Un governo di «alto profilo»

Il governo “Conte 2” , grazie anche ai buoni uffici di Gentiloni e di Sassoli, rispettivamente Commissario e presidente del Parlamento dell’UE, era riuscito a ottenere dall’Europa un finanziamento pari a 209 miliardi di euro, quale rappresentante di uno Stato particolarmente colpito dal Covid; all’epoca la destra di Salvini e Meloni, visti gli atteggiamenti sprezzanti serbati dai due verso la “burocrazia di Bruxelles”, era semplicemente impresentabile in Europa; tuttavia, a finanziamento acquisito, i predetti avevano subito avanzato richieste e pretese, facendosi portavoce di quei settori economici che pretendevano una ripartizione degli stanziamenti favorevole allo sviluppo delle imprese, soprattutto private e che consideravano ogni spesa di tipo redistributivo un deprecabile “sussidistan”.

Poiché però gli attacchi condotti contro Speranza (protagonista di una “dittatura sanitaria”) e Lamorgese (definita incapace a fermare l’invasione dei migranti) si erano dimostrati inefficaci, lasciando la destra a gestire un’inutile opposizione, ci aveva pensato Renzi a riportarla al governo, facendo mancare i numeri a quello che lui aveva contribuito a costituire un anno prima.

Così Mattarella, pressato dall’Europa e non intendendo sciogliere le Camere in un momento in cui si era riaffacciata la pandemia e si dovevano predisporre i progetti per ottenere la prima tranche di aiuti, aveva chiamato a presiedere il governo Mario Draghi, già a capo della Bce e quindi, a giudizio delle élites dominanti, il miglior garante per un riparto di quegli aiuti in modo corrispondente alle attese.

Per ottenere l’adesione del maggior numero di partiti, Mattarella aveva promosso la costituzione di un governo «di alto profilo» che non doveva «identificarsi con alcuna formula politica», in realtà un esecutivo di salute pubblica guidato da Draghi, che si era scelto non solo i tecnici (Franco, Cingolani, ecc.), ma in buona parte anche i politici (Giorgetti, Carfagna, ecc.), diversi da quelli che Salvini e Berlusconi avrebbero gradito; il primo, poi, pur di partecipare alla divisione della torta, aveva cambiato veste in una sola notte, dichiarandosi europeista e moderato e il secondo aveva rivendicato a sé il merito di aver indicato Draghi per la Bce; la Meloni, dal canto suo, si era riservata il più fruttuoso ruolo di leader dell’opposizione.

Il compito assegnato al nuovo presidente del Consiglio era dunque quello di gestire per un anno le due suindicate priorità, il contrasto alla pandemia e la ripartizione degli aiuti, insieme a quello, rimasto sotto traccia, di continuare a garantire il paese presso la comunità internazionale per altri sette anni, grazie alla sua ascesa al Colle alla scadenza del mandato di Mattarella.

Il governo, che si era guadagnato la prima tranche degli aiuti scrivendo con la sua maggioranza una serie di leggi deleghe, spesso in termini vaghi, tutte in attesa di attuazione (giustizia e fisco, in particolare), aveva proceduto a furia di compromessi, rinvii, voti di fiducia, considerati questi la norma e non più l’eccezione; tutto ciò, ovviamente, non era stato determinato dalle “emergenze”, ma dalla mancanza di coesione delle forze di governo, frutto della decisione di costruire una “unità nazionale” a freddo, senza che ce ne fossero i presupposti politici.

In Parlamento i nominati dai partiti venivano così ingabbiati nei voti di fiducia, mostrando una completa sudditanza alle decisioni del presidente del Consiglio, poco incidendo sui contenuti dei provvedimenti, rimanendo solo liberi poi di continuare a fare propaganda una volta fuori dalle Camere.

A fine 2021, comunque, Draghi forniva un bilancio autocelebrativo di quanto fatto, dichiarava completato il “lavoro” con il raggiungimento dei 45 obiettivi prefissati dagli accordi europei e si riteneva pronto ad assumere le vesti di «nonno delle istituzioni», esplicitando finalmente la sua candidatura al Colle, sino ad allora rimasta tra le righe.

