certo non mancano. Ma Paolo Mieli, sempre pronto a intervenire anche in tv su tutte le vicende della «Grande Storia del Novecento», questa volta è rimasto silenzioso e così è toccato a Sergio Romano prendere la parola; ma l’ha fatto in modo defilato, quasi di mala voglia, limitandosi a rispondere a un lettore che gli aveva chiesto quale idea si fosse fatta di quel personaggio1.

Chi si aspettava perciò da lui un’analisi articolata sul potere di quel gruppo massonico e sulle sue ricadute politiche è rimasto deluso. Dopo una rituale, non richiesta e comunque irrilevante, presa di distanze (Gelli «non l’ho mai incontrato»), Romano ha subito abbandonato il terreno dei fatti, rifugiandosi in quello delle “impressioni”, suggeritegli queste «dalla lettura dei giornali e dai racconti di chi lo ha conosciuto». Per chi ha scritto volumi su Crispi, Giolitti e Mussolini e che dirige una collana di storia, formarsi un giudizio esclusivamente su fonti del genere sembra francamente incongruo; e tuttavia questo modo di procedere spiega compiutamente perché Romano abbia tratto «l’impressione che Gelli fosse una sorta di Cagliostro, ambizioso, spavaldo, millantatore e incantatore»: infatti, proprio dalla lettura di un giornale, il «Corriere della sera» del 5 ottobre 19802, si poteva apprendere che era stato lo stesso Gelli, nella nota intervista dettata a Costanzo, a evocare Cagliostro; e, in un’ altra occasione, era stato un suo fedele amico, Pier Carpi, a tesserne l’elogio, proprio richiamando la figura del conte taumaturgo. Seguendo dunque quelle sole tracce, il risultato era scontato; né Romano ha spiegato al lettore perché nel 1980 un’intera pagina del «Corriere» fosse stata messa a disposizione di Gelli per il lancio di simili messaggi; non ha ricordato, cioè, che per alcuni anni il maggior quotidiano italiano e la sua politica editoriale erano stati appaltati, direttore compreso, a Gelli e a Ortolani; si è limitato, invece, a recepire l’immagine che di sé ha fornito il maestro venerabile ed è passato di conseguenza a spiegare al lettore le ragioni e la struttura della loggia P2.

Di che cosa si trattava, dunque? Di una «piramide formata dal nome e dal prestigio delle persone di cui Gelli riusciva a conquistare la fiducia. Quanto più ostentava potenti amicizie (non sempre reali) tanto più aumentava il proprio credito e reclutava nuovi amici. Fu questa la ragione – sostiene il giornalista – per cui il fenomeno Gelli non mi sembrò inquietante». Dunque, una storia amicale, impreziosita se mai dal coinvolgimento in essa di personaggi altolocati: sappiamo infatti che il “materassaio di Arezzo” aveva fatto strada, trattava da pari a pari i generali argentini (l’ammiraglio Massera era un suo affiliato), era invitato alle celebrazioni per la nomina di presidenti americani (Carter e Reagan), riceveva ministri e segretari di partito italiani (Longo del Psdi) nella suite che aveva all’hotel Excelsior. Ma su questi rapporti Romano non si dilunga, preferisce anzi non far nomi, non spiega la natura di quelle “amicizie”, né le ragioni di quegli incontri; e tuttavia una cosa lo “preoccupa”: il fatto, cioè, «che questo fantasioso venditore di fumo fosse riuscito a sedurre un certo numero di imprenditori, funzionari dello Stato, magistrati e parlamentari».

In effetti, stando agli elenchi sequestrati, peraltro incompleti, assai lungo era il numero delle persone “sedotte”: 18 magistrati, 12 generali dei CC, 5 della GdF, 22 del’esercito, 4 dell’aeronautica, 8 ammiragli, i vertici dei Servizi di sicurezza al completo, 44 parlamentari, ministri in carica (e non), 10 presidenti di istituti di credito e decine e decine di imprenditori; e tutti avevano prestato un giuramento contrario alla Costituzione, aderendo a una loggia che un Comitato amministrativo di inchiesta ha poi definito segreta, una Commissione parlamentare ha qualificato illegale e una legge dello Stato ha poi soppresso, ritenendola appunto in contrasto con l’art. 18 Cost.

