I fantasmi del fascismo

di Silvia Calamandrei

Ho avuto il privilegio di leggere in anteprima i capitoli di questo libro (Simon Levis Sullan, I fantasmi del fascismo. La metamorfosi degli intellettuali nel dopoguerra, Milano, Feltrinelli 2021) dedicati a Piero Calamandrei e a Luigi Russo, per cortesia dell’autore, e già avevo avuto modo, in uno scambio di mail, di esprimergli le mie forti perplessità, che escono rafforzate dalla lettura dell’integrale. Un volume ambizioso, sugli elementi di continuità intellettuale e culturale tra fascismo e antifascismo, denunciando nella scarsa autoanalisi di alcune figure intellettuali le motivazioni di una mancata resa dei conti degli italiani con il fascismo. A differenza della Germania, in Italia sarebbe emerso un atteggiamento riduttivo, minimizzante, presentando il fascismo come parentesi, secondo l’interpretazione di Croce: insomma il Ponte di Calamandrei non è la passerella eretta tra le macerie per ritrovare il cammino della ricostruzione della patria democratica, bensì un ponte di continuità tra fascismo e antifascismo.

In uno scambio sui social l’autore ha già detto che il mio sarà un punto di vista di parte (difesa familiare d’ufficio del nonno?), ma a parte che mi sembra un colpo basso, e spero si tratti solo di una battuta, la mia perplessità è più generale. In effetti non sono una giurista e ho migliore frequentazione con tematiche storiografiche e letterarie che giuridiche, essendomi laureata in storia contemporanea e avendo compulsato nei miei studi più Chabod o Luigi Russo che i manuali di diritto processuale civile.

Innanzitutto un’obiezione di metodo: scegliere quattro figure, un giurista, Calamandrei, un critico letterario, Luigi Russo, uno storico, Chabod e uno scrittore, Moravia, e apparentarle come esemplari per una compromissione col fascismo elencando una serie di dati biografici e professionali, dal giuramento dei professori universitari alla ricerca di riconoscimenti accademici alle collaborazioni giornalistiche all’impegno nella riforma del codice di procedura civile, rischia di semplificare la ricostruzione dei percorsi di personaggi complessi e di entrare poco nel merito della loro produzione letteraria o scientifica.

Niente in contrario ad affrontare percorsi in diverse discipline e a offrire un panorama variegato, ma in questa omologazione non si fanno i conti nel merito con la produzione storica e letteraria di Russo e Chabod su Machiavelli, peraltro assai differenti nell’approccio e nelle conclusioni, ma si preferisce evidenziarne i nessi con la politica culturale del regime, entrambi collaboratori, sia Russo che Chabod, dell’Enciclopedia Treccani, sulla quale ha appena aggiunto autorevoli commenti Mimmo Franzinelli ricostruendo l’operazione gentiliana di inclusione di una serie di antifascisti. Ma qual è il giudizio sul contributo storiografico di Chabod e su quello letterario di Russo? Cioè, come la collusione col regime si riflette nella elaborazione specifica? Ci vorrebbe forse un Isnenghi per saper leggere nei testi l’influenza del contesto storico in cui sono scritti e quanto nell’interpretazione di Verga o di Manzoni Russo paghi un prezzo al regime. Oppure ci vuole un Canfora, che ha saputo fare una lettura critica di Marchesi e del suo tortuoso percorso sotto il fascismo. In fondo Il Principe di Machiavelli esaltato da Chabod e il cesarismo di Marchesi non sono troppo distanti.

