Ordine giudiziario e indipendenza della Magistratura nella lezione di Piero Calamandrei

Calamandreidi Massimo Jasonni

Piero Calamandrei coglie da subito, già nei primi sviluppi scientifici delle sue ricerche giuridiche, l’importanza costituzionale del tema dell’indipendenza della magistratura. Poco più che trentenne ne parla, come oggetto specifico del suo ruolo di docente di Diritto giudiziario a Siena, in occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico. Ed è un preludio dell’Elogio dei giudici scritto da un avvocato[1]:

Questi magistrati che sono la voce vivente della legge e la incarnata permanente riaffermazione della autorità dello Stato, si accorgono che lo Stato agisce talora come se fosse il loro più aperto nemico: sentono che se vogliono seguitare a rendere giustizia, devono farlo, più che in nome dello Stato, a dispetto dello Stato, il quale […] fa di tutto per neutralizzare, per corrompere, per screditare […] l’opera loro. Tra Magistrati e Ministro della Giustizia si respira da un pezzo in qua un’atmosfera di reciproca ostilità, di mutuo sospetto […]. Essa sola, la magistratura, continua a battersi quotidianamente per la legalità, simile a un eroico esercito di veterani fedeli, che mentre nel paese le congiure politiche depongono il vecchio sovrano, continuano lungo il confine, fronte al nemico, ad immolarsi in nome di un re che più non regna[2].

Siamo nel 1921 e, per la precisione, al 13 novembre, un anno prima della marcia su Roma. Il tono risente di una chiara impronta idealistica, ma per rimanere ben adesivo al cuore pulsante della tripartizione montesquieuiana dei poteri.

La dialettica tra le sfere della Giustizia e della Politica, tra di loro veri e propri vasi comunicanti, è preziosa e va difesa da ingerenze dell’esecutivo rispetto alle quali l’analisi di Calamandrei è puntigliosa nel delineare quattro «tortuosi», ma in ogni caso perversi, sentieri:

il primo sentiero, quello definito dell’«ingerenza preventiva», determina dipendenza del Pubblico Ministero dal ministro di Giustizia, frutto di un’ipocrisia normativa: da una parte si afferma «che la legge è eguale per tutti», d’altra parte si concede «al potere esecutivo la possibilità di farla osservare [la legge] soltanto nei casi in cui non dispiaccia al partito che è al governo»[3];

il secondo sentiero è quello dell’«ingerenza successiva» degli atti governativi sull’operato della magistratura: è questo il caso delle ordinanze prefettizie o dell’allora Commissario degli alloggi che, «senza contraddittorio», concedevano a “consorti e amici” – di politici o di «turbe schiamazzatrici» al seguito di azzeccagarbugli – sospensione o caducazione di sentenze passate in giudicato[4];

il terzo sentiero è quello delle lusinghe e dei «favori dei governanti» con cui questi si ingraziano i giudici promettendo una felice, futura carriera o  «conferimento di incarichi speciali»;

quarto e ultimo sentiero è quello delle giurisdizioni speciali, ove vesti protagoniste assumono, nelle parole del Maestro, «avvocati politicanti, i cui intrighi sono il più delle volte sterili dinanzi ai tribunali ordinari […] ma trovano avanti ai giudici speciali il loro paradiso»[5]. Qui Calamandrei anticipa figure opache che oggi sinteticamente ritroviamo nella contemporaneità, forense ma non solo forense, come «faccendieri».

Gli antidoti proposti da Calamandrei sono rappresentati dall’autogoverno della magistratura, dall’affermazione del principio dell’inamovibilità, vuoi dei giudici vuoi dei pubblici ministeri, e dell’unità della giurisdizione. Per «sfollare» il parlamento da portatori di una confusione tra valori politici e interessi di consorteria Calamandrei pensa a un’incompatibilità tra l’ufficio di deputato e la professione di avvocato. E non manca di irridere nei confronti del programma di elezione popolare dei giudici, propugnato dal sol nascente di allora, che sostiene comporterebbe «il completo asservimento della giustizia alla politica»[6].