Dunque, gli elenchi già forniscono il quadro di un potere che da pubblico non solo si era privatizzato (funzionari statali si erano messi a disposizione di un privato cittadino), ma era, addirittura, divenuto clandestino (si conosceva l’esistenza della loggia, ma assolutamente segrete e sottratte a ogni controllo ne erano invece le finalità e le modalità operative). La preoccupazione di Romano è quindi fondata; ma non lo spinge ad approfondire, né a porsi mirate domande (sulla dislocazione dei poteri, sullo stato dei partiti, sul rapporto pubblico-privato, ecc.); anzi, dovendo spiegare al lettore come tutto questo sia potuto succedere, continua a raccontare la storia dell’incantatore e dei sedotti, manifestando meraviglia («Che cosa pensare di una classe dirigente che si lasciava accalappiare da una persona di cui era impossibile [sic!] accertare i meriti e le qualità?»), per poi addebitare ogni colpa al «clima politico sociale italiano [esistente] tra la fine degli anni settanta e l’inizio degli ottanta»; un clima caratterizzato da «attentati terroristici […] da turbolenze bancarie […] dalla criminalità organizzata […] dai rapimenti di persona», ma anche dal fatto che «il rapporto stretto tra Aldo Moro con il Pci aveva trovato consensi in una parte della società nazionale, ma era visto con sospetto dagli ambienti moderati di Washington e persino da Mosca». E così conclude: «L’Italia sembrava scivolare verso il caos e il clima politico era quello più adatto a suscitare paure, alimentare speculazioni, progettare fantasiose vie di uscita. Era il clima in cui Gelli poteva tessere più facilmente le sue trame».

Dopo le impressioni, dunque, alcuni fatti: ma questi vengono solo evocati, non sono interpretati, ma semplicemente accostati l’uno all’altro, senza ordine né priorità di sorta; e si trasformano così in una serie di concause che confondono più che chiarire e che in realtà servono solo a descrivere un quadro a tinte fosche, in cui questo «fantasioso venditore di fumo» si sarebbe mosso e avrebbe operato per finalità imprecisate.

Così almeno ritiene ancora oggi lo storico del «Corriere». Inutile sottolineare la debolezza di una simile analisi; più significativo è evidenziare come l’opinione di Romano non sia affatto isolata o minoritaria, anzi: in questa occasione, nel poco spazio concessogli dalla sua rubrica, egli si è solo limitato a riproporre, sintetizzandola, una narrazione diffusa, sorta con forza all’indomani della scoperta degli elenchi e veicolata dai partiti nei quali maggiore era il numero dei piduisti tesserati; una narrazione che allora era “necessaria” per fronteggiare i lavori e le conclusioni della Commissione Anselmi e che successivamente ha finito per affermarsi, una volta appannatasi la memoria dei fatti, via via superata da quella fondata sulle impressioni.

Era stato per primo Montanelli a definire Gelli «un matricolato birbante» e niente altro, sostenendo poi che quella attuata dai giudici era stata un’operazione «lanciata e pilotata dai comunisti o da qualcuno che vuole rendere servizio ai comunisti»3; Intini, per difendere i socialisti tesserati alla loggia, aveva posto seri dubbi in ordine all’attendibilità degli elenchi, paventando il sorgere di pericolose liste di proscrizione4; ma era stato soprattutto «Il Tempo» di Roma a insorgere in difesa della P2 e dei suoi aderenti: Giovanni Gozzer, definendo Gelli semplicemente «un arruffone», parlava di «una spaventosa montatura», di un «processo alle intenzioni […] un che di mezzo tra gogna e delazione, del più puro stile del potere assoluto o totalitario»5; Domenico Bartoli, convinto del fatto «che le persone indicate negli elenchi non avevano commesso alcun reato», accusava la magistratura milanese – che nel frattempo aveva arrestato uno degli iscritti, Roberto Calvi – «di avere il deliberato proposito di affossare una classe dirigente», lamentando «la mancanza di ogni controllo sulla attività [di quei giudici] e di ogni sanzione per i loro comportamenti»6. Alle accuse sulla stampa seguivano poi le denunce presentate contro i magistrati milanesi per violazione del segreto istruttorio, a causa dell’avvenuta consegna al presidente del Consiglio Forlani di copia degli elenchi sequestrati7.

Dunque Gelli era un birbante o un arruffone, l’adesione alla loggia non costituiva reato alcuno, tutta l’operazione era stata una colossale montatura, i magistrati di Milano avevano agito per ragioni politiche e i comunisti avevano pilotato l’iniziativa: questo copione, elaborato a più mani, quando erano conosciuti solo i nomi degli iscritti ma non ancora gli atti dell’inchiesta, diverrà la base di tutta la successiva narrazione; ma per potersi trasformare in una memoria resistente dovrà avere l’imprimatur della magistratura o almeno di una parte di essa.

A Roma, in quel tempo, tutti i dirigenti degli uffici giudiziari erano stati nominati da un Csm composto, per via delle legge maggioritaria in vigore, esclusivamente da magistrati appartenenti alla corrente di destra (Magistratura Indipendente); proprio questo gruppo associativo era stato individuato da Gelli come la forza su cui poter contare all’interno dell’apparato per poter “risanare” l’Italia, ne aveva finanziato un giornale, «Critica giudiziaria», ne aveva tesserati il presidente, il segretario ( già componente del suindicato Csm) e altri noti esponenti, tra i quali Antonio Buono, collaboratore del «Giornale» di Montanelli (e su quel quotidiano, subito dopo il rinvenimento degli elenchi, il magistrato aveva messo in guardia l’opinione pubblica dall’operato del «giudice che fa politica»)8; proprio nella capitale, del resto, Magistratura Indipendente aveva conseguito i maggiori successi elettorali, anche se le frequentazioni riservate di alcuni esponenti di quella corrente contraddicevano nei fatti quella “ragione sociale”9.

Inizialmente i P.M. del Tribunale romano si muovono con grande celerità: il procuratore capo Achille Gallucci e il sostituto Domenico Sica promuovono a carico del maestro venerabile un processo per una serie di gravissimi reati (spionaggio, associazione a delinquere, ecc.), ordinando, con un atto abnorme, la trasmissione a Roma dei processi già avviati a Milano e a Brescia; ricevuto da quelle A.G. il prevedibile diniego, sollevano un conflitto di competenza con l’A.G. lombarda, ottenendo da una sezione feriale della Corte di cassazione una pronta e positiva risposta.

Riunite le carte a Roma (eccezion fatta per quelle riguardanti Calvi e il Banco Ambrosiano, il cui processo era già in fase avanzata di trattazione), tutte le critiche rivolte sino allora alla magistratura (milanese) dal «Tempo» e dal «Giornale» cessano di colpo; e anzi, in aperto sostegno ai giudici romani, si schiera «Il Popolo», censurando un’assemblea aperta di MD, nella quale si era sostenuto che la decisione della Cassazione era stata determinata dalla «ragion di Stato» e serviva a mantenere nell’ombra «le zone oscure del potere»10.

Con le critiche, cessa però di colpo anche l’attivismo della Procura di Gallucci, che, dimentica della definizione della Loggia P2 fornita nella richiesta di atti («Un nucleo ad altissimo potenziale criminogeno, versatilmente impegnato nella consumazione di eteroformi attività delittuose»)11, ritiene ora di “congelare” il processo a carico di Gelli e di procedere a piede libero nei confronti dei capi-gruppo della P2 per cospirazione politica mediante associazione e truffa. Un’imputazione per eccesso, la prima (per la configurazione del reato tutti gli associati dovevano essere consapevoli delle concrete finalità criminose del gruppo), per giunta non supportata da significativi reati-fine e da testimonianze attendibili; un’imputazione per difetto, la seconda, posto che addebitava a Gelli e ai capi-gruppo di aver raggirato centinaia di persone, definite tutte in buona fede, avendo fatto credere che la P2 fosse una loggia regolare, mentre invece era stata sospesa dal Grande Oriente. Due imputazioni deboli per opposte ragioni, dunque, e per giunta tra loro in contraddizione, che segnano però sin dall’inizio la sorte dei successivi processi, gradualmente scaglionati nel tempo12.

