Beni comuni

Numero 2-3 febbraio-marzo 2013 Prezzo € 15.00

beni comuniStiamo vivendo una crisi forse irreversibile della democrazia rappresentativa che ha governato la vita politica europea nel corso degli ultimi cinquant’anni. Proponiamo una riflessione sul concetto e le pratiche dei “beni comuni”, consapevoli di trovarci su una linea nodale della storia, mentre l’autonomia degli Stati nazionali e la loro sovranità sono minacciate dal comando esplicito del capitalismo finanziario e dal suo passaggio diretto, senza mediazioni, all’esercizio del potere politico. Quella che una volta si definiva “società civile” – o spazio pubblico – vede sempre piú ridotti i suoi margini di indipendenza e di decisione rispetto agli ordini che provengono da organismi economici sovranazionali, non eletti, espressione diretta del capitale finanziario. Una forma autoritaria e concentrata di decisione politica sta sostituendo le vecchie forme della democrazia occidentale, ponendo probabilmente termine a una storia iniziata due secoli fa e alla sua idea di contratto sociale.
Le elezioni italiane prossime venture forniscono un esempio chiaro a sufficienza del processo in corso: il sistema elettorale, la campagna mediatica, gli accordi già siglati e solo nominalmente segreti tra le parti fintamente avverse, prefigurano non solo il consueto “spettacolo” a cui ci eravamo abituati negli ultimi decenni, ma una vera e propria destituzione dell’apparenza stessa della rappresentanza parlamentare. Quasi non è piú nemmeno necessario l’inganno, di fronte al fastidio esplicito che l’attuale élite tecnocratica dimostra verso ogni forma di democrazia, anche solo formale.

Il modello governamentale oggi dominante, gerarchico ed elitario, sta addirittura recuperando – sia pure in forma farsesca – alcuni termini teologici che, secondo Max Weber, favorirono all’inizio lo sviluppo capitalistico e la sua accumulazione originaria: il debito, la colpa, il merito, il privilegio degli eletti. Non si può interpretare questo momento storico come una “parentesi”, un esercizio di dittatura commissaria, che – passata l’emergenza – permetterà il ritorno alle antiche forme della democrazia, “purificata” e salvata dai suoi eccessi. Siamo piuttosto di fronte a un cambiamento di paradigma storico, a un mutamento sostanziale che investe il fondamento stesso della vita sociale e politica.
È possibile opporsi a tale stato di cose e a questa trasformazione autoritaria? Non si può rispondere a una simile domanda solo riproponendo le vecchie forme di mediazione sociale dei conflitti, gestite dai partiti e dalle organizzazioni sindacali. Alla nuova conformazione del dominio, occorre rispondere con una nuova forma di resistenza; a un potere sovranazionale e globale che minaccia la stessa sopravvivenza delle risorse naturali bisogna rispondere con un progetto che si ponga alla stessa altezza di problemi e ponga soluzioni alternative.
Se gli Stati divengono sempre piú regimi destinati al controllo autoritario di decisioni prese altrove, l’idea di bene comune presuppone un nuovo contratto sociale, fondato sulla difesa delle risorse naturali minacciate di esaurimento, su pratiche di democrazia partecipata, sull’autogestione degli esseri umani coinvolti nella sopravvivenza e nell’amministrazione dei territori. A definire tale idea sono dedicati i saggi raccolti nel presente numero. Si tratta di una riflessione urgente, perché anche il concetto di bene comune non subisca la rivoluzione passiva toccata ad altre parole chiave della tradizione democratica italiana: il federalismo – divenuto nelle mani della Lega separatismo etnico e sociale; la liberazione sessuale – ridotta a orgetta da strapaese; il rifiuto del lavoro – trasformato in elogio della precarietà; la democrazia diretta – risolta in acclamazione plebiscitaria e populista di un Capo; il riformismo – termine divenuto temibile annunciatore di miseria e povertà.

“Bene comune” rischia di diventare il vacuo copricapo di una tecnocrazia sedicente di sinistra, che trasforma il reale cambiamento oggi richiesto in amministrazione moralistica dell’esistente, lasciando immutate le effettive gerarchie di potere.
Per definire i termini di una democrazia insorgente fondata sul concetto di bene comune, nel presente numero si tende un arco tra una riflessione piú strettamente politica su di esso (il documento del sito Democraziakmzero (http://www.democraziakmzero.org), il saggio di P. Cacciari) e la sua definizione giuridica e possibile traduzione in diritto positivo, con cui concludiamo il nostro lavoro (i saggi di U. Mattei e P. Maddalena). Gli interventi di G. Sullo e A. Zanchetta collocano la riflessione su democrazia e beni comuni in un contesto internazionale, con riferimento particolare allo zapatismo e alla Via Campesina in America Latina. L. Caminiti, G. Ferraro si occupano dell’aspetto costituzionale e storico dell’argomento, mentre un particolare rilievo è dedicato a un fenomeno che sta diventando sorprendente e rilevante: l’occupazione dei teatri come forma di rivendicazione di un bene comune culturale (L. Baiada). Alcuni saggi si occupano di pratiche di resistenza territoriale, emblematiche e significative, in nome di una qualità della vita minacciata (F. Forno, C. Lucchi), mentre Nebbia e Poggio tratteggiano il quadro preoccupante dell’emergenza ambientale.
Immaginare una repubblica dei beni comuni può sembrare solo un esercizio di utopia; questo termine non credo debba fare paura, se è inteso come la ricerca e il confronto con un’alterità di cui si debbono a poco a poco definire i termini e i contorni. Si tratta in ogni caso di una utopia concreta, come avrebbe detto Bloch, nata da una resistenza reale contro il potere attuale e dalla memoria di un possibile, presente nella realtà delle cose, che esso cerca di cancellare.

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