Il trasformismo oggi

di Giancarlo Scarpari

«Con Orban guideremo l’Europa», aveva annunciato Salvini il 15 settembre 2018; aveva poi affermato che la Lega avrebbe guidato l’Italia per i prossimi trent’anni e che in Europa “la Lega delle Leghe” avrebbe portato alla vittoria la rivoluzione sovranista per cancellare quell’austerità imposta da Bruxelles e patrocinata dai governi del Pd; e al termine di questa marcia avrebbe ottenuto un commissario economico di peso in una Ue finalmente rinnovata.

Ovviamente era mera propaganda, per di più basata su un grossolano falso storico, visto che la politica del rigore non era stata accettata solo dal Pd, ma, nel 2011-12, era stata sostenuta con decisione anche dalla Lega; e non da Bossi, si badi bene, ma proprio da Giancarlo Giorgetti, primo firmatario della legge attuativa del pareggio in bilancio.

Ma tant’è: tutti se la sono per anni bevuta, ivi compresi gli smemorati presunti oppositori; e la propaganda ha continuato (e continuerà) a mietere consensi in un paese immerso nel presente e nel quale i fatti vengono continuamente cancellati dalle parole in libertà.

In Europa, comunque, a Salvini è andata male. Non solo non vi è stato il previsto “ribaltone”, ma, lungi dal capitanare la Lega delle Leghe, si è trovato improvvisamente isolato: non solo Orban, il suo “eroe”, gli ha voltato le spalle, tornando sotto l’ala protettiva dei Popolari e ottenendo per questo la nomina del suo ex ministro della giustizia Trocsany a commissario europeo; ma anche Di Maio e Conte, con una prima piroetta, hanno contribuito, con voti “pesanti”, alla nomina di Ursula von der Leyen alla presidenza della Commissione Ue, lasciando Salvini, in pessima compagnia e con un pugno di mosche in mano, all’opposizione. Beffa finale era stata infine la nomina di David Sassoli del Pd a presidente del Parlamento europeo.

Il Capitano, allora, dismessi i panni abituali e indossati quelli del vassallo, si era precipitato a omaggiare Trump, affermando commosso: «È la mia prima visita alla Casa Bianca, sono emozionato e torno in Italia con una carica fenomenale»; aveva colto l’occasione per lanciare la sua proposta di Flax Tax al 15% («la prossima legge di bilancio dovrà essere trumpiana»); e questo, dopo avere dichiarato di condividere le richieste Usa al 99%: (su Iran, un paese che vuole cancellare Israele, su Guaidó, «fosse per me l’avremmo riconosciuto») e di essere disposto a ridurre il contributo dell’Italia all’Onu («troppa gente che magna anziché dare da mangiare a chi ne ha bisogno nel mondo»), fiero di schierarsi, dulcis in fundo, contro la «prepotenza cinese» nel mondo.

Poi, dopo aver tutto concesso, ha pagato per quell’1%. «Penso che sia meglio trattare con la Russia, piuttosto che regalarla alla potenza della Cina», aveva detto con cautela; ma il terreno era scivoloso e il suggerimento a qualcuno è parso forse inopportuno. Sta di fatto che il Capitano, malgrado gli auspici, è tornato dal viaggio a mani vuote, anche mediaticamente (non è stato neppure ricevuto da Trump, ma ha parlato solo con i suoi vice); e, per giunta, dopo due settimane l’agenzia americana Buzzfeed rendeva pubblica una conversazione svoltasi nell’ottobre 2018 tra l’abituale accompagnatore di Salvini, Gianluca Savoini, e alcuni emissari russi, da cui risultava essere in corso una trattativa con annessi fondi neri per circa 65 milioni di dollari, atti a finanziare la ormai prossima campagna della Lega per le elezioni in Europa.

Un guaio imprevisto; ma Salvini, reindossati prontamente i panni con cui si presenta in Italia, reagisce in modo maldestro e arrogante insieme: richiesto di chiarire l’episodio e i suoi rapporti con Savoini, