Rosa Luxemburg interprete del nazionalismo economico

Rosa Luxemburg di Luca Michelini

Cadeva il 15 gennaio il centenario dell’assassinio politico di Rosa Luxemburg, tra le più importanti teoriche marxiste del primo Novecento, impegnata in politica su più fronti nazionali (tedesco, polacco, russo). Fu una dirigente politica come oggi non ne esistono più: era allora tradizione che i programmi di azione venissero elaborati sulla base di un’analisi delle tendenze della società capitalista; non solo di quella nazionale, ma degli equilibri europei e mondiali. Era uno degli insegnamenti di Karl Marx, che aveva polemizzato contro i tentativi insurrezionali di Giuseppe Mazzini, la cui realizzazione astraeva ostinatamente dal contesto economico e sociale e si risolvevano in ripetute sconfitte.

La più celebre polemica in cui si è cimentata Luxemburg fu quella contro E. Bernstein, che voleva incanalare il movimento operaio verso una strategia riformatrice, abbandonando ogni proposito di rivoluzione. Fu tra le più lucide nel sottolineare che sarebbero state le classi dominanti a tradire i principi liberal-democratici, quando le riforme ne avessero intaccato i privilegi economici. Il socialismo, che era l’unica organizzazione di peso a difendere la democrazia borghese, era cioè obbligato a non rinunciare ai propositi rivoluzionari, perché sarebbe stata la logica storica delle riforme a imporne la razionalità, pena il disfacimento sociale e la nascita di sistemi autoritari.

E di disfacimento sociale in effetti si trattò quando i riformisti tedeschi appoggiarono i crediti di guerra, dai quali scaturì il primo conflitto mondiale, che cambiò il volto del mondo aprendo la stagione della violenza politica e dei totalitarismi. Per altro Luxemburg fu tra le prime a scorgere nella prassi del bolscevismo russo giunto al potere i prodromi di forme di autoritarismo. E fu vittima di una situazione politica dove le tendenze rivoluzionarie, separate dal grosso del movimento socialista, diedero l’occasione alle forze della reazione di imporre la propria logica, perfino alla socialdemocrazia. Il fallimento della rivoluzione in Germania fu all’origine di convulsioni sociali e politiche gravide di sciagure devastanti: perché rese realistica la politica del “socialismo in un solo paese” (in Russia) e perché la Germania si incanalò verso il nazismo e il secondo conflitto mondiale.

Tra i più acuti interpreti della Luxemburg si annovera Lelio Basso, che nel 1972, con Editori Riuniti, ne ha raccolto alcuni scritti. Si tratta di uno dei padri dell’articolo 3 della Costituzione italiana. Rimuovere, con l’azione pubblica, gli ostacoli di natura economica e sociale che impediscono l’effettivo godimento dei diritti fondamentali dell’uomo, non ha solo un intento etico: lo sviluppo del capitalismo va infatti imbrigliato con programmi di giustizia sociale (diritti sociali, redistribuzione della ricchezza e delle opportunità, politica industriale e sociale), per evitare lo scatenarsi di conflitti che costituiscono le condizioni oggettive dell’affermazione dei regimi autoritari e del fascismo. Solo un impasto di ingenuo idealismo e di dilettantismo, oggi, potrebbe negare che le crescenti diseguaglianze sociali sono all’origine della rinascita di vocazioni “sovraniste”. Solo l’irresponsabilità potrebbe negare che il nazionalismo odierno nasce dal fallimento del riformismo, che poco ha fatto per contrastare la polarizzazione sociale, mentre si è affidato ciecamente a una visione esclusivamente ottimistica della globalizzazione, aderendo a gran parte delle dottrine neoliberiste. Solo il fallimento dell’Europa politica e sociale può spiegare la rinascita della conflittualità tra Stati all’interno della stessa Europa. Solo la più completa mancanza di memoria storica può ritenere paradossale che il nazionalismo venga incontro, a modo suo, alle aspirazioni sociali che un tempo erano rappresentate dalla sinistra.

Il destino delle menti più lucide è segnato, come la storia insegna: imprigionata e alla fine assassinata, Luxemburg ebbe il tempo di scrivere un’opera a tutt’oggi fondamentale, L’accumulazione del capitale, tradotta in Italia nel 1960 da Einaudi. È un classico del pensiero socialista, che si contraddistingue per tre aspetti: come critica di alcune parti della teoria economica di Marx, come svolgimento di alcune sue linee di pensiero, infine come interpretazione del nazionalismo economico.

Il libro argomenta come la realizzazione del profitto soffra di un limite intrinseco, di cui Marx non si sarebbe accorto: la carenza di domanda pagante. Per questo motivo il capitale ha bisogno della continua conquista di nuovi mercati, utilizzando ogni strumento di cui lo Stato è capace. La globalizzazione dei mercati è dunque una necessità inderogabile e può avvenire in forme diverse, a seconda dei contesti storici: conquiste coloniali, politiche imperiali, creazioni di grandi “spazi economici”, conflitti tra Stati capitalistici per il dominio del mondo.

Il commercio estero, le politiche fiscali, il debito privato e pubblico, il protezionismo, il capitalismo bancario e finanziario, il militarismo, la guerra: sono altrettanti strumenti che il capitale utilizza per creare o conquistare i mercati che sono indispensabili alla sua sopravvivenza. Vengono considerati permanenti i meccanismi che Marx sintetizza con l’espressione “accumulazione originaria”: espropriazione violenta delle risorse naturali (terra anzitutto) e loro mercificazione; creazione del moderno proletariato, che deve essere libero di circolare; rovina delle forme non borghesi di proprietà, di organizzazioni sociali e statuali; diffusione della proprietà privata, che ciclicamente è sottoposta a processi di concentrazione dagli immensi costi sociali. Il capitalismo vive grazie alla distruzione di forme di società non capitalistiche e scatena inevitabili conflitti intercapitalistici. Luxemburg passa in rassegna la storia della politica imperiale dei paesi dominanti in Algeria, India, Egitto, Turchia, ma anche i processi di sviluppo capitalistico interni ai paesi più sviluppati, come gli Stati Uniti.

Si tratta di un’analisi che critica alla radice alcune pretese della scienza economica. L’assenza di crisi economiche, il libero scambio, il pacifismo commerciale, la crescita armoniosa di tutti i partecipanti allo scambio di mercato, lo Stato minimo, l’opposizione tra Stato e mercato, la distinzione tra politica ed economia, la differenza tra legalità e illegalità, tra forza e violenza, tra morale e immorale, il compromesso tra crescita, disuguaglianza e uscita dalla povertà: si tratta di precari stati di equilibrio destinati a essere continuamenti superati, sono altrettante forme di utopia, nel peggiore dei casi sono dei paraventi ideologici che non permettono di cogliere le più intime e inderogabili leggi di sviluppo del capitalismo e che nascondono le reali poste in gioco della concorrenza. Lo Stato gioca un ruolo imprescindibile non solo nella nascita, ma anche nello sviluppo del capitalismo. La politica fiscale è uno strumento indispensabile alla mercificazione di ogni aspetto della vita sociale e naturale; è la creazione della proprietà privata che crea il proletariato e la mercificazione delle risorse; è la nascita dell’economia monetaria e del commercio e poi l’indebitamento privato a creare le distinzioni di classe e a generarne le lotte; è l’indebitamento pubblico a marcare la gerarchia e a far sorgere il conflitto tra Stati. La politica di potenza e la guerra sono fenomeni connaturati al capitalismo. La crisi non è un accidente dello sviluppo capitalistico, ma il suo stato normale, perché ristabilisce le distinzioni di classe e la gerarchia tra Stati. In effetti non esiste il capitalismo, esistono i capitalismi nazionali. Il nazionalismo è la logica dell’accumulazione capitalistica.

È un punto di vista che, perfino per gli ottimisti, vale la pena di prendere in considerazione: per comprendere le forze reali sottese al montante nazionalismo; e come antidoto all’utopismo.

