Non fare il TAV fa bene alla democrazia

di Livio Pepino

[Il testo riprende ampie parti dell’intervento pubblicato in Aa.Vv., Perché No Tav, Roma, PaperFIRST, 2019]

1. La costruzione della Nuova Linea Ferroviaria Torino-Lione è appesa all’esile filo dei tentennamenti e dei contrasti interni al governo. In ogni caso essa non è a tutt’oggi iniziata. Sono stati effettuati, e sono in corso, studi, lavori preparatori, tunnel geognostici e quant’altro, con una spesa complessiva, per il nostro paese, di oltre un miliardo e mezzo di euro, ma la tratta transfrontaliera (cioè il tunnel di base di 57 km) e le adduzioni in territorio italiano e francese sono al palo. Chi si oppone all’opera non chiede, dunque, di interrompere alcunché ma solo di bloccare sul nascere uno sperpero di denaro pubblico aggiuntivo rispetto a quello sino a oggi realizzato.

Le ragioni che impongono di non fare l’opera sono molteplici e ripetute centinaia di volte: l’opera non è giustificata dai volumi del traffico (che sono, in realtà, in costante diminuzione), provoca un impatto ambientale insostenibile, non determina il decantato trasferimento dei trasporti dalla strada alla ferrovia, comporta un dispendio di risorse (tutte rigorosamente pubbliche) più utilmente impiegabili nella manutenzione del territorio e nel potenziamento dei trasporti ordinari (con ben altra utilità sociale e creazione di maggior numero di posti di lavoro), perpetua il modello di sviluppo che ha determinato la crisi in atto e via elencando. Molto di questo è documentato nell’analisi costi-benefici elaborata nei mesi scorsi dalla commissione nominata dal governo e presieduta dal prof. Ponti.

Ma ce n’è una ulteriore, egualmente rilevante pur se poco indagata. È una ragione che ha a che fare con due entità che godono, nel nostro paese, di salute malferma e che dall’abbandono dell’opera trarrebbero indubbi benefici: la politica e la democrazia. In Val Susa, infatti, si è prodotta negli ultimi trent’anni una ferita profonda e grave che tocca il corpo sociale e la fiducia, appunto, nella democrazia e nella politica. Una ferita determinata da metodi di decisione autoritari che hanno innescato dinamiche negative nel sistema, sia per quanto riguarda il suo rapporto con i cittadini, sia nei meccanismi di funzionamento degli apparati (polizia e magistratura in testa). Se non curata, la ferita incancrenirà producendo ulteriori danni. L’abbandono della Torino-Lione e del metodo di governo che ne ha accompagnato il progetto è una delle condizioni per avviare un’uscita in positivo dalla situazione attuale.

Conviene partire dall’inizio.

2. Il progetto di un nuovo collegamento ferroviario tra Torino e Lione risale al settembre 1989 e ha per oggetto una linea ad alta velocità per passeggeri, in seguito trasformata in linea ad alta velocità/alta capacità, cioè destinata anche al trasporto merci. Negli ultimi anni il secondo obiettivo è diventato prevalente, stante la progressiva riduzione della domanda di trasporto di persone e il progetto ha subito numerose modifiche anche per quanto riguarda il tracciato. Sin dall’inizio, e poi nel corso degli anni, si è sviluppata in Val Susa una forte opposizione con il coinvolgimento della popolazione, di amministratori locali, di docenti universitari, di esperti di varie discipline che hanno evidenziato molteplici aspetti critici in particolare sotto i profili ambientale ed economico. Ciò nonostante, tutto l’iter del progetto è stato caratterizzato da una sistematica esclusione delle popolazioni interessate, dalla diffusione di informazioni e dati inveritieri e da previsioni scientificamente inattendibili.

Dai primi anni novanta sino alla fine del 2001 è stata ignorata la stessa esistenza delle comunità locali, in evidente violazione, tra l’altro, delle esplicite previsioni della Convenzione di Aarhus del 25 giugno 1998 secondo cui «quando viene avviato un processo decisionale che interessi l’ambiente, il pubblico interessato è informato in modo adeguato, efficace e a tempo debito, fin dall’inizio» in modo che «si prepari e partecipi effettivamente ai lavori durante tutto il processo decisionale».

Poi, a fine dicembre 2001, è intervenuta la cosiddetta legge obiettivo, con la quale la situazione di fatto è diventata regola giuridica. Con essa le amministrazioni locali sono state totalmente escluse dall’iter delle opere ritenute strategiche, con attribuzione di ogni decisione di rilievo al presidente del Consiglio (e al Comitato interministeriale per la programmazione economica). Si è così stabilito per legge che, per il Tav, la partecipazione e il controllo delle comunità interessate sono una inutile perdita di tempo! Anche quando, nel 2006, alcune grandi manifestazioni popolari hanno imposto al governo l’istituzione di un Osservatorio per «realizzare un confronto tra le istanze interessate e analizzare le criticità dell’opera e le soluzioni da sottoporre ai decisori politico-istituzionali», l’operazione si è trasformata in un inganno: l’Osservatorio si è dimostrato un organismo di pura propaganda, operante all’insegna dello stravagante principio secondo cui «il dialogo è possibile ma a condizione che non si metta in discussione la realizzazione dell’opera», fino a che, nel 2010, anche la maschera è caduta e il governo ha deciso di «ridefinire le rappresentanze locali in seno all’Osservatorio», ammettendovi «i soli Comuni che dichiarino esplicitamente la volontà di partecipare alla miglior realizzazione dell’opera».

Al solipsismo decisionale si è accompagnato lo sviamento dell’opinione pubblica mediante la manipolazione dei dati relativi all’utilità e all’impatto dell’opera e la diffusione di indicazioni e previsioni prive di ogni seria base scientifica. Un esempio per tutti. Per due decenni i proponenti l’opera e i loro sponsor politici hanno sostenuto, contro ogni evidenza, che la nuova linea era necessaria per l’imminente saturazione di quella storica. Poi, il 10 novembre 2017, lo stesso presidente dell’Osservatorio e Commissario di governo ha dovuto ammettere che «molte previsioni fatte 10 anni fa, in assoluta buonafede [sic!], anche appoggiandosi a previsioni ufficiali dell’Unione Europea, sono state smentite dai fatti». Nessun problema, peraltro: è stato sufficiente cambiare motivazione, sostenendo che sarà la nuova opera a creare traffico e che, comunque, la linea attuale (utilizzata al 20% delle proprie potenzialità) è obsoleta, per continuare a sostenere che il nuovo collegamento è irrinunciabile.

Espulsa dai luoghi delle decisioni e privata di una informazione attendibile la comunità della Val Susa, i suoi cittadini, i suoi enti locali e i suoi tecnici hanno prodotto decine di richieste, appelli, proposte, denunce su profili specifici di illegittimità dell’opera in tutte le sedi istituzionali italiane ed europee senza mai ottenere un confronto nel merito e, a maggior ragione, senza mai avere risposta alle critiche e agli argomenti prospettati.

Questo insieme di comportamenti è stato accertato anche da organismi indipendenti come il Tribunale permanente dei popoli che, nella sentenza 7 novembre 2015, ha testualmente affermato che «in Val di Susa si sono violati i diritti fondamentali degli abitanti e delle comunità locali […] alla piena informazione sugli obiettivi, le caratteristiche, le conseguenze del progetto della nuova linea ferroviaria […]; di partecipare, direttamente e attraverso i suoi rappresentanti istituzionali, nei processi decisionali […]; di avere accesso a vie giudiziarie efficaci per esigere i diritti sopra menzionati».

3. L’esclusione della popolazione della valle e dei suoi rappresentanti dalle decisioni relative alla nuova linea ferroviaria ha, inevitabilmente, aperto un conflitto che, con il passar del tempo, si è incancrenito.

