Massimo Jasonni

Le ragioni di un no[Altri interventi di Paolo Bagnoli, Luca Baiada, Francesco Biagi, Lanfranco Binni, Gian Paolo Calchi Novati, Rino Genovese, Ferdinando ImposimatoMario Monforte, Tomaso Montanari, Mario Pezzella, Pier Paolo Poggio, Marcello Rossi, Giancarlo Scarpari, Salvatore Settis, Angelo Tonnellato, Valeria Turra]

La nostra Costituzione repubblicana non è né “da amare”, né da cestinare, o “rottamare”, come qua e là si pretende sull’onda lunga dell’enfasi mediatica, ma rappresenta più semplicemente una normativa da comprendere nella sua essenza e da analizzare alla luce del retroscena etico-politico che la sorresse. Resta aperto, come sempre al cospetto di un testo di legge, tanto più se con settant’anni di vita sulle spalle, ogni possibile rilievo critico e ogni possibile progetto di riforma.

La Carta si pose orgogliosamente nel suo stesso definirsi «rigida»: rigida per l’intransigenza che le veniva da una lotta di popolo e per la coscienza, comune alle forze riformatrici presenti in aula, che si imponeva una frattura radicale con il fascismo, se si ambiva a un paese finalmente affacciato all’Europa. Tanto alti erano i propositi, quanto gravi i problemi da risolvere e agguerrite le opposizioni: perché il fascismo continuava a rappresentare l’autobiografia della nazione, non un incidente risolto, e perché gli angloamericani condizionavano gli aiuti economici, indispensabili per la ripresa, all’adesione al blocco atlantico. Certo non favorirono il buon esito della battaglia contro le destre la divisione creatasi a sinistra con la svolta di Salerno e una conclamata aspirazione del Pci a presentarsi alle elezioni come forza di governo.

Le resistenze interne si fecero già in allora valere: ebbero la meglio con il mancato inserimento dei Cln nell’esecutivo, richiesto a viva voce dal Partito d’Azione, e con l’approvazione dell’art. 7, frutto di un compromesso tra i popolari e i comunisti che indusse i laici allo sdegno. Tuttavia l’anima riformatrice prevalse e impresse un marchio indelebile alla Carta. Vinsero le spinte etico-religiose – si pensi a Dossetti –, in uno con la fedeltà culturale – si pensi a Calamandrei e a Salvemini – allo spirito della Resistenza.

Dossetti:

occorre dare veramente un volto nuovo al nostro Stato che assicuri a tutti gli italiani una democrazia effettiva, integrale, non solo apparente e formale, ma sostanziale, una democrazia finalmente umana […]. Non è per indulgere a una convenienza retorica che io qui voglio ricordare, fra i tanti nostri morti, un morto a me particolarmente vicino. Quasi due anni fa, il giorno di Pasqua del 1945, sull’Appennino reggiano, prima delle prime luci dell’alba, venivamo svegliati dall’annuncio che truppe […] naziste e fasciste avevano rotto parte del nostro schieramento […], incominciava così una giornata di Pasqua che fu giornata di duri combattimenti […]. Verso sera il nemico fu ricacciato. La vittoria. Ma la sera fu triste. Proprio una delle ultime fucilate aveva colpito Elio, il nostro vice comandante di brigata […]. Era ferito mortalmente ma ancora non se ne rendeva conto e sperava nell’intervento chirurgico di un nostro amico; ma l’amico, oggi qui tra noi, non poté che annunziarci che la morte era ormai imminente. E allora qualcuno dovette assumersi il compito di far sì che quel sacrificio, iniziato con tanta generosità, conoscesse anche la suprema generosità: quella di consumarsi consapevolmente. Credetti così di dovergli dire che la vita era ormai finita per lui e di dovergli chiedere che egli consapevolmente la offrisse per noi: perché tutti diventassimo più buoni, più fedeli alla bandiera che servivamo, più disposti a immolarci come lui per il rinnovamento d’Italia. Bastarono poche parole perché egli comprendesse e assentisse, e con gli ultimi esili sforzi della voce confermasse ciò che gli avevo chiesto. E noi presenti giurammo allora, di fronte a un sacrificio così grande e così consapevole, che avremmo sempre sentito e osservato l’impegno che esso importava per noi. Questo è l’impegno con il quale oggi vi parlo[1].