Il giudice istruttore Ernesto Cudillo, seguendo l’impostazione del P.M., emana il 17.03.83 un singolare provvedimento nei confronti di alcuni tra i capi-gruppo: in esso riporta solo le deposizioni dei gran maestri Siniscalchi e Battelli (e di nessun altro), precisa che il ruolo svolto dagli imputati aveva avuto soltanto natura amministrativa, sottolinea il fatto che «le sporadiche riunioni degli aderenti […] avevano caratteristiche conviviali» e prende in considerazione, genericamente, solo «la posizione di coloro che hanno aderito in buona fede»: in conclusione, attesta l’innocuità della loggia, ma evita di affrontare le questioni di diritto; i sette capi-gruppo sono prosciolti (sulla loro parola) per non aver commesso i fatti, non già perché i reati non sussistono. Ma questo particolare è percepito solo dagli addetti ai lavori; per gli altri il messaggio è chiaro: i luogotenenti di Gelli sono stati assolti, i tesserati sono innocenti, la faccenda della Loggia P2 era dunque una montatura, come la stampa obiettiva aveva sostenuto sin dall’inizio.

Per il maestro venerabile – che dopo la comoda evasione da una prigione svizzera in cui era finito nell’82, può concedersi una prolungata latitanza sino all’87, anno in cui “concorda” la sua estradizione in Italia per i reati meno gravi, estradizione per giunta seguita dall’immediata concessione della libertà provvisoria per motivi di salute – il processo può aspettare13. Quando poi negli anni novanta, dopo l’uscita di scena di Gallucci e Cudillo e con Sica passato ad altro incarico, un diverso P.M., Elisabetta Cesqui, chiederà il rinvio a giudizio di Gelli, potrà farlo di conseguenza solo per alcuni reati “minori” (calunnia, millantato credito e procacciamento di notizie di Stato), ma non per la P2 e i reati associativi, mancando per questi il presupposto dell’estradizione; e al dibattimento il P.M. si troverà di fronte a magistrati con convinzioni radicate, in linea con la giurisprudenza di Gallucci e Cudillo e impermeabili a logiche diverse.

La sentenza 16.04.1994 della Corte d’assise di Roma, che su questo punto deve perciò esaminare solo le posizioni di alcuni tra gli affiliati di Gelli, liquida innanzitutto con termini inusuali la questione della liceità della loggia, definita segreta – e perciò sciolta – dall’art. 5 L. 25.01.1981 («La loggia P2 è segreta solo per gli analfabeti afflitti da sordità», scrive infatti il giudice estensore14); quanto ai progetti contenuti nei documenti sequestrati (Il Piano di rinascita democratica, per esempio) questi non configurano alcun attentato alla Costituzione, posto «che non vi è prova che si intendesse pervenire alle modifiche con metodo diverso da quello previsto dall’art. 138 Cost.» (ma in un altro documento, lo Schema R, si parla invece di rafforzare il potere delle forze armate, di introdurre il fermo di polizia e la pena di morte, di sospendere per almeno due anni alcuni diritti costituzionali, ecc.). Alla lettura riduttiva dei documenti segue la parcellizzazione dei fatti, autonomamente interpretati e sempre in modo avulso dal contesto: per esempio, la convocazione a villa Wanda, nel 1973, di generali dei CC., dell’allora colonnello Musumeci e del procuratore generale Spagnuolo – un segno evidente del potere acquisito da Gelli su questi vertici degli apparati – è ritenuto un fatto irrilevante, poiché nessuno «ha detto di avere discusso di come preparare un governo militare per il paese»; né sono ravvisabili condizionamenti di Gelli sull’attività di governo nel fatto che le nomine dei responsabili dei servizi dopo la riforma del ’77 (Santovito, Grassini e Pelosi) abbiano “premiato” generali tutti aderenti alla P2 o che i “consulenti” di Cossiga durante il sequestro Moro fossero tutti affiliati a quella loggia, dato che «l’accusa e la lunga istruttoria dibattimentale non hanno fornito prove in merito all’esistenza di questo rapporto anomalo tra corpo di appartenenza, associati e associazione»; né infine l’accertato coinvolgimento di Gelli e dei piduisti Santovito e Musumeci, nel depistaggio delle indagini relative alla strage del 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna, ha inciso sul fermo convincimento dei giudici della Corte romana di ritenere non pericolosi quei rapporti e lecite le finalità coltivate all’interno della loggia.