Perché questi quattro personaggi sono stati prescelti come tipici e pregnanti? Sono figure che appartengono al filone liberale, più conservatore Chabod, più socialisteggianti Calamandrei e Russo, a parte Moravia, agnostico politicamente, e si possono ricondurre agli ambienti crociani sia pure con vicinanze a Gentile soprattutto di Russo. L’autore preferisce fare i conti con questi esponenti della vecchia guardia piuttosto che con quanti, più giovani, percorsero il cammino dall’adesione al fascismo all’impegno nella Resistenza antifascista: la gioventù intellettuale dei Littoriali per intenderci, o quei «fratelli in camicia nera» a cui gli stessi comunisti facevano appello negli anni del “consenso”. Insomma meglio un Pintor, che pur andava a convegni in Germania con esponenti nazisti, ma si riscatta nella scelta di campo della Resistenza, che un Moravia restato sempre ambiguo. Ma quanta di quella ambiguità ha saputo essere narrata e trasmessa attraverso opere come Gli indifferenti e Il conformista? Lo stesso Levis Sullan sembra concederlo allo scrittore, cui attribuisce maggiore consapevolezza degli altri tre, citando soprattutto interviste tardive.

Sono personaggi cui si imputa di aver ricavato da Croce un passaporto per traversare indenni il ventennio, in nome dell’autonomia della cultura e della scienza, già proclamate nel Manifesto crociano del 1925. Il “lungo viaggio attraverso il fascismo” di zangrandiana memoria viene sintetizzato nei percorsi di quattro personaggi cui si fa colpa di non aver fatto una vera e propria autocoscienza e quindi di non aver favorito un’elaborazione degli italiani sull’esperienza della dittatura. Forse un esame più ravvicinato della rivista «Il Ponte», e lo sforzo cui vennero chiamati i collaboratori proprio a procedere a uno studio antropologico del fascismo, non andrebbero ignorati. Così come i tanti articoli sull’epurazione mancata e i rischi di continuità rispetto all’eredità del fascismo. Basti pensare al saggio Desistenza.

Facile liquidare l’Inventario della casa di campagna come un invito alla fuga, nonostante il libro venisse letto in chiave di resistenza morale da parte dei 300 amici lettori cui era destinato nel 1941. E assurdo leggere, come fa l’autore, in chiave autobiografica Uomini e città della Resistenza, quando Calamandrei si fa cantore del coraggio altrui e mai lo attribuisce a se stesso. In una lettera a Franco Antonicelli della primavera del 1956 Piero scriveva per spiegare perché non voleva iscriversi all’Anpi: «I motivi della mia risposta negativa sarebbero stati due: prima di tutto non mi pareva che fosse opportuno che facesse parte della Presidenza uno, come me, che non è mai stato partigiano e che solo ha fatto opera di difesa della Resistenza, quando questa era ormai diventata un fatto storico». La seconda ragione accampata è di spossatezza fisica in un anno che lo aveva appena visto protagonista del processo Dolci e della prima causa a livello di Corte costituzionale.

Dunque Calamandrei non si è mai spacciato come “resistente” e ha passato gli ultimi dieci anni della sua vita a difendere il contributo di coloro che hanno abbattuto il fascismo consentendo di porre le basi della legalità democratica nella Costituzione. È certo che la legalità difesa nel processo a Danilo Dolci, coincidente con le leggi di Antigone, non è quella di cui parlava nella conferenza Fede nel diritto, al tempo della collaborazione al Codice di procedura civile. Ma di questo percorso del concetto di legalità in Calamandrei hanno scritto eminenti giuristi, come Paolo Grossi, e ha appena discusso un’ottima tesi di dottorato Giulio Donzelli, che spero venga pubblicata.

Ovviamente l’autore potrà dire che lui è uno storico, non un giurista, né un critico letterario, ma di ricerca storica in questi saggi non ce n’è abbastanza, basati come sono soprattutto su ricostruzioni e commenti altrui (non sempre esaurienti): si tratta più di un pamphlet ideologico che di un saggio storico.

L’intento è più di polemica ideale, rimproverando ad alcune figure che hanno avuto rilievo nel dopoguerra i legami non abbastanza recisi col fascismo. Un esercizio che già altri hanno fatto, da Sergio Luzzatto a Mirella Serri a Raffaele Liucci e che negli anni cinquanta era praticato da tanti, soprattutto a destra, per ridimensionare figure all’opposizione del regime democristiano.