Davanti a tale scadenza, però, le contraddizioni insite in quella formula di governo venivano alla luce, l’autonomia del politico rivendicava i suoi diritti, ribellandosi all’ascesa di Draghi al Quirinale, costringendolo anzi a permanere alla presidenza del Consiglio: se questi, infatti, aveva operato come se il Parlamento fosse cosa propria, ora i partiti avevano deciso di rompere “l’unità nazionale”, dividendosi e fronteggiandosi per occupare con un loro uomo (o una loro donna) la massima carica istituzionale.

La destra, in questa operazione, riusciva a dare il peggio di sé, proponendo alla presidenza della Repubblica un politico condannato per frode fiscale e con altri procedimenti penali in corso; archiviato l’ indecoroso tentativo di collocare Silvio Berlusconi al vertice delle istituzioni, si apriva un balletto tra forze politiche, fatto di improvvisi annunci e di ancora più rapide bocciature; alla fine, stremati da una contrapposizione rivelatasi sterile – per poco non veniva nominata alla presidenza della Repubblica la dirigente dei Servizi Segreti Elisabetta Bellone, sconosciuta alla stragrande maggioranza degli italiani, ma proposta perché gradita anche alla Meloni – i partiti presenti in Parlamento ammettevano la loro impotenza, i media raccontavano di una mobilitazione dal basso invocante la riconferma di Mattarella, secondo il copione già collaudato con Napolitano, e il presidente della Repubblica in carica accettava il secondo mandato.

L’opinione pubblica veniva rassicurata perché la presenza di Draghi al governo veniva dichiarata irrinunciabile. I partiti potevano così dedicarsi alle elezioni amministrative parziali già fissate da tempo, cui il governo, su pressione della Lega, aveva accorpato il voto referendario sulla c.d. riforma della giustizia: l’esito del voto sugli enti locali consentiva diverse interpretazioni, quello sulla giustizia, cui aveva partecipato solo dal 20% degli elettori, malgrado i ripetuti inviti di Panebianco e Cassese di partecipare in favore del Sì, segnava invece la netta sconfitta della destra e della Lega in particolare, visto che a promuoverlo non era stato il voto popolare, bensì quello dei consigli regionali trainati dal partito di Salvini.

Su queste vicende, a rendere la situazione ancora più complessa, impattava, con effetti imprevisti, la guerra in Ucraina, o meglio l’interpretazione e il racconto che della stessa facevano il governo e i media allineati. Sull’Europa calava un clima da guerra fredda, col conseguente “obbligo” per ciascuno di dover scegliere da che parte stare: l’UE si appiattiva sulla Nato, accettandone acriticamente le decisioni e rilanciandole con il varo di sanzioni alla Russia e l’invio di aiuti armati all’Ucraina. Cambiava, di conseguenza, il vincolo da cui dipendere, poiché lo spartiacque politico non era più quello tra favorevoli o contrari alla UE, quanto tra chi professava fedeltà alla Nato e chi, criticandone le singole decisioni, veniva automaticamente additato come filoputiniano e nemico dell’Occidente.

Paradossalmente da questo esame venivano esonerati proprio gli alleati storici dell’autocrate russo, Berlusconi e Salvini, mentre finivano sotto le critiche, come d’abitudine nell’era Draghi, Conte e il M5S: ma il paradosso era solo apparente, perché i primi, dopo un silenzio imbarazzante e prolungato, cambiavano casacca e si allineavano, votando l’escalation degli aiuti armati a Kiev, mentre i secondi, visti anche i sondaggi, avevano frenato sul progressivo aumento di quell’aiuto, neppure discusso in Parlamento.