Calamandrei ritorna su questi temi, tra il 1945 e il 1946, all’interno dei lavori della Commissione Forti[7], quindi in sede di Assemblea costituente, ove viene chiamato alla Seconda sottocommissione. In tale veste il cattedratico, divenuto ordinario a Firenze di Diritto processuale civile ed eletto presidente del Consiglio nazionale forense, predispone la celebre Relazione sul potere giudiziario e sulla suprema corte costituzionale[8]. Nei preliminari di tale relazione appare cauto, ma per rivelarsi poi tanto perentorio, quanto fermamente allineato alle tesi sostenute negli anni venti. I confini invalicabili delineati al momento della prefigurazione della Costituzione della Repubblica afferiscono ai seguenti cinque punti:

affermazione incondizionata del principio di sovranità: la giurisdizione ha natura statuale e valenza costituzionale (art. 1). Essa non può patire limiti né territoriali (da parte, per esempio, delle istituende Regioni), né spirituali (da parte di tribunali ecclesiastici[9] su cui soffia il vento della reconquista católica e della riproposizione neotomistica o, se si preferisce, “neoguelfa” di un diritto naturale gerarchicamente sovraordinato a ogni altra fonte normativa);

affermazione del principio di unicità di una giurisdizione (artt. 12-14), entro cui possono istituirsi «sezioni specializzate», non già giurisdizioni ad hoc, quali quelle che il fascismo aveva legalizzato;

affermazione dell’autonomia della magistratura, quale «ordine indipendente» con poteri di «autogoverno» (art. 16), assoggettato unicamente alla legge (art. 2). Emergono qui i grandi motivi processualistici della «garanzia del giudice precostituito» (art. 5), della pubblicità delle udienze, del contraddittorio (art. 6), dell’obbligo di motivazione delle sentenze (art. 7) e – ultimo ma non ultimo – della «gratuità della giustizia» per gli indigenti (art. 11);

da queste premesse trae spunto la quarta enunciazione, ovvero quella che sottolinea l’indipendenza della giurisdizione in forza di garanzie di inamovibilità (art. 23) dal posto, dal grado e dalla sede e di autonomia amministrativa per istituzione di un Csm, composto da soli membri togati, e di «Consigli giudiziari regionali» a cui affiancare, per il giudizio sulla responsabilità dei magistrati, una «Suprema Corte disciplinare» e delle «Corti disciplinari regionali» (artt. 16-18). Sempre in quest’ottica dell’indipendenza si prospetta una retribuzione dei magistrati, che deve rispondere non tanto al grado o all’ufficio ricoperto, quanto all’anzianità (art. 22);

con l’ultimo punto Calamandrei insiste su quel «senso di assoluta tranquillità», che deve contraddistinguere la giurisdizione e che nulla culturalmente ha a che spartire con la dialettica parlamentare. Sicché vietare ai magistrati tessere di partito potrebbe significare attribuzione di massima distensione possibile e di massimo equilibrio all’esercizio dello juris dicere: il diritto «quando viene affidato al magistrato per la sua applicazione deve essere da lui visto come tale e non come era prima di divenirlo, quando era ancora politica»[10]. Qui si spiega perché Calamandrei parli di «ordine» e non di «potere»[11]: mentre le dinamiche parlamentari sono per definizione energiche, ovvero si alimentano in ragione della loro machiavellica possibilità di affermazione politica, l’applicazione del diritto si nutre di un superiore equilibrio, si avvale di un’armonia apollinea, per l’appunto di sentore greco. L’antico nómos sembra rivivere nel recupero profondo del pensiero platonico.

Dette considerazioni non valgono soltanto per la magistratura giudicante ma, fedeli all’impostazione unitaria di cui in 2, si pongono anche per la magistratura c.d. requirente. A tal fine militano motivazioni di convenienza e, in uno, ragioni sistematiche: si vuole evitare che i pubblici ministeri sospendano o ritardino l’esercizio del magistero punitivo, finendo per svilire pubblicità e obbligatorietà dell’azione penale (art. 8) e si vuole sottolineare che l’habitat del giudizio, sia in sede istruttoria sia in sede deliberante, è (e deve essere) sempre e solo il medesimo. Mentre ciò che caratterizza la vita del parlamentare e, più in genere, dell’uomo politico è il mandato ricevuto dagli elettori e l’appartenenza partitica, ciò che rende propria ed esclusiva la funzione del pubblico ministero, tal quale quella del giudice, è una specifica preparazione tecnico-giuridica comprovata dal superamento di un rigoroso concorso pubblico (art. 20). È proprio questa umile e severa fedeltà alla legge che consente all’autorità giudiziaria di avere alla propria dipendenza «esclusiva e diretta» la polizia giudiziaria (art. 25).

Le reazioni ostili a una così alta rilettura della storia del diritto occidentale non tardarono a manifestarsi in un paese prostrato dalla guerra e dilaniato dalle divisioni. Contro la posizione calamandreiana fecero fronte comune anime diverse, quali quelle della Dc e del Pci. La Dc, contestando in Calamandrei un preteso tradimento dello spirito liberale[12], mirava in realtà ad assicurarsi, in vista di futuri mandati governativi, il controllo dell’esecutivo sulla pubblica accusa[13]; il Pci, allergico a ogni forma di autogoverno, portava entro di sé gli esiti del V Congresso conclusosi il 6 gennaio del ’46[14] con l’auspicio di un sistema di reclutamento dal basso della magistratura requirente. De Gasperi era preoccupato per il rischio di approvazione di una Costituzione rigorosamente laica e ostile al modello economico insito nella stessa alleanza atlantica; Togliatti ambiva a un potere giudiziario a base popolare[15], aperto a prospettive rivoluzionarie sognate come imminenti e sorde al magistero gramsciano.

