Vicenda Moro, tragedia italiana

Enzo Enriques Agnolettidi Enzo Enriques Agnoletti

[Ripubblichiamo il commento al rapimento di Aldo Moro che Enzo Enriques Agnoletti presentò su «Il Ponte» del marzo-aprile 1978 a firma Il Ponte. Nell’immediatezza dell’evento, Enriques Agnoletti, senza farsi troppe illusioni sul destino dello statista democristiano, stigmatizza l’atrocità di un’azione politica che ha perso i valori della Resistenza «per cui sapevamo che poteva esser giusto morire» e nel contempo mette in luce il «realismo» e la «spregiudicatezza» di una politica che non ha saputo e voluto guardare alto e lontano e per la quale Moro sarà chiamato a pagare molto oltre le sue responsabilità.]

Non sappiamo ancora quale sarà la sorte di Aldo Moro. Vorremmo distogliere lo sguardo dalla vista di un uomo che viene spinto verso un patibolo davanti a noi, tanto impotenti da sentirci vagamente come acquiescenti. Speravamo, questi spettacoli, di non vederli piú. E mentre questa è la realtà, c’è, intorno, il macabro rituale d’uso: parodia di processo, accusa e difesa (ma fuori della presenza dell’imputato), domande di grazia, e, al centro, un uomo, solo con se stesso, che tenta con ostinazione, muovendosi nello scarso spazio lasciatogli dalla costrizione che lo circonda, ricorrendo alla sua non comune intelligenza, di trovare a tentoni nel buio uno spiraglio da cui salvarsi, ma pure, nel fondo, presentendo l’esito fatale. Tutto questo rappresenta la negazione di quello per cui abbiamo vissuto, e per cui sapevamo che poteva esser giusto morire.

Feroci sono state le uccisioni, violente e improvvise, a cui abbiamo assistito, ma la raffinata crudeltà di questa esecuzione protratta, giocata a lascia e raddoppia, è molto maggiore.

Criminali comuni? No, compagno Lama[1], non carichiamo i «comuni» di colpe che non hanno; sono ben politici quegli uomini e quelle donne, e i misfatti che commettono. Forse che non erano politici, e non di rado convinti, i massacratori nazisti, gli esecutori dei peggiori processi staliniani, i generali e i poliziotti cileni, le squadre degli assassini sudamericani? Viene in mente Monsieur Verdoux quando, per difendersi delle molte uccisioni, mentre si vede sfilare nello sfondo i battaglioni nazisti, dice: «io sono un semplice dilettante». Politico, anche se criminale, è l’attacco, e politica deve essere la risposta. Sono politici criminali che, come i fascisti, non hanno posto nella nostra costituzione e nella nostra società, e devono essere combattuti, come avrebbero dovuto essere combattute le uccisioni, le violenze e le stragi fasciste, che invece non lo sono state.

Dalla Seconda guerra mondiale il concetto di criminalità politica ha preso dei contorni precisi. Per combatterli bisogna comprenderli, e non aiutano certo a comprenderli quelle divagazioni a cui si sono abbandonati noti commentatori che, per trovare le origini delle Brigate Rosse, non hanno fatto di meglio, come Ronchey[2], che darne la colpa a Lenin (c’est la faute à Rousseau!), ed è un modo come un altro per assolvere chi qualche responsabilità ce l’ha pure, e per convincersi che la colpa deve essere a sinistra; oppure, come Alberoni, che ricerca l’origine in quei partigiani comunisti che, dopo il 25 aprile, esitarono a deporre le armi (non erano solo comunisti, possiamo assicurarlo!) e le ragioni non mancavano; dimenticando che significativa non fu quella esitazione, o in qualche caso, conservazione, ma il coraggio di consegnare le armi a chi, francamente, tanta fiducia non ispirava. C’è insomma una tendenza a rifuggire dal presente dell’Italia e del mondo, e dal piú recente passato, per fare della violenza una categoria unica, una storia unica: rivoluzionari, gappisti, partigiani senza uniforme, tutta gente sospetta, come erano i vietnamiti. Non si fa alcun riferimento a quello che Chomsky chiama «il terrorismo civilizzato», per esempio i massacri dei bombardamenti. Non c’è dubbio che la violenza di Stato, le stragi di Stato, o degli Stati, abbiano profondamente influenzato chi, traumatizzato da quella violenza, per esempio in Vietnam da parte degli americani, nel Cile, in Grecia, e altrove (il Sessantotto è nato con il Vietnam), ha identificato certe società con il male assoluto e ha assunto, come spesso avviene nella storia, stile e metodi di quegli avversari – i fascisti – che avevano così largamente usato del terrorismo in Italia. Questa è la tragedia italiana.

