Giustizia su stragi e deportazioni nazifasciste: un tema populista, democratico, giustizialista o nazional-patriottico?

Belmondodi Luca Baiada

Ce n’è di cose da dire: lutto e dolore; indagini insabbiate per mezzo secolo; vertenze aperte sui risarcimenti; una magnifica sentenza del 2014 della Corte costituzionale (ne faceva parte anche Sergio Mattarella); la Germania che continua a non pagare; connivenze intellettuali e istituzionali in Italia. E invece silenzio, distrazione, falsa coscienza.

Quest’anno il Presidente della Repubblica, per il Giorno della memoria, ha denunciato l’indifferenza e ha ricordato «la complicità di organismi dello Stato, di intellettuali, giuristi, magistrati»; l’intervento era sullo sterminio degli ebrei, ma è una bella sveglia su tutto. Del resto, nell’Armadio della vergogna i casi di assassinio di ebrei e quelli di strage ebbero lo stesso trattamento. E poi, alle vittime italiane è stato fatto l’estremo oltraggio: usate come cavie nel 2012, in un processo internazionale all’Aia, per affermare la licenza di uccidere per ragion di Stato. È un principio che, se accettato, varrebbe anche per oggi, per le stragi in queste ore. Se si può fare a Marzabotto, il massacro più grave nell’Europa occidentale, perché non in Siria?

Insomma, sono argomenti che uniscono il passato, il presente e la progettazione del futuro. Questioni che contraddicono la nozione passatista della storia e la monumentalizzazione del lavoro culturale. Forse per questo, allora, oltre che per gli interessi economici, sono temi che danno fastidio.

Il 20 aprile, a Roma, si fa il convegno La Germania deve pagare per stragi e deportazioni: la memoria spesata non è risarcimento, a cura della Fondazione per la critica sociale. È ospitato nel Museo storico della Liberazione: ha sede in via Tasso, dove i nazisti torturavano i prigionieri. Il programma è:

«Sui crimini nazifascisti – stragi e deportazioni di italiani, civili e militari, dal 1943 al 1945 – si sono intrecciate fasi di oblio, ricerche serie, memorie accomodate. Dopo la riapertura dell’Armadio della vergogna, emerso anche per l’impegno del giornalista Franco Giustolisi, sono stati celebrati processi penali, conclusi con sentenze clamorose, ma non eseguite per la mancata collaborazione della Germania. Al posto della giustizia concreta, adesso si notano commemorazioni, monumenti e prodotti culturali discutibili sul piano storiografico, come l’Atlante delle stragi, pagati prevalentemente dallo Stato tedesco, che ammette le sue colpe morali ma respinge le conseguenze pratiche. Queste iniziative riparazioniste non possono rimpiazzare il risarcimento economico, che resta dovuto. Dopo una decisione del 2012 della Corte internazionale di giustizia, sfavorevole ai cittadini italiani, nel 2014 una sentenza della Corte costituzionale ha ristabilito che si può chiedere a un giudice italiano di condannare lo Stato tedesco ai risarcimenti, sia per stragi che per deportazioni. Sono in pieno svolgimento da un lato l’impegno processuale per la giustizia, sostenuto da solidi principi giuridici, e dall’altro lo sforzo diplomatico tedesco, con silenzi o sostegni da parte dell’Italia, per non pagare i risarcimenti agli interessati».

Da un po’ di tempo «Il Ponte» propone punti di vista su nazionalismo, populismo, democrazia: sono interessanti, specialmente dopo le elezioni, ma a volte lasciano una sensazione di distanza, di freddezza. Manca qualcosa. Ecco temi, invece, che mettono alla prova i paradigmi misurandoli sulla realtà: lei è sempre così ribelle, così dispettosa, imprevedibile, sfuggente alle categorie. Che sia femmina? Ottimo, la vita è più interessante.

Ho conosciuto un uomo che ha perso il padre a Cefalonia, era troppo piccolo per averne un ricordo. È un democratico, un antifascista. Quando mi ha raccontato che di lui non ha nessuna foto senza il distintivo del fascio all’occhiello della giacca, si è sciolto in lacrime. Quel padre fascista, lontano da casa e senza ordini, scelse con la sua coscienza: combatté contro i tedeschi e pagò col sangue. Quel figlio, a me che ero un estraneo, ha chiesto scusa delle lacrime: mi ha fatto il dono di una confidenza e ha chiesto scusa, lui a me. Ho conosciuto due donne che hanno perso le madri e le sorelle in una strage: una giurò al padre di non rivelare i nomi dei collaborazionisti, e mantiene la parola; l’altra quando va al cimitero calpesta con gusto la tomba del fascista che guidò i tedeschi, e ci tiene a farlo sapere. Sono venute alla presentazione di un libro su quella strage, in Toscana, vestite ammodino come per la domenica: in prima fila, si tenevano per mano.

Scrivendo, raccogliendo materiali, chiedendo fatti come si chiede del pane, ho conosciuto tante storie come queste, calorose e vibranti, contraddittorie, formidabili. Popolo, populismo, nazione, italiani. Sul fascismo come suicidio postumo del Risorgimento, in cui i nipoti dispersero le conquiste dei nonni, sarebbe il caso di ragionare. Di certo, chi ha problemi di autostima fatica a sentirsi in credito, specialmente se il debitore è uno Stato forte, che primeggia nell’economia di un continente, che si autoassolve perché dice che ha fatto i conti col passato.

Adesso si fa un convegno, non è pagato dalla Germania come le iniziative riparazioniste, e si cerca di affrontare verità che sembrano indicibili e una giustizia che sembra irrealizzabile. Berlino che risarcisce le vittime, ma dai. Oramai, proprio adesso, a questo punto? Ma i giochi non sono già fatti?

C’è un film sulla Legione straniera, Les Morfalous. C’è di mezzo l’oro di una banca. Il sergente Augagneur (Jean-Paul Belmondo, malandrino) si ritrova in Tunisia, disarmato, in un sotterraneo, dietro le sbarre, senza acqua; la chiave per uscire ce l’ha un superiore francese che lo vuole fucilare, ma il palazzo è assediato dalla Wehrmacht e tutto intorno ribolle la Seconda guerra mondiale. Gli chiedono: «Allora, che cosa ne pensi della situazione?». Augagneur, trenta denti di sorriso: «Beh, a questo punto non può che migliorare».

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