Per oltre quindici anni gli attriti tra il movimento di opposizione al Tav, le istituzioni e le forze dell’ordine sono stati limitati. Poi, nell’autunno 2005, due episodi hanno profondamente modificato la situazione: l’occupazione da parte delle forze di polizia, di notte e in violazione degli accordi intervenuti dopo una giornata di tensione, di terreni del Comune di Mompantero destinati a carotaggi e lo sgombero, la notte del 6 dicembre, del presidio organizzato a Venaus per ostacolare dei sondaggi del terreno, effettuato in modo particolarmente brutale con quindici presidianti feriti (alcuni dei quali con lesioni serie) e distruzione delle tende. L’inganno di Mompantero e la violenza, sproporzionata e gratuita, di Venaus hanno lasciato il segno. Il rapporto tra il movimento e le istituzioni centrali e regionali si è incrinato definitivamente. Polizia, carabinieri, guardia di finanza sono stati individuati come truppe di occupazione.

Sono seguiti anni di riposizionamento e di (apparenti) trattative, sino all’esplosione dell’estate 2011 quando, a fronte della decisione di Ltf (la società costituita per la realizzazione dell’opera) di iniziare, alla Maddalena di Chiomonte, lo scavo di un tunnel geognostico, il movimento di opposizione ha allestito in loco un presidio e occupato l’area per impedire l’apertura del cantiere. La mattina del 27 giugno un esercito di carabinieri e di agenti di polizia in tenuta antisommossa, con l’ausilio di ruspe, ha proceduto allo sgombero del presidio. L’intervento è stato particolarmente violento ed è avvenuto con un uso massiccio di gas per vincere l’opposizione e allontanare gli occupanti. Le tende del presidio sono state distrutte o imbrattate (vi si troveranno escrementi e urina) e sono scomparsi oggetti ed effetti personali degli occupanti. L’altopiano della Maddalena, sede di un importante sito archeologico e di una cooperativa di viticultori, è stato trasformato in una sorta di base militare, con doppia recinzione e sorveglianza continua da parte di uomini armati.

Il movimento No Tav, la popolazione della valle, gran parte degli amministratori locali hanno vissuto lo sgombero, la violenza impiegata, gli sfregi subiti come un sopruso e la temperatura si è alzata. Il successivo 3 luglio, domenica, circa 70.000 persone – abitanti della Val Susa e manifestanti giunti da tutta Italia – hanno dato vita a un grande corteo che si è concluso intorno al cantiere recintato. All’esito della manifestazione e fino a notte si sono verificati diffusi e violenti scontri tra una parte dei dimostranti e le forze di polizia.

Nonostante lo sgombero del presidio, il movimento non ha disarmato e, nei mesi successivi, ha intensificato le iniziative di disturbo nei confronti del cantiere al fine di tenere alta la tensione e l’attenzione dell’opinione pubblica. In occasione di alcune di tali iniziative, finalizzate a “tagliare le reti”, spezzoni più o meno ampi di dimostranti hanno lanciato verso il cantiere oggetti, sassi, molotov e fuochi di artificio mentre le forze di polizia hanno risposto con gas lacrimogeni talora sparati ad altezza d’uomo (con danni alle persone contenuti, anche se alcuni manifestanti, colpiti da lacrimogeni, hanno riportato ferite con postumi permanenti). Ci sono stati, in quei frangenti, fatti gravi e reati evidenti. Doveroso, ovviamente, contenerli e perseguirli. Ma, nel caso specifico, non ci si è limitati a questo. L’establishment pro Tav si è scatenato gridando al terrorismo, a una concentrazione di black bloc provenienti da ogni parte d’Europa o addirittura alla guerra ed evocando, con irresponsabile reiterazione, il morto. Le forze politiche, salvo poche eccezioni, hanno rinunciato, in modo rigorosamente bipartisan, a ogni ricerca di dialogo e hanno trasformato il conflitto in questione esclusiva di ordine pubblico, emanando comunicati prossimi a bollettini di guerra tesi a criminalizzare l’intero movimento.