E Salvemini:

In Italia i militari di professione non hanno l’intelligenza neanche dei militari francesi, che non è molta. Non riescono a perdonare i partigiani italiani che hanno fatto quanto i loro generali non riuscirono a fare né in Grecia, né nell’Africa orientale, né nell’Africa settentrionale, né in Russia, né nella stessa Italia settentrionale, al tempo della Repubblica di Salò e del loro Graziani. In Italia, lo “Stato” – cioè l’alta burocrazia civile e militare, più i politicanti influenti, che per nove decimi sono quello che sono – lo “Stato” non intende far conoscere agli italiani e ai non italiani quello che fu la resistenza dell’Italia antifascista con tutte le sue ombre (che dire delle ombre che accompagnano nella guerra gli eserciti regolari?). Furono le Cinque Giornate di Milano, che durarono mesi e mesi, non in una sola città, ma in tutta l’Italia del Centro e del Nord. Per la prima volta, i contadini parteciparono attivamente alla storia della nazione non più come forze reazionarie. Infatti stettero con quei partigiani che facevano la guerra ai loro polli, e non con quegli ufficiali delle forze regolari che non facevano niente, e meno che mai con le bande nere, col Principe Borghese, coi tedeschi e coi mongoli. Fra i due mali…[2].

Da questi ideali e da queste sensibilità storiche nasce l’inchiostro indelebile della formalizzazione di un assetto costituzionale fondativo, originario nell’accezione greca del termine. Con la Repubblica si erige, in realtà, un ordine nuovo, prende corpo un vero e proprio modello di ordinamento giuridico improntato ai principi della solidarietà e della sacertà del lavoro. Parliamo di una costituzione agonistica, che si batte contro il recente passato e si batte per un futuro più giusto: precettiva, ma per questo tesa anche a un’attuazione piena, se pur differita nel tempo. Calamandrei tenne sul punto conferenze memorabili: sarebbe stato compito non solo del futuro legislatore, ma delle nuove generazioni renderla concretamente operativa, con esclusione di ogni privilegio sociale e con rimozione degli ostacoli in qualunque modo limitativi della personalità.

Entro questa dimensione agonistica vanno ricordati quegli apporti dottrinari che lottarono, pur numericamente minoritari in tempi di Prima repubblica, contro tentativi accademici e giurisprudenziali di restaurazione. Si mirava a ridurre il portato costituzionale a mero strumento programmatico, da farsi valere in un non meglio identificato futuro. Furono Mortati e Crisafulli, per primi, a sostenere l’immediata precettività della Carta, offrendo, nel contempo, solide basi ermeneutiche alla tesi della prevalenza delle norme costituzionali, con buona pace dell’art. 7 Cost., sulle norme di derivazione pattizia. Sul tema ritorneremo poi, ma lo si anticipa per sottolineare come i padri costituenti e chi con loro si adoperò per l’affermazione dei valori costituzionali si resero da subito conto che era in atto un tradimento della Resistenza e che la politica cui il dettato costituzionale si affidava si traduceva in impegno militante. In linea con la lezione di Gramsci e di Gobetti e in concorrenza con un apporto di pensiero politico cattolico, quale quello di Dossetti, lontano anni luce dalla nascente Democrazia cristiana. Quel mandato politico veniva da lontano: era l’autonomia, la responsabilità e la solidarietà che aveva caratterizzato le idee e la vita di due grandi fiorentini: Dante, nell’ultimo Medioevo, e Machiavelli, nell’incipiente modernità.