La sentenza 16.04.94 ha dunque assolto dai reati associativi i coimputati di Gelli appartenenti alla P2 e il provvedimento è stato poi confermato su questo punto nei gradi successivi del giudizio. La strategia della Procura romana di attrarre i processi riguardanti il maestro venerabile e pendenti presso altri uffici giudiziari si è rivelata dunque fallimentare rispetto all’accertamento della verità storica, finendo per confermare le preoccupazioni espresse da alcuni al momento di quella perentoria richiesta di riunione. Paradossalmente l’A.G. che aveva la possibilità di avere il quadro più completo circa le attività poste in essere dalla Loggia e dai suoi associati ha finito per dare agli atti raccolti una lettura frammentata e superficiale, mentre altri uffici giudiziari, che si sono occupati di reati specifici, approfondendoli con cura e inquadrandoli nel contesto, non solo hanno potuto appurare le singole responsabilità penali di alcuni membri della P2, ma hanno anche evidenziato le finalità delittuose perseguite all’interno dell’associazione.

Un esempio: Gallucci aveva acquisito da Milano anche gli atti che riguardavano un versamento di 7 milioni di dollari fatto da Gelli sul conto Protezione, aperto in Svizzera e attribuito a Craxi e a Martelli; questi aveva protestato, producendo documentazione rilasciatagli dalla banca e Cudillo, su richiesta della Procura, si era affrettato ad archiviare il tutto, senza attendere le risposte delle autorità elvetiche già sollecitate dai magistrati di Milano. Molti anni dopo, a seguito delle indagini sviluppate dai P.M. della capitale lombarda, quella notizia di reato risulterà fondata: Martelli, condannato in primo grado a 8 anni di reclusione, dopo aver risarcito 800 milioni di lire, otterrà le attenuanti generiche prevalenti, conseguendo per questo la prescrizione; la condanna di 6 anni e mezzo di reclusione inizialmente inflitta a Gelli verrà successivamente annullata, ma solo perché la sua posizione era nel frattempo già stata valutata nell’ambito del processo per la bancarotta del Banco Ambrosiano. Qui i magistrati milanesi avevano accertato che nel giugno 1981, proprio mentre infuriava la campagna di stampa per le «liste di proscrizione», venivano distratti dalla banca di Calvi 95 milioni di dollari, finiti nei conti di Gelli, Ortolani e Tassan Din: per tutti questi fatti, dunque, Gelli veniva condannato alla fine dalla Corte di cassazione, il 22.04.1998, a 12 anni di reclusione, parte dei quali, dopo la nuova latitanza terminata a Cannes, scontati in regime di arresti domiciliari a villa Wanda.

Non è stata questa l’unica condanna riportata dal capo della loggia P2. A Bologna, nel corso delle indagini per la strage della stazione del 2 agosto 1980, i magistrati avevano appurato che già nel 1978 Gelli indicava, come recapito telefonico della segreteria della P2, quello del Sismi; per gli inquirenti, il Servizio, nel 1980, era sostanzialmente diretto da Pazienza, Musumeci, Gelli e Santovito15 e questi, dopo l’attentato, avevano dolosamente “costruito” un’inesistente “pista internazionale” al fine di impedire l’individuazione dei veri responsabili del reato: per questo depistaggio tutti venivano condannati in via definitiva dalla Cassazione (tranne Santovito nel frattempo deceduto) e a Gelli, il 23.11.1995, venivano comminati altri 10 anni di reclusione.

In precedenza, a Firenze, il maestro venerabile era stato processato per aver finanziato con 20 milioni di lire l’eversione armata dei fascisti toscani Cauchi e Brogi negli anni ’73-75 (proprio il periodo in cui Gelli convocava a villa Wanda i generali dei CC); la condanna di 8 anni di reclusione, disposta nei suoi confronti dalla Corte fiorentina il 15.12.1987, veniva peraltro annullata il 02.12.1989, perché la Corte d’assise d’appello si avvedeva che per quel reato non era stata concessa l’estradizione in Italia; analoga sorte toccava poi a un’altra condanna di 6 anni di reclusione comminatagli, per «possesso di notizie coperte dal segreto di Stato», dalla sopra indicata Corte d’assise di Roma, poiché la Corte di cassazione, il 21.11.1996, accertava che anche in questo caso l’azione penale doveva essere dichiarata improcedibile per quel lontano vizio d’origine.

Questo per limitarci ai processi nei quali vi è stato comunque un accertamento dibattimentale a carico dell’imputato Gelli, seguito da sentenze definitive o di primo grado non smentite, nel merito, dai giudizi successivi. Ma i processi celebrati nei suoi confronti rivelano solo una parte della storia.

Per ricostruire la rete di potere gestito dalla sua loggia si dovrebbero infatti esaminare anche le carte di quelle inchieste in cui sono stati condannati i suoi affiliati (da quello delle tangenti alla GdF che ha visto i due comandanti del corpo, Raffaele Giudice e Donato Lo Prete, sanzionati con vari anni di reclusione dalla sentenza 30.04.1987 del Tribunale di Torino a quella promossa a carico di Sindona, condannato all’ergastolo il 18.03.1986 dal Tribunale di Milano per l’omicidio dell’avv. Ambrosoli, nell’ambito di una complessa ragnatela criminosa tessuta da Gelli, Calvi, Marcinkus e Miceli Crimi), nonché di quelle in cui, dopo essere stati arrestati da altre autorità giudiziarie, gli imputati sono stati giudicati a Roma per il “solito” intervento della Cassazione e qui via via prosciolti da ogni accusa (è il caso del generale piduista Vito Miceli, arrestato a Padova per «La Rosa dei Venti», processato a Roma anche per il «Golpe Borghese», incriminato inizialmente per cospirazione politica, derubricata dal P.M. Vitalone a semplice favoreggiamento e quindi assolto con formula piena anche da tale accusa il 14.07.1978 dalla Corte d’assise di Roma16); come pure illuminanti sono le carte del processo per l’omicidio Pecorelli (che registrano i contrasti tra i “fratelli” Miceli e Maletti all’interno dei Servizi, i citati rapporti di Vitalone e Testi con i piduisti Pecorelli e Lo Prete, gli asseriti comportamenti processuali ed extraprocessuali del predetto Vitalone, ecc.17) e quelle relative alla tangente di 17 milioni di dollari pagata ai sauditi, con prospettato “ritorno” di una percentuale in Italia, nel caso «Eni-Petromin», una trattativa avvenuta nel 1979 con l’attiva partecipazione di numerosi affiliati alla loggia (dal ministro Stammati a Danesi, da Bisignani a Di Donna, da Firrao a Mazzanti, ecc.18).

Per il momento, però, possiamo fermarci qui, perché il materiale raccolto già consente di fornire una risposta netta agli interrogativi posti all’inizio: Gelli era solo un «matricolato birbante» come diceva Montanelli o un «millantatore» come ancor oggi sostiene Romano? E la Loggia P2 era un’accolita di amici dediti a incontri conviviali, come ha ritenuto la Corte d’assise di Roma? Certamente no.

Il privato cittadino Licio Gelli non solo ha partecipato alla gestione dei Servizi, ma, affiliandone i dirigenti, ne ha fatto l’asse portante della sua loggia segreta (e questo l’ha reso attivo partecipe della strategia della tensione sviluppatasi, sotto l’ombrello della Nato, negli anni sessanta-settanta nel nostro, come in altri paesi del Sud Europa); un secondo pilastro del suo potere è stato l’inserimento nella loggia dei vertici della Guardia di Finanza, tanto che, usciti di scena dopo lo «scandalo dei petroli» i generali Giudice e Lo Prete, sono subentrati, quale comandante, il generale Giannini e quale capo di Stato maggiore il generale Spaccamonti, entrambi piduisti (e Giannini si era affrettato a interferire nel sequestro degli elenchi a Castiglion Fibocchi, mentre l’operazione era ancora in corso19). Il terzo pilastro è costituito dalla sua contiguità con un ceto politico variegato, che, nel corso degli anni, passa dai fascisti (come Mario Tedeschi, direttore del «Borghese», iscritto alla loggia) alla destra democristiana (Andreotti, soprattutto), ai socialisti anticomunisti (Craxi, come visto, abbondantemente finanziato). È una rete che si muove nel «sommerso della Repubblica», che teme l’avanzata elettorale del Pci e che, nella transizione degli anni settanta, attraversa in modo mirato i partiti di governo, puntando a una nuova dislocazione dei poteri. Sono pezzi di una costituzione materiale in formazione che si muove decisa contro la costituzione formale del ’48 e che va modificandosi nel corso del decennio. Lo Schema R prevede ancora la centralità delle forze armate, da rinnovare nei mezzi, nelle retribuzioni e nello spirito di corpo e da utilizzare in servizio di ordine pubblico, in un contesto in cui riappare la brigata meccanizzata di De Lorenzo e si auspica l’introduzione della pena di morte e del fermo di polizia20 (i generali Palumbo e Picchiotti che Gelli convoca a villa Wanda nel ’73 sono i militari già attivi nella preparazione del Piano Solo21); il programma del Piano di Rinascita, successivo nel tempo, già segnala l’inizio di una nuova fase, in cui una penna più raffinata discute di istituzioni e di opinione pubblica, progetta “l’acquisto” di giornalisti fidati e lo smantellamento dello stato dei partiti e delle forze sindacali esistenti, da ottenere con l’investimento mirato di 30-40 miliardi di lire22. Nei programmi di Gelli, in entrambe le fasi, era dunque prefigurato, con strumenti e modalità diverse, un attacco diretto ai principi cardine della costituzione repubblicana; la presenza ai vertici della loggia di tanti generali dell’esercito e dei carabinieri e della finanza rendeva inoltre questo attacco pericoloso e inquietante.