A ciò hanno fatto seguito un’ulteriore militarizzazione del territorio e un surplus di repressione. È del giugno 2011 un’ordinanza del prefetto di Torino con cui l’area circostante il cantiere della Maddalena veniva affidata alle forze di polizia con divieto per «chiunque» di «accedervi e stazionarvi»: quell’ordinanza (che l’articolo 2 del Testo unico di pubblica sicurezza vorrebbe limitata al solo «caso di urgenza o per grave necessità pubblica») è stata reiterata sino a oggi – e, dunque, lungo otto anni – per ben 39 volte, senza soluzione di continuità. Appena un mese dopo, la difesa del cantiere è stata affidata, oltre che a polizia e carabinieri, a contingenti dell’esercito (alcuni dei quali già impegnati in teatri di guerra) e, contestualmente, si è assistito a una continua escalation dell’uso della forza, tra l’altro con l’impiego massiccio di gas lacrimogeni per impedire assembramenti a ridosso delle reti di recinzione. Ed è del successivo 12 novembre un intervento legislativo (ribadito due anni dopo) in forza del quale «le aree ed i siti del Comune di Chiomonte, individuati per l’installazione del cantiere della galleria geognostica e per la realizzazione del tunnel di base della linea ferroviaria Torino-Lione, costituiscono aree di interesse strategico nazionale» assimilati, ai fini del diritto penale, ai «luoghi in cui l’accesso è vietato nell’interesse militare dello Stato».

4. Alla militarizzazione del territorio e alla contrapposizione bellica sul campo si è affiancato un intervento giudiziario caratterizzato da una curvatura repressiva ignota negli ultimi decenni (eccezion fatta per alcune vicende isolate e per i fatti accaduti nel corso del G8 di Genova nel luglio 2001). È un profilo di particolare interesse perché – come ha scritto oltre cinquant’anni fa Achille Battaglia ‒ «per comprendere veramente cosa accada in una società durante un periodo di crisi, poco giova l’esame delle sue leggi e molto di più quello delle sue sentenze. Le leggi emanate in questi periodi ci dicono chiaramente quali siano state le volontà del ceto politico dirigente, i fini che esso si proponeva di raggiungere, le sue aspirazioni e le sue velleità. Le sentenze ci dicono quale sia stata la sua forza, o la sua capacità politica, e in che modo la società abbia accolto la sua azione, o abbia resistito»[1].

L’inizio della svolta è stata l’ordinanza del giudice per le indagini preliminari di Torino del 20 gennaio 2012 con cui sono state applicate pesanti misure cautelari a 41 esponenti No Tav imputati di resistenza e violenza a pubblico ufficiale (e reati connessi) in relazione agli scontri della Maddalena del 27 giugno e del 3 luglio dell’anno precedente[2]. A essa è seguita una stagione che si è sviluppata attraverso centinaia di procedimenti penali contro più di 1.500 persone (numero senza pari sulla scena nazionale, considerata la ristretta area territoriale in cui i reati sono stati commessi) ed è culminata, a fine 2013-inizio 2014, in iniziative e provvedimenti inediti (almeno in tempi recenti), comprensivi, tra l’altro, della contestazione del delitto di attentato con finalità terroristiche (e connessa custodia in carcere per un anno in condizioni di prolungato isolamento) nei confronti di quattro giovani responsabili di un “assalto” al cantiere della Maddalena con incendio di un compressore[3] e della riesumazione di un reato di opinione come l’istigazione a disobbedire alle leggi, contestato allo scrittore Erri De Luca per avere sostenuto la liceità del sabotaggio del cantiere con taglio delle reti.