La riforma costituzionale ora posta al vaglio delle urne va analizzata sulla scorta di questa premessa. Essa, nel suo stesso appalesarsi, oscilla tra due poli, in realtà tra di loro molto distanti: da un lato, strizza l’occhio alle oligarchie finanziarie e al dominio mediatico, non nascondendo un suo allineamento agli indirizzi di un’economia “globale” e sfrenatamente neoliberista; d’altro lato, si presenta come afflato “democratico” ed “europeo”, insistendo nel dire che lavoro e occupazione restano obiettivi principali del governo e che proprio a tal fine si deve andare a un contenimento delle spese e a uno scioglimento dei lacci burocratici che impediscono la governabilità.

Quanto al secondo profilo, siamo alla sfrontatezza. Perché il degrado delle condizioni del lavoro e, prima ancora, del diritto al lavoro è sotto gli occhi di tutti; perché non è dato capire cosa c’entri “Europa”, terra di affermazione del bicameralismo, con l’abolizione del Senato, e cosa c’entri “democrazia” con una vanificazione del controllo parlamentare sull’esecutivo, tal quale quella che aveva in mente Berlusconi. Anche i bambini sanno, poi, che costi e lacci burocratici si contengono con regolamenti o leggine, senza bisogno di ricorrere al referendum. Non bastava, per esempio, ridurre il numero e dimezzare lo stipendio di deputati e senatori?

Assai più interessante è il primo profilo, quello della pretesa necessità di adeguamento ai modelli di vita di un universo virtuale, arreso al dominio tecnocratico.

Parliamo allora di due mondi inconciliabili: a) nella Costituzione viene offerta cittadinanza a un paese ricco di autonomie e custode di tradizioni; la finanza internazionale disconosce tutto ciò e non ha alcun interesse, se non alla creazione di qualche feticcio, non certo alla tutela dei patrimoni culturali nazionali. Sorge legittimo il dubbio che più di uno, in quelle alte sedi, pensi a fare di noi un mercato per agenzie di viaggio, un cameriere per tavole altrove imbandite e gestite; b) la Costituzione affonda nella storia: si sono fatti i nomi di Dante e di Machiavelli, ma non sarà male ripensare alla rivisitazione dell’arte rinascimentale di Burckhardt; la tecnocrazia, viceversa, destina tutto all’attualità, vede l’approccio storiografico come disturbo arrecato da perditempo, o professori universitari fortunatamente prossimi alla pensione; c) la Costituzione si impernia sull’idea antica della nobiltà della politica e, quindi, sulla capacità della politica di controllare l’economia e di disciplinare, negli opportuni casi, le aspirazioni del mondo militare; alla tecnocrazia il pensiero politico e l’agire politico recano disturbo, ove da lei non condizionati. L’ideale è che Politica si traduca in un teatrino.

Contributo all’approfondimento di un contrasto così radicale e drammatico può forse apportare il ripensamento dell’art. 7.

L’art. 7 Cost., nella sua studiatissima e calibratissima (anche in Vaticano) formulazione, non poneva e non pone solo questioni di qualificazione giuridica dello Stato – se laico o confessionista –, ma anche problemi di possente valenza politica. In realtà con quell’articolo, che segnò un accordo cui giunsero fuori dall’Assemblea comunisti e popolari, entrava tra i fondamenti della Costituzione non un mero principio pattizio (il che già sarebbe stato grave, al cospetto dell’Europa di allora) ma un concordato in carne e ossa. I Patti lateranensi consentivano un rientro dalla finestra di ciò che si era voluto tenere fuori dalla porta, riattualizzavano l’éthos clerico-fascista nella sede stessa in cui contro quell’éthos si combatteva.

Come mai i governi che si sono da ultimi succeduti e, in particolare, ora il governo Renzi non sono andati al superamento della problematica? Né può dirsi che il nodo sia oggi sciolto dagli accordi di Villa Madama, atteso che questi accordi eliminano, per dirla con Jemolo, i rami secchi della precedente esperienza concordataria, ma non il principio concordatario, semmai alimentato da una maggiore diffusività.