Perché dunque, a oltre quarant’anni di distanza, si continua a parlare di Gelli come di un millantatore e della P2 come di un gruppo amicale dedito a incontri conviviali e, se del caso, alla conclusione di “buoni affari”?

Per una serie di molteplici ragioni. Va considerato innanzitutto che il governo del CAF, all’inizio degli anni novanta, è si franato sotto il peso di una corruzione sistemica che alcuni uffici giudiziari, a Milano, a Venezia e in poche altre città, avevano rivelato in modo impietoso, ma che la sua eredità, sempre in nome della lotta contro il pericolo comunista, è stata prontamente rilevata da un uomo della loggia di Gelli, che ha convogliato i voti degli orfani dei vecchi partiti di centrodestra, riciclato i fascisti e occupato ogni possibile spazio mediatico. Allontanare da sé la figura del maestro venerabile è stato allora per Berlusconi una necessità politica; ignorare le pesanti condanne di Gelli è stata per lui una scelta conseguente; favorire l’ascesa politica di Cicchitto, infine, ha significato rilegittimare pubblicamente gli altri affiliati alla P2: del resto la magistratura (di Roma) non aveva attestato la piena liceità della loggia?

Questa narrazione ha però potuto affermarsi e diventare quasi senso comune durante il ventennio berlusconiano, anche per un’altra e più sostanziale ragione di fondo: perché, dagli anni ottanta in poi, la costituzione materiale del paese, tra sussulti e compromessi vari, si è sviluppata proprio nel senso e nella direzione che allora si intravvedeva appena; perché nel frattempo gli avversari pubblici della costituzione del ’48 si sono moltiplicati, sotto la spinta venuta anche da alte cariche dello Stato; e perché, di conseguenza, quel contrasto tra progetti eversivi e principi costituzionali che allora suscitava in molti sdegnate ripulse e diffuse opposizioni, nei tempi recenti non è stato più percepito come tale. Il Piano di rinascita democratica (un bipartitismo senza comunisti, un sindacalismo non conflittuale, la “libertà di antenna”, una magistratura “responsabilizzata” e con carriere separate, ecc.) era in fondo un piano liberista, frutto di un pensiero che, partito dalle università americane, sarebbe diventato egemonico nei decenni successivi, tanto da diventare una bibbia per tanti governi anche europei, compreso quello italiano. Certo, nella versione di Gelli, il piano prevedeva, per la sua realizzazione, l’uso sistematico di una corruzione diffusa: un dettaglio ingombrante, che rendeva impolitico richiamare in qualche modo la personalità dell’autore. Forse si poteva allontanare quell’ombra, avvolgendola nei misteriosi panni di Cagliostro, e seguire al contempo alcuni dei sentieri allora tracciati. Sempre in nome dell’anticomunismo e della libertà.

E così è stato fatto.

1 Sergio Romano, Un Cagliostro del XX secolo: Licio Gelli e i suoi seguaci, «Corriere della sera», 18.12.2015.

2 Maurizio Costanzo, Parla, per la prima volta, il “signor P2”, «Corriere della sera», 05.10.1980.

3 Indro Montanelli, Fratelli d’Italia, «il Giornale», 23.04.1981 e I misteri d’oriente, «il Giornale», 29.05.1981.

4 Ugo Intini, Riflettendo sugli elenchi della P2, «Avanti!», 22.05.1981 e Uno scandalo nello scandalo, «Avanti!», 30.05.1981.

5 Giovanni Gozzer, Informazione o istigazione, «Il Tempo», 29.05.1981.

6 Domenico Bartoli, La fazione dello sfascio, «Il Tempo», 22.05.1981.

7 La denuncia verrà poi archiviata, avendo i magistrati, con quella comunicazione, adempiuto soltanto a un preciso obbligo istituzionale. Cfr. Decreto Pretura Brescia 21.11.1981 in «Questione Giustizia», 1984, n. 2: P2: uno Stato nello Stato. Documenti commentati e interventi di C. Galante Garrone ed Elena Paciotti, pp. 421-423.

8 Cfr Csm, Sezione disciplinare, sentenza 09.02.1983, Pres. De Carolis, estensore Zagrebelsky in «QuestioneGiustizia» cit., p. 471 ss. Su Antonio Buono cfr. Gherardo Colombo, Il vizio della memoria, Milano, Feltrinelli, 1996, p. 65.

9 Due mesi prima di venire ucciso Mino Pecorelli si era incontrato, in un circolo romano, con il generale piduista Domenico Lo Prete, con Claudio Vitalone e Carlo Adriano Testi, esponenti di spicco di Magistratura Indipendente. Cfr. Sentenza Corte d’Appello di Perugia 17.11.2002, Imp. Andreotti e altri, p.156.

10 Remigio Cavedon, Dove sono le vere aree di potere?, «Il Popolo», 11.10.1981.

12 Le imputazioni e la sentenza 17.03.1983, Tribunale di Roma, giudice istruttore Cudillo, sono in «Questione Giustizia» cit., p. 447 ss. La Sezione Istruttoria della Corte d’appello di Roma, con sentenza 26.03.1985, confermerà poi il proscioglimento disposto dal primo giudice.

13 A seguito della prolungata e ingiustificata inerzia dei magistrati romani la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, con sentenza 19.10.1999, risarcirà Licio Gelli con 20 milioni di lire, per il danno morale causatogli dall’abnorme durata del processo.

14 Cfr. Sentenza Corte d’assise di Roma, 16.04.1994, p. 1758, citata in Sergio Flamigni, La loggia P2, in «Storia d’Italia», «Annali», 12, La Criminalità, Torino, Einaudi, 1997, p. 453. L’Autore ricostruisce l’intera storia politica e processuale di Licio Gelli, fornendone un giudizio fortemente critico. Una lettura opposta e quindi di adesione piena alle sentenze emesse dalla magistratura romana si trova invece in Fabrizio Cicchitto, «La storia manipolata», in La disinformazione in Commissione stragi, Roma, Edizioni Bietti, 2002, p. 84 ss., da cui sono tratte le citazioni seguenti: v. pp. 85, 98 e 193.

15 Cfr. La Strage . L’atto di accusa dei giudici di Bologna, a cura di Giuseppe De Lutis, prefazione di Norberto Bobbio, Roma, Editori Riuniti, 1986, p. 341.

16 Su questa vicenda, cfr. Claudio Nunziata, “Golpe Borghese” e “Rosa dei venti”: come si svuota un processo, in «Questione Giustizia», 1984, n. 3, p. 561 ss.

17 Francesco Pecorelli, Roberto Sommella, I veleni di “OP”, Milano, Kaos Edizioni, 1995, pp. 32-33, nonché p. 95 ss.

18 Su cui vedi le interessanti riflessioni svolte da Elisabetta Cesqui, La P2 1979: un Servizio di Informazione nella gestione della transizione, in «Studi storici», 1998, n. 4, p. 1012 ss.

19 Cfr. G. Colombo, Il vizio della memoria cit., pp. 48-49.

20 Sullo Schema R, un documento di taglio decisamente golpista secondo il P.M. Cesqui, Cicchitto minimizza, considerando alcune di quelle proposte solamente «tipiche di una mentalità conservatrice». Cfr, La storia manipolata cit., pp. 94-95.

21 Cfr. Mimmo Franzinelli, Il Piano Solo, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 2010, p. 171.

22 Cfr. E. Cesqui, la P2: 1979 cit., p. 1004 ss.

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