Le forzature e la sproporzione di tali iniziative hanno dimostrato, agli occhi della valle, un accanimento contro il movimento No Tav in quanto tale. Né vale richiamare, in contrario, l’obbligatorietà dell’azione penale e la doverosa applicazione della legge, come pure hanno fatto, maldestramente, alcuni protagonisti di quella stagione. Nulla, infatti, hanno a che fare con il principio di obbligatorietà prassi come l’uso massiccio della custodia cautelare in carcere (pur facoltativa) persino nei confronti di incensurati[4], la costruzione dell’antagonista radicale come “tipo di autore” dotato di particolare pericolosità[5], la dilatazione delle ipotesi di concorso nel reato fino a costruire un’impropria “responsabilità da contesto”, l’utilizzazione nelle motivazioni di sentenze e ordinanze di espressioni truculente (quasi a supportare o sostituire i fatti con gli aggettivi), l’omessa considerazione di scriminanti e attenuanti pur previste nel sistema (talora addirittura dal codice Rocco), la coreografia che circonda i relativi dibattimenti (celebrati in un’aula bunker annessa al carcere e costruita, anni prima, per i processi di terrorismo e mafia), l’istituzione presso la Procura della Repubblica di un pool di sostituti con competenza esclusiva nel settore, l’attribuzione di una corsia privilegiata ai processi nei confronti di esponenti No Tav, il sollecito perseguimento – in caso di collegamento con l’opposizione al Tav – anche di reati di minima entità o sanzionabili con la sola pena pecuniaria (come i danneggiamenti o le violazioni di sigilli), l’inerzia o la tardiva attivazione a fronte di ripetute denunce per violenze da parte delle forze dell’ordine, l’accurata costruzione di un processo a mezzo stampa parallelo a quello formale, e via elencando. Sono prassi, tutte, frutto di scelte discrezionali: legittime, certo, ma non necessitate.

Si tratta – superfluo aggiungerlo – di scelte produttive di effetti assai gravi non solo sulle persone coinvolte nei procedimenti ma anche in termini di criminalizzazione, nell’immaginario collettivo, dell’intero movimento No Tav.

5. L’excursus sin qui svolto avvalora e spiega l’affermazione da cui si è partiti circa la ferita che si è prodotta in questi anni in Val Susa e non solo.

Il vissuto della popolazione valsusina è sempre più quello di uno Stato in guerra con i propri cittadini. Più in generale, i comportamenti istituzionali – di una pluralità di istituzioni convergenti – hanno minato la fiducia dei cittadini nello Stato e sono tornate a risuonare le amare parole di Piero Calamandrei pronunciate il 30 marzo 1956 davanti al Tribunale di Palermo nell’arringa in difesa di Danilo Dolci: «Da secoli i poveri hanno il sentimento che le leggi siano per loro una beffa dei ricchi: hanno della legalità e della giustizia un’idea terrificante, come di un mostruoso meccanismo ostile fatto per schiacciarli, come di un labirinto di tranelli burocratici predisposti per gabbare il povero e per soffocare sotto le carte incomprensibili tutti i suoi giusti reclami»[6].

Parallelamente, le scelte e i comportamenti istituzionali sin qui descritti si sono estesi a tutto il territorio dello Stato. Le decisioni politiche seguono sempre più logiche autoritarie di stampo coloniale (cioè prive di un confronto reale con le popolazioni o i cittadini interessati); la legge n. 132 del 2018 (che ha convertito il cosiddetto decreto Salvini) ha reintrodotto il delitto di blocco stradale, depenalizzato nel 1999, ed è stato addirittura presentato in Senato un disegno di legge (n. 246) diretto a inserire nel codice penale i delitti di «terrorismo tramite la piazza» e di «istigazione a commettere terrorismo tramite la piazza»; gli interventi di ordine pubblico basati sulla contrapposizione frontale sono diventati quasi ovunque regola, sostituendo il breve periodo di gestione concordata delle manifestazioni seguito alla sindacalizzazione e alla smilitarizzazione della polizia; le “zone rosse”, formalizzate o di fatto, accompagnano ormai qualunque evento pubblico anche solo di media rilevanza; l’intervento giudiziario – a Torino e in Val Susa come a Catania, a Riace o a Milano – sembra assai spesso rientrato, dopo le illusioni dell’ultimo scorcio del secolo scorso, nel suo alveo tradizionale, coerente con la concezione secondo cui le società si governano in modo centralizzato e autoritario mentre il conflitto sociale e le condotte difformi rispetto al pensiero dominante sono elementi di disturbo inaccettabile praticati da “nemici” meritevoli di repressione esemplare.