Dell’art. 7 se ne è discusso tanto, forse troppo, vuoi in sede accademica vuoi nei giornali, ma per lo più con riferimento al problema della qualificazione dell’ordinamento statuale, se laico o confessionista. Uno Stato che consenta alla limitazione della sua sovranità, quale quella prevista dal primo comma dell’art. 7, può definirsi laico? Non è questo il terreno su cui qui ci si muove, palese essendo, in ogni caso, che uno Stato che cede in quel modo in sovranità e si consegna pregiudizialmente al rapporto concordatario con una chiesa, è uno Stato confessionista. Ciò che si vuole sottolineare è qualcosa di più grave, e istituzionalmente deleterio. Con l’art. 7 entra tra i fondamenti costituzionali non l’idea cavouriana della separazione fra Stato e Chiesa (come Roberto Benigni ebbe il coraggio di sostenere in una recente, infelice esibizione televisiva, guarda caso poi fatta oggetto di replica in attesa del referendum), ma l’ipotesi bellarminiana della potestas indirecta Ecclesiae in temporalibus. Con questo articolo rivive quanto di più buio e illiberale seppe contrapporre la Controriforma alle libertà dei moderni.

Gramsci parlò, e da par suo, di due stampelle: l’una offerta dalla Chiesa di Roma a un regime putrescente; l’altra offerta da Mussolini a un’istituzione religiosa incapace di dialogare con la modernità. Oggi è la Chiesa cattolica stessa, per prima e sua sponte, a essersi allontanata da una historia dolorum, qual è per definizione la storia dei concordati. Sin dal Concilio Vaticano II ha mostrato di volere aprirsi a un nuovo rapporto con la comunità politica che possa esimerla dalle infamie del passato e dal sospetto che essa con il regime pattizio continui ad ambire a condizioni privilegiarie.

Si pensi, con uno sguardo protratto dalle condizioni di ieri all’oggi, alla scuola, ovvero all’intollerabile disparità che i concordati hanno determinato e determinano tra scuola pubblica e scuola privata. La seconda, di élite, finanziata in larga parte dallo Stato e destinata alla promozione della coltura di una classe dirigente astuta e asservita al potere economico; la prima, abbandonata a se stessa, privata di fondi che le consentano anche solo un’esistenza dignitosa. Vi viene impartita, per forza di cose e tra continue umiliazioni dei docenti, un’educazione scadente e dogmatica, rivolta a ceti sociali subalterni e ora ai figli di un’immigrazione per lo più votata al lavoro nero, quando non all’abbrutimento della mercificazione dei corpi e dello spaccio di droga.

È forse il caso di concludere che la Costituzione attende di essere attuata, non di essere elusa in ossequio al giogo tecnocratico. La tecnocrazia è allergica a una politica che sorregga un diritto giusto e solidale, e tanto più a una politica energica e autonoma, agonisticamente protesa all’affermazione del socialismo. Interessante notare che la c.d. globalizzazione, con tutto ciò che comporta di umiliazione delle esistenze e di avvilimento della natura, non pare affatto disturbata dall’esistenza di un concordato ecclesiastico. L’istituto non contraddice, ma anzi fa il paio con l’eliminazione dei simboli religiosi dal luogo pubblico, a consacrazione della nietzschiana morte di dio o, per meglio dire, morte degli dèi su cui poetava Hölderlin. Ciò che preme e si impone non è Galileo, né la sconfitta del commercio delle indulgenze, ma la deellenizzazione.

[1] G. Dossetti, intervento del 21 marzo ’47.

[2] G. Salvemini, Per la storia della Resistenza, ottobre 1948, ora in Il nostro Salvemini. Scritti di Gaetano Salvemini su «Il Ponte», Firenze, Il Ponte Editore, 2012, p. 104.

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