Neanche giova a chiarire il dramma, sostenere che le lettere di Moro non siano sue. Così il «Corriere» del 1° maggio: le lettere sarebbero «moralmente inattendibili, non ascrivibili né intellettualmente, né come frutto di coscienza ad uno statista che, per tanti anni, è stato ai vertici dello stato». E per sostenere che Moro stesso vuole l’intransigenza si dice: «Per queste leggi Moro ha condotto anni di battaglie libere e democratiche, e proprio perché ne era un intemerato difensore oggi si trova prigioniero».

Dubitiamo che si possa far passare Moro per un gran difensore dello Stato, che avesse molto senso dello Stato quando attraverso gli omissis e altri sistemi cercava con ogni mezzo di oscurare la verità, quando ha fatto una crisi di governo per non veder toccato il finanziamento anticostituzionale alla scuola materna, o quando ha difeso, alla Camera, i suoi, accusati per l’affare Lockeed. Si può dire che la sua caratteristica sia stata quella di saper valutare, usando l’intelligenza che gli è propria, le forze politiche con grande realismo e spregiudicatezza; se ha impedito una frattura nel paese, è contemporaneamente riuscito a togliere al nuovo governo il carattere che l’avrebbe giustificato agli occhi di molti italiani.

Comunque una cosa è certa: per tutti i partiti, e all’interno di tutti partiti, esiste una assai minore libertà di movimento e quindi di critica, di manovra, di dibattito, di opposizione, e questa apparente unità rischia di favorire un immobilismo maggiore, mentre, lo ricordava Galante Garrone[3] su «La Stampa», se non ci fossero stati anni di corruzione, di impunità per i fascisti, di giustizia che rifiuta di funzionare, forse le Br non ci sarebbero. Anche se colpite, potrebbero rinascere se non si affrontano le cause profonde del male. Questo lo sanno tutti, ma dire che lo vogliano tutti sarebbe illusione. Certo si dà un vantaggio alle Br se si ha paura che un giudizio negativo sugli ultimi vent’anni significhi dar loro ragione. Si rischia così di rigettare critica, dissenso, opposizione fuori dell’ambito di libertà morale e anche, in certa misura, giuridica. Moro ha creduto pessimisticamente che, con i suoi metodi, si potesse ottenere il massimo possibile da questo paese, da forze morali e politiche come le nostre. Ma è stato lui la prima vittima illustre di una storia sbagliata. Il suo infelice destino ci deve confermare quello che gli anni della Resistenza, così spesso richiamati in queste settimane, ci hanno insegnato: se una vittoria c’è stata, ciò è stato possibile perché abbiamo saputo e voluto guardare alto e lontano.

[1] Luciano Lama (1921-1996), partigiano durante la Resistenza, fu capo di stato maggiore della 29a Brigata Gap «Gastone Sozzi». Segretario della Cgil dal 1970 al 1986, fu anche vicepresidente del Senato sotto la presidenza di Giovanni Spadolini dal 1987 al 1994.

[2] Alberto Ronchey (1926-2010), fu inizialmente direttore de «La Voce Repubblicana», organo del Pri, e lavorò anche a «Il Mondo» e a «Il Resto del Carlino». Inviato a Mosca per il «Corriere della sera» di Alfio Russo, passò poi a «La Stampa» di cui fu direttore dal 1968 al 1973. Fu anche ministro per i Beni culturali e ambientali nel primo governo Amato (1992-1993) e nel governo Ciampi (1993-1994).

[3] Alessandro Galante Garrone (1909-2003), storico, magistrato e docente all’Università di Torino, militante antifascista, combattente nella Resistenza, è considerato uno dei padri fondatori della Repubblica.

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