Le ripercussioni del vincolo atlantico, accompagnate anche da penose liste di proscrizione, incidevano perciò direttamente sugli assetti dei vari partiti e dei loro reciproci rapporti: il Pd del cattolico Letta, incurante una volta tanto dei distinguo vaticani, si schierava “senza se e senza ma” a fianco di Draghi e della Nato, anche dopo aver constatato che alla condivisione dei valori non si accompagnava una coincidenza di interessi; pressioni varie, anche internazionali, inducevano poi il ministro degli Esteri Di Maio a promuovere una scissione nel M5S, portando con sé un buon numero di parlamentari, soprattutto quelli che vuoi per il vincolo del mandato, vuoi perché non allineati a Conte, temevano di non essere nominati alla prossima scadenza elettorale; in compenso nella maggioranza “atlantica” entrava a buon diritto la Meloni, che poteva vantare l’accettazione della Nato da parte del Msi sin dal lontano 1956 e gli ottimi rapporti che, personalmente, oggi la legano all’America di Trump.

Altri sommovimenti interni rimanevano per il momento sotto traccia.

Poi, a luglio, la situazione precipitava: il giorno 9 il «Corriere» pubblicava con grande risalto un sondaggio da cui risultava che metà degli elettori della Meloni provenivano dalla Lega e che un quarto di chi aveva votato il M5S ora era propenso ad astenersi; Conte, per reagire alla scissione di Di Maio e recuperare le perdite, raccoglieva i suggerimenti di De Masi e del «Fatto Quotidiano» e forniva al suo partito un programma “di sinistra”, compendiato in una lettera a Draghi articolata in 9 punti, con cui chiedeva il ripristino della dialettica democratica in Parlamento e il rinnovo dell’agenda di governo, che doveva privilegiare i trascurati temi del lavoro, della lotta alle diseguaglianze, del rinnovamento ecologico, ecc.; l’11 luglio, alla Camera, il M5S non votava il “decreto Aiuti”, che stanziando oltre 20 miliardi di euro per famiglie e imprese, conteneva anche una norma sul termovalorizzatore di Roma, inviso al M5S; il 12 luglio, Salvini, ben sapendo che il presidente del Consiglio era contrario a ulteriori scostamenti di bilancio, ne chiedeva uno da 50 miliardi «per poter affrontare i problemi del paese»; Draghi, dal canto suo, avvertiva che il governo da lui guidato, per come era nato, non poteva prescindere dal M5S.

A questo punto, trasmesso il decreto al Senato per il voto finale, il governo, viste le fibrillazioni della sua maggioranza, chiedeva e otteneva l’ennesima fiducia: il Parlamento la concedeva e l’esecutivo, il giorno 14, la incassava con 172 voti a favore, un numero di consensi nettamente superiore a quello dei 161 strettamente necessari; il M5S non partecipava alla conta, con ciò negando la fiducia a Draghi; Salvini subito dichiarava che «se non c’erano più le condizioni per andare avanti, si doveva tornare al voto». Draghi si dimetteva, ma il presidente della Repubblica si limitava a prenderne atto e lo rinviava alle Camere, facendo al tempo stesso trapelare che, in caso di conferma delle dimissioni, il Parlamento sarebbe stato sciolto e si sarebbe andati alle elezioni anticipate.

La situazione venutasi a creare era, istituzionalmente, anomala: il presidente del Consiglio aveva ottenuto la fiducia e ciò nonostante aveva dato le dimissioni; il presidente della Repubblica non le aveva accettate, dando una settimana di tempo a Draghi e ai partiti perché ci ripensassero, facendo capire che il “governo del presidente” non sarebbe mai stato sostituito da un diverso esecutivo, “cercato” in Parlamento col rituale mandato esplorativo.

In realtà il carattere meramente fittizio della “unità nazionale”, vizio d’origine del governo Draghi, occultato per mesi da 56 voti di fiducia, già emerso al momento dell’elezione del presidente della Repubblica, emergeva ora con forza dirompente, cogliendo le forze politiche in gran parte impreparate; una crisi tutta partitica aveva innestato le suindicate anomalie istituzionali; e queste, a loro volta, avevano finito per dettare le mosse ai vari protagonisti.