Dal crollo del Muro di Berlino l’ideologia e i programmi di governo del neoliberismo sono diventati egemoni, anche tra gli eredi politici del movimento dei lavoratori. Privatizzazioni, liberalizzazione del mercato del lavoro, adesione all’europeismo antisociale, finanziarizzazione dell’economia, abbandono della politica industriale, sottovalutazione dei conflitti d’interesse, sono stati i cardini di questo epocale cambiamento culturale e programmatico, che si è accavallato alla crisi economica mondiale del 2007-2008, alla rinascita dei conflitti statali anche all’interno dell’Europa (per esempio tra Francia e Italia, le politiche di austerità imposte ad alcuni paesi come la Grecia e l’Italia), all’allargamento a Est del sistema capitalistico e dell’alleanza militare della Nato.

In questo contesto economico e geopolitico caratterizzato da crescenti diseguaglianze sociali e statuali, i partiti progressisti, quando non hanno abbracciato in toto l’ideologia neoliberista, hanno tentato di trovare un riferimento culturale nel tema egualitario. Pochi sono gli autori e i libri che oggi potrebbero svolgere la funzione di un testo come quello della Luxemburg. Forse questo ruolo lo ha svolto Destra e sinistra di Norberto Bobbio (Roma, Donzelli). Perfino in alcuni degli autori italiani della stagione “blairiana”, cioè neoliberista, del riformismo, ritroviamo alcuni cenni al tema egualitario, almeno quello dell’eguaglianza dei punti di partenza (si veda L. Michelini, La fine del liberismo di sinistra, Fienze, Il Ponte Editore, 2008). Non è l’occasione di ricordare come tra i propositi e la politica economica concreta ci sia stato uno iato davvero notevole, tanto che il tema egualitario ha finito per costituire il programma delle ultime roccaforti della sinistra considerata più radicale (si veda L. Ferrajoli, Manifesto per l’eguaglianza, Roma-Bari, Laterza, 2018). Vorrei, invece, sottolineare il fatto che nel marxismo la tematica egualitaria non ha una rilevanza centrale. Perché Marx o Luxemburg non fanno dell’egualitarismo il centro del proprio ragionamento critico sul capitalismo e dei propri programmi economici e sociali? Cosa distanzia Marx/Luxemburg da un autore come F. Buonarroti, tra i padri intellettuali del Risorgimento italiano, tra i cospiratori che, caduto Robespierre, diedero vita allaCongiura degli eguali, infine il fondatore del comunismo con il suo classico testo Conspiration pour l’égalité (1828)?

Oggi è davvero difficile comprendere il punto di vista marxiano o luxemburghiano. È difficile perché le esperienze di socialismo e di comunismo realizzato (alcune ancor oggi in vita: Cina e Cuba) sono economie di mercato o addirittura sistemi economici che taluni studiosi definiscono “capitalismo di Stato”. È difficile perché la vita occidentale è radicalmente pervasa dal mercato e dalle leggi del profitto. È difficile perché le esperienze socialiste sembrano ripercorrere a tappe forzate, grazie allo Stato saldamente controllato dal partito comunista, le tappe dello sviluppo capitalistico: oggi è estremamente difficile pensare che scopo del socialismo sia il superamento non solo del capitalismo, ma anche del mercato. È quasi impossibile immaginare che siano esistite e possano esistere società non capitalistiche. L’accumulazione del capitale ci ricorda che invece è stato e sarà possibile.

Per il marxismo lo scopo finale non è quello di costruire una repubblica fondata sull’eguaglianza politica, economica e sociale, come pure gli economisti antisocialisti hanno ossessivamente imputato al movimento socialista di voler fare. La diseguaglianza che conta non è tanto quella di reddito e di ricchezza, ma quella economico-sociale, che le genera. La diseguaglianza fondamentale è quella della divisione in classi della società. Una divisione in classi che non è affatto Marx a inventarsi, ma che viene teorizzata e analizzata dai classici del pensiero liberale, come Smith, Ricardo, Sismondi, J.S. Mill. E che la divisione in classi generasse lotta, lotta di classe, ancora una volta non è Marx a inventarlo, ma i pensatori prima citati e il pensiero politico della borghesia rivoluzionaria francese.

Se il capitalismo è una nuova forma, se pur la più avanzata, di sfruttamento del lavoro, l’obiettivo del socialismo è il superamento dello sfruttamento. Se la preistoria dell’umanità è stata lotta di classi, la storia, cioè quella che il filosofo marxista Antonio Labriola definiva “il governo tecnico e pedagogico dell’intelligenza”, comincerà con il socialismo. L’obiettivo non è tanto quello di avere alti salari e uno stato sociale, che comunque sono fondamentali: come fondamentale è l’articolo 3 della Costituzione italiana. L’obiettivo è di superare il salariato come forma di remunerazione del lavoro. La teoria del valore di Marx non individua affatto una sorta di ideal-tipo a cui la società del futuro dovrà attenersi, come volevano Proudhon e i socialisti ricardiani, che come ideale avevano il socialismo di mercato. La teoria del valore di Marx disegna i contorni di una società fondata sullo sfruttamento e dunque si tratta di instaurare una società che deve superare la legge del valore descritta nel Capitale.

Utopia? Nelle pagine di Marx e della Luxemburg è vivissima la testimonianza di come mercato e capitalismo sono solo un modo particolare di produrre e di distribuire la ricchezza e che il mondo è vissuto su modi di produzione del tutto diversi. Sono testimoni della distruzione di questo mondo e del disastro sociale che questa distruzione ha portato: nel mondo occidentale, come nei paesi destinati a diventarne colonie o periferie imperiali. Al tempo stesso, essi hanno avuto anche la forza di non rimpiangere il tempo passato, come invece aveva fatto Sismondi, un autore che Luxemburg valorizza nel proprio libro, perché tra i primi a mettere in luce il problema della carenza di domanda pagante e a mettere al centro del discorso politico il proletariato. Non hanno avuto rimpianti, perché hanno colto con estremo rigore anche gli aspetti positivi del mercato e del capitalismo: cioè l’immensa capacità di aumentare le forze produttive del lavoro e di creare nuovi, potenziali spazi di libertà umana. Per Marx e i marxisti il problema della scarsità è stato tecnicamente risolto grazie al capitalismo: il problema della scarsità (di reddito, di risorse, di opportunità, di ricchezza) diventa un problema esclusivamente sociale grazie al capitalismo; che dunque ha fatto il proprio tempo e, in un modo o nell’altro che solo il concreto divenire potrà definire, ma sicuramente opponendo una resistenza violenta e tremenda, verrà superato nel socialismo.

Utopia, si dirà. Oggi appare tale. Domanda e offerta di lavoro appaiono per davvero leggi di natura, talmente cogenti da dover regolare persino la produzione della conoscenza. Eppure i progressi della tecnica sono andati ben più avanti che ai tempi di Marx e di Luxemburg. Perché, allora, non rendersi finalmente conto che utopistica è la realizzazione del pacifico mondo del liberismo, come già indicava Luxemburg? Furono necessari lo sconvolgimento della Prima guerra mondiale e della Rivoluzione bolscevica perché il giovane Antonio Gramsci acquisisse definitivamente la consapevolezza che il liberismo era un’utopia: possibile non salire sulle spalle dei giganti?

Conforta sapere che un altro autore, per altro liberale, che pose al centro della propria riflessione l’insufficienza di domanda pagante, alludo a J.M. Keynes, addirittura nel bel mezzo della Grande crisi degli anni trenta ebbe il coraggio di proporre il tema della scomparsa del problema della scarsità. Ed era stato sempre Keynes, a metà anni venti (di cui si veda, con prefazione di G. Lunghini e L. Cavallaro, Laissez-faire e comunismo), a ricordare che solo nei paesi più ricchi sarebbe valsa la pena tentare esperimenti di superamento del capitalismo, perché solo in essi vi erano le condizioni oggettive per farlo.

Utopia, in effetti. Abbandonati la lettera e lo spirito della Costituzione; abbandonati i propositi di economia regolata del migliore europeismo, quello del Manifesto di Ventotene; dilagati in tutta Europa i principi del liberismo: siamo oggi arrivati, probabilmente, a un punto di svolta, perché il nazionalismo economico ha l’occasione di una grande vittoria elettorale nel cuore dell’Europa. E si riaffaccia la possibilità moralmente inaccettabile che solo per la guerra l’umanità sia in grado di mobilitare una quantità davvero immensa di forze ideali e produttive.

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