Ciò sta provocando nella società una frattura che va ben oltre la Val Susa. Non basta certo un segnale positivo a invertire la tendenza. Ma la rinuncia al Tav in Val Susa sarebbe qualcosa di più di un segnale. Sarebbe la vittoria di Davide contro Golia e mostrerebbe che un altro mondo è possibile. Per questo l’establishment, pur ormai consapevole dell’inutilità dell’opera, non può rinunciarvi e perdere la sua battaglia. Per questo, specularmente, il movimento di opposizione al Tav deve vincere. Il dilemma – come si è detto – ha molto a che fare con le sorti della democrazia e della politica.

[1] A. Battaglia, I giudici e la politica, Bari, Laterza, 1962, p. 3.

[2] Merita segnalare, a dimostrazione dell’improprietà del provvedimento, il fatto che, all’esito del giudizio di cassazione (definito con sentenza 27 aprile 2018) dei 25 imputati nei cui confronti era stata emessa la misura cautelare della custodia in carcere (che, ai sensi dell’art. 275, comma 2 bis codice procedura penale, «non può essere disposta se il giudice ritiene che con la sentenza possa essere disposta la sospensione condizionale della pena»), ben 4 sono stati assolti per ragioni di merito e 8 hanno beneficiato della sospensione condizionale della pena mentre per 10 è stato disposto un nuovo giudizio per una più compiuta valutazione circa la sussistenza, con riferimento ad alcune delle imputazioni, della causa di non punibilità di cui all’art. 393 bis codice penale (che sussiste allorché «il pubblico ufficiale abbia dato causa al fatto, eccedendo con atti arbitrari i limiti delle sue attribuzioni»).

[3] L’abnormità dell’accusa di terrorismo con riferimento a tale fatto, pur chiaramente illecito, è evidenziata in modo lapidario dalla Corte di assise di Torino nella sentenza 17 dicembre 2014 che, nell’assolvere gli imputati da tale reato, usa parole di elementare buon senso: «pur senza voler minimizzare i problemi per l’ordine pubblico causati da queste inaccettabili manifestazioni, non si può non riconoscere che in Val di Susa – e a fortiori nel resto del Paese ‒ non si viva affatto una situazione di allarme da parte della popolazione e [dunque] se il contesto in cui maturò l’azione [degli imputati] non era oggettivamente un contesto di particolare allarme, neppure l’azione posta in essere rivestiva una “natura” tale da essere idonea a raggiungere la contestata finalità». Contro tale decisione hanno presentato appello i pubblici ministeri ma l’insussistenza del reato di terrorismo è stata confermata dalla Corte di assise d’appello di Torino, con sentenza 21 dicembre 2015, e dalla Corte di cassazione con sentenza 28 marzo-28 settembre 2017 (dopo analoga sentenza 15 maggio-27 giugno 2014, emessa in sede cautelare).

[4] Illuminante è un passaggio dell’ordinanza 8 febbraio 2012 del Tribunale del riesame nel procedimento a carico di AG + 40 (reiterato in successive ordinanze) in cui la misura cautelare della custodia in carcere nei confronti di alcuni indagati viene definita «il minimo [sic!] presidio idoneo a fronteggiare in modo adeguato le consistenti ed impellenti esigenze cautelari».

[5] L’operazione è condotta utilizzando a piene mani, per delineare la personalità degli indagati, schede di polizia con elenchi di segnalazioni e denunce, riportati testualmente senza alcun controllo sui seguiti processuali. Con esiti imbarazzanti come la ricostruzione della pericolosità di un indagato incensurato (ancorché gravato da tre denunce, una delle quali di 12 anni e un’altra di 7 anni antecedenti all’ordinanza) introdotta dall’affermazione che «nel 1970 è contiguo ai movimenti della sinistra extraparlamentare “Lotta continua” e “Potere operaio” e partecipa a una manifestazione non preavvisata all’autorità di pubblica sicurezza, promossa dai predetti movimenti» (ordinanza Giudice per le indagini preliminari Torino 20 gennaio 2012).

[6] D. Dolci, Processo all’articolo 4, Palermo, Sellerio, 2011, pp. 309-310.

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