Cominciavano le retromarce e le pantomine: Conte dichiarava di aver votato contro il decreto, ma di non aver inteso negare la fiducia a Draghi: il distinguo era tecnicamente impossibile, visto che sul decreto era stata deliberatamente posta la fiducia e la spiegazione addotta, poi, era del tutto incongrua, visto che a richiederla era stato proprio un ministro pentastellato, Federico D’Incà; Salvini e Berlusconi si dicevano pronti a confermare la loro fiducia a Draghi, ma solo se guidava un governo senza il M5S, soluzione già esclusa in precedenza dal presidente del Consiglio; nel frattempo i media italiani riportavano gli appelli pervenuti dal mondo euro-atlantico perché Draghi rimanesse al suo posto; e a questi si aggiungevano quelli giunti da una società civile variamente sollecitata, perché le dimissioni fossero ritirate e il governo comunque ricomposto.

Senonché i giochi erano ormai fatti. Draghi si era accorto che quella anomala forma di governo aveva retto, sia pure a fatica e con compromessi continui, sino a quando si era trattato di allocare e spendere gli straordinari finanziamenti ottenuti dal precedente governo, peraltro mai nominato e dai più anche demonizzato; poi, sconfitto alle elezioni presidenziali, costretto a operare coi più stretti vincoli di bilancio, non più in grado di controllare le spinte contrapposte di Lega e M5S che sollecitavano sempre maggiori spese per soddisfare gli appetiti dei loro referenti elettorali, il presidente del Consiglio aveva deciso che così non poteva andare avanti.

Intervenuto in Senato il 20 luglio, Draghi rivendicava i successi sino ad allora ottenuti (o comunque quelli ritenuti tali), elencava gli altri punti del “suo” programma ancora da attuare, poi, rinfacciando con durezza a Salvini l’appoggio offerto a taxisti e balneari in lotta e a Conte la redazione pasticciata del reddito di cittadinanza e del superbonus, mostrava di aver perso lui la fiducia nella maggioranza, ritenendo con ciò chiuso lo spazio per l’incarico affidatogli.

Paolo Mieli rimaneva estasiato e, in televisione, non nascondeva il proprio entusiasmo: «un discorso memorabile, asciutto, secco, senza far sconti a nessuno. E la replica è stata sublime, brevissima, ma ogni parola era un pugno nello stomaco»; tuttavia proprio a seguito di questo discorso “sublime e memorabile” e al cortocircuito istituzionale che aveva provocato (la conferma delle dimissioni portava, come previsto, direttamente alle elezioni anticipate), la destra si trovava la strada spianata per la tanto attesa rivincita: la Lega di Salvini usciva dall’Aula e non votava la risoluzione pro Draghi, con annessa fiducia, presentata da Casini, superando le perplessità di Giorgetti e le resistenze dei “governatori”; ma con la Lega usciva anche Forza Italia e qui era Berlusconi a compiere l’ennesimo voltafaccia, abbandonando Draghi, infischiandosene del partito (dal quale infatti uscivano subito i “cavalli di razza” Brunetta, Gelmini e Carfagna), interessato solo al suo rientro da senatore in quell’aula, da cui era stato giustamente cacciato qualche anno prima (e dove potrà riacquistare una immunità, a lui sempre utile, viste le pendenze processuali).

Ma le dimissioni di Draghi avevano effetti ancora più dirompenti nell’opposto schieramento.

L’incauta mossa di Conte veniva utilizzata da Letta per portare a compimento la svolta “centrista” che maturava da tempo e che poneva fine all’alleanza con la nebulosa del partito di Conte, in cui ancora emergevano istanze “inopportune”, che richiamavano i temi classici della sinistra d’un tempo. Un mese prima Italia Viva di Renzi aveva “rotto” l’unità nazionale astenendosi su uno dei fiori all’occhiello del governo Draghi, la riforma del Csm voluta dalla Cartabia, ma nessuno ne aveva fatto “un caso”; la presa di distanza di Conte dal “decreto Aiuti” veniva invece, questa volta, enfatizzata da Letta per formulare un giudizio di generale inaffidabilità nei confronti di quella forza politica che non era partita per la guerra come il Pd e che aveva difficoltà a entrare nel fronte largo, cioè allargato al centrodestra, auspicato da Letta e da gran parte dei suoi parlamentari.