Quando per esempio l’anticlericalismo di Luigi Russo viene citato en passant come irrilevante si rischia di dimenticare la controversia col ministro democristiano Gonella che lo destituì da direttore della Normale di Pisa e la battaglia per la libertà d’insegnamento che venne ingaggiata anche in Parlamento con un intervento di Calamandrei.

Paradossalmente mi viene in mente L’impostore di Cercas, sul personaggio che si pretendeva reduce dai lager e che in Spagna esercitò comunque una grande azione educativa contro il fascismo e il nazismo. Anche se Calamandrei non si fosse smarcato troppo da momenti di collaborazione e da un antifascismo da salotto, le sue parole continuano a circolare tra i giovani in difesa della Resistenza e della Costituzione, e il suo percorso, anche se non di combattente, nutre la coscienza antifascista odierna.

Dunque a che pro questa operazione, mi chiedo. L’autore afferma di voler fare i conti con il rapporto tra gli intellettuali e il potere, e la loro subordinazione, soprattutto in regimi totalitari. Personalmente conosco un po’ la storia degli intellettuali cinesi, e i loro tortuosi percorsi per riuscire a pronunciare parole di verità in regime di censura. Non tutti sono dei martiri come Liu Xiaobo o degli esuli come Ma Jiang, e A Weiwei: alcuni restano e in qualche modo testimoniano, se si vuole “leggere tra le righe” dei romanzi di Mo Yan e di Su Tong. Penso anche a quanti nella Germania est hanno finito per ritrovarsi negli elenchi dei collaboratori della Stasi, ivi compresa la grande Christa Wolf. Vogliamo per questo dimenticare Trama d’infanzia o Cassandra?

Tornando a Piero Calamandrei, Sullan insiste che si è servito della chiave di lettura data da mio padre Franco nell’introduzione del 1982 ai Diari (edizione La Nuova Italia) a proposito dell’antifascismo di Piero. I comunisti come mio padre hanno giustamente voluto sottolineare il proprio ruolo determinante nella Resistenza antifascista, ma ciò non toglie che anche loro hanno vissuto una maturazione complessa prima di arrivare a certe scelte, passando talvolta attraverso il fascismo, e che anche loro hanno fatto compromessi col potere, dalla svolta di Salerno all’amnistia di Togliatti al Concordato, per non parlare del rapporto con lo stalinismo. Quando i figli fanno i conti con i padri non bisogna prenderli alla lettera.

Forse i nipoti sono indulgenti con i nonni, ma negli anni di lavoro sulle edizioni delle opere di Piero Calamandrei non ho mai rifuggito da metterne in luce anche gli aspetti contraddittori, apprezzando pur con certi limiti la lettura di Sergio Luzzatto nella sua prefazione laterziana alla riedizione di Uomini e città della Resistenza. Credo che Mario Isnenghi abbia scritto una gran bella introduzione all’edizione integrale dei Diari delle Edizioni di storia e letteratura, non riducendo Calamandrei alla “zona grigia” ma annoverandolo tra “color che son sospesi”: «La labilità dei confini, la doppiezza consapevole, la promiscuità di chi, da antifascista o da non immedesimato nel fascismo, continui a vivere in Italia – senza le liberatorie rotture nette del carcere, del confino o dell’esilio – costituiscono, al di là della dimensione autobiografica, il terreno di coltura, la cifra di un indeterminato e forse anche maggioritario numero di italiani tra le due guerre, con e senza tessera, in una società composta, nel grado di assuefazione, di differenti cerchi e microclimi. L’eccezionalità di questa testimonianza sta nel far ritrovare loro, indirettamente, visibilità e parola».

Eccola l’autobiografia di Calamandrei, annotata giorno per giorno, dal 1939 al 1945, senza infingimenti.

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