L’esito delle votazioni, quella in seno alla Commissione per la Costituzione del 30 gennaio ’47[16] e quella in Assemblea del 26 novembre ’47[17], è per Piero Calamandrei. Tuttavia, ad avere la meglio nell’agone costituente sono solo alcune delle posizioni sostenute dal Nostro, quelle più “autonomiste”, non già quelle di più marcato sapore laico. Infatti, l’accordo sull’art. 7 tra democristi e comunisti ribalta l’impostazione calamandreiana e trascrive il paradosso di una Costituzione, per un verso, antifascista, ma per altro verso di recupero del ventennio: l’art. 7 non solo pone tra i fondamenti della Carta il richiamo ai Patti del ’29, così rinnovando esperienze clerico-fasciste, ma riafferma in astratto il principio concordatario come argine della sovranità del diritto statuale.

Oggi quella notte della storia del paese, che Calamandrei stigmatizzò poi nei termini del tradimento della Costituzione, sembra riproporsi. I pericoli insiti in un asservimento della legge, quindi della magistratura, al potere politico sono ora quegli stessi di allora, e semmai acuiti da una dilagante corruzione. A favore della separazione delle carriere giudiziarie cantano le sirene berlusconiane, quelle che plaudirono ignominiosamente alle leggi ad personam; esse concorrono con Salvini nella riproposizione di inquietudini nazionalistiche e populistiche che chi ha il senso della storia ha bene in mente, e teme.

Il Pd sta pilatisticamente a guardare. Si divide al suo interno: c’è chi – naturalmente i renziani – non nasconde ostilità per il principio dell’indipendenza del PM e c’è chi, come l’attuale neosegretario, se ne sta bello zitto: nemmeno ritiene di doversi esprimere.

[1] I ed., Firenze, Le Monnier, 1935.

[2] Il testo della Relazione è ora riportato in Governo e magistratura, in Opere giuridiche, a cura di M. Cappelletti, vol. II, Napoli, Morano, 1966, pp. 216-217.

[3] Ivi, p. 202.

[4] Ivi, p. 206. Cfr., sul punto, più diffusamente A. Barbera, Calamandrei e l’ordinamento giudiziario: una battaglia su più fronti, relazione al Convegno Piero Calamandrei e la ricostruzione dello Stato democratico, Aula Magna dell’Università di Firenze, 18 febbraio 2006, ora in «Rassegna parlamentare», 2006, p. 359 ss.

[5] In Governo e magistratura cit., p. 214.

[6] Ivi, pp. 217-218.

[7] Gli atti della Commissione per Studi attinenti alla riorganizzazione dello Stato sono ora raccolti in Alle origini della Costituzione italiana, a cura di G. D’Alessio, Bologna, il Mulino, 1979, p. 620 ss.

[8] In Atti della Commissione per la Costituzione, II, Roma, Tipografia della Camera dei deputati, 1947, p. 200 ss.

[9] Cfr., sul punto, Alle origini della Costituzione italiana cit., p. 620.

[10] Atti dell’Assemblea costituente. Commissione per la Costituzione, a cura del Segretariato generale della Camera dei deputati, vol. VIII, Roma 1970, pp. 1893-1894.

[11] Sul punto, più diffusamente cfr. C. Mortati, Istituzioni di diritto pubblico, vol. II, Padova, Cedam, 1969, p. 1156 ss.

[12] Cfr., sul punto, l’intervento di G. Bettiol ora in Atti dell’Assemblea costituente cit., seduta pomeridiana del 26 novembre 1947, vol. V, p. 4115 ss.

[13] Cfr., sul punto, la relazione di G. Leone, ora in Atti della Commissione per la Costituzione, II, Roma, Tipografia della Camera dei deputati, 1947, p. 206 ss.

[14] Cfr. Sotto la bandiera della democrazia. Il programma del PCI approvato al V Congresso, Roma, Editori Riuniti, 1946.

[15] Ora in P. Togliatti, Discorsi alla costituente, Roma, Editori Riuniti, 1973, p. 16 ss.

[16] In Atti dell’Assemblea costituente cit., vol VI, p. 241.

[17] Ivi, seduta pomeridiana, vol. V, p. 4115 ss.

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