L’identificazione del “programma” del Pd con l’agenda Draghi (nella quale le questioni del lavoro precario e delle disuguaglianze crescenti non avevano mai trovato posto) e l’accantonamento della riforma della legge elettorale (il Rosatellum continuerà a premiare oligarchie di partito e schiere di nominati) hanno poi contribuito in modo determinante a stabilire la linea politica del Pd e la scelta delle alleanze. Le due cose sono andate di pari passo, strettamente intrecciate tra loro: bruciati in una notte i rapporti intrattenuti per tre anni col partito di Conte, non avendo più un programma proprio su cui utilmente confrontarsi con altre forze in competizione, Letta ha deciso di trasformare le tradizionali coalizioni in mere “alleanze tecniche”, con un’unica connotazione “politica” (o noi o la Meloni), per poter almeno fronteggiare la destra unita nei collegi uninominali con qualche possibilità di successo.

Un tempo una simile scelta sarebbe stata definita, semplicemente, un’ammucchiata. Oggi Letta, per giustificarla, ha invitato i critici a guardare «il giudizio lapidario degli elettori» ( ma voleva dire i sondaggi) che, secondo la Ghisleri, premiano Pd, Azione e Italia Viva, penalizzando il M5S: ha così cercato di ancorare questa sua scelta a numeri volatili e comunque, a due mesi dalle elezioni, scarsamente significativi; per dar forza alla sua campagna, poi, non avendo da valorizzare contenuti diversi dal richiamo a Draghi e alla fedeltà atlantica, ha proposto l’immagine di un partito simile a «un quadro di Van Gogh, con nettezza di colori», riservando per sé il «ruolo di front runner con lo sguardo di tigre». Sciocchezze.

Ma se proprio vogliamo guardare alle previsioni, è forse più utile soffermarsi sulle proiezioni dei risultati delle elezioni nei collegi uninominali (147 solo alla Camera), che sarebbero, allo stato, quasi tutti favorevoli ai candidati della destra. Un simile esito rafforzerebbe ulteriormente la probabile vittoria conseguita da quella coalizione col voto proporzionale, conferendole una maggioranza di tali proporzioni da consentire persino la manomissione della Costituzione: sarebbe infatti sufficiente per raggiungere quell’obiettivo, l’aiuto prestato da una pattuglia di quei “centristi”, politicamente ondivaghi, ma pronti a seguire la corrente dominante, approdati in parlamento solo in forza della suindicata alleanza tecnica.

Maggioranza e governo verrebbero in tal caso trainati da una destra che non solo, con l’identica formazione, ha portato il paese sull’orlo della bancarotta nel 2011 (chi se lo ricorda, ormai), ma che è sempre stata estranea e ostile alla Carta del ’48; una destra che ha già varato nel 2006 una riforma che aboliva oltre 50 articoli della Costituzione, riforma che solo un referendum popolare è riuscito, da ultimo, a bloccare; e che oggi è guidata da Meloni e Salvini, che, più che sovranisti, sono ammiratori – e aspiranti imitatori – di tutti coloro che hanno costruito regimi illiberali, da Bolsonaro a Orban, o che addirittura hanno tentato un colpo di Stato, come è il caso di Trump, che la Meloni ha cercato di giustificare anche dopo l’assalto al Campidoglio.

La partita che si andrà a giocare il 25 settembre rende perciò la scadenza particolarmente delicata, poiché le conseguenze di questa elezione riguarderanno non solo la composizione del parlamento e del governo, ma, potenzialmente, la tenuta stessa della Costituzione; tuttavia questa possibile implicazione del voto non sembra interessare i componenti dell’alleanza tecnica, in tutt’altre faccende affaccendati.

C’è solo da sperare che il 26 settembre non vi sia per loro (e per molti altri distratti) un risveglio troppo brusco.

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