Salvini e il fascismo

Patti lateranensidi Massimo Jasonni

La Lega non costituisce un vago pericolo di ritorno di fiamma, ma di più: è un reale, incombente e grave pericolo per le sorti della Repubblica. Lo è stata fin da subito, quando Bossi evocava a sproposito Alberto da Giussano, e lo è tanto più ora, ora che lo spirito autonomistico della prima ora si è tradotto in clamore nazionalistico.

La pubblicistica, poteri forti e Pd a braccetto, sono soliti individuare il problema in una consonanza tra Salvini e Mussolini, che in realtà non c’è, o che meglio va chiarita nell’effettivo e differenziato sviluppo degli eventi storici. Rispetto alla primigenia popolarità del duce mancano, in Salvini, l’originario spirito socialista e il sangue romagnolo. In concorrenza con questi profili, manca al segretario della Lega di oggi l’anima laica che innervò il fascismo, fumando via solo alla volta dello sciagurato accordo del 1929 con il cattolicesimo romano. Questo suggeriscono il rosario brandito da Salvini, l’insistente richiamo alle radici religiose europee e – manco a dirlo – un silenzio assoluto sulla scuola che emerge dal dettato concordatario. Tuttavia, una siffatta distanza cela sostanziali affinità, che riguardano non tanto la persona fisica del condottiero, quanto il clima da cui prese forma lo stemma littorio: in comune si ravvisa una radice essenziale, rappresentata dalla frustrazione di larghi strati della compagine civile. Distinte le cause, che, nel primo Novecento, vennero dalla crisi che seguì la Grande Guerra e che, ora, prendono corpo in un crescente disagio sociale. La frustrazione di questi anni è cresciuta a dismisura col tradimento, sempre più marcato da parte del Pd, del progetto gramsciano e salveminiano, ovvero con la perdita di un’appartenenza democratica che, in Renzi e con il referendum, apparve addirittura clamorosa. La gente ha ben compreso i cedimenti a un’Europa lontana anni luce da quella che Spinelli aveva delineato a Ventotene; ha ben compreso la sudditanza a un modello economico sovranazionale a impianto criminosamente neoliberistico; ha vissuto sulla sua pelle l’aumento in progressione esponenziale della forbice che separa pochi troppo facoltosi dai moltissimi in condizione di indigenza.

Oggi non siamo nel 1922, ma sintomaticamente analoghe sono le condizioni di disagio che fertilizzarono, in allora, la dittatura. Una decadenza che, nel nome di Weimar, assunse veste esemplare.

Il ventennio prima del delitto Matteotti e dell’Aventino non fu, per dirla con Capitini, la mera riproduzione della corruzione, del vuoto morale e politico che preparò poi il successivo volto bellicista e sanguinario del nazifascismo; ma ne fu preparatorio. Fu il cosiddetto «fascismo di Starace», ridicolo, plateale e retorico. È qui, e su questo terreno, che si può e si deve ora vincere. Il nuovo consenso, in forza del quale la Lega potrà essere battuta, passerà non solo dalla formazione di una nuova classe dirigente, nata da una scuola pubblica riformata e capace di governo, ma ancor prima dal recupero di forze giovani intellettualmente “giacobine”, dotate di slancio etico e indenni dalle seduzioni di un ammorbante mercatismo. Forze diverse, tuttavia assimilabili a quelle che, nei primi anni trenta, alla Normale di Pisa posero le basi per un’intransigente ribellione che generò la Resistenza e si formalizzò nella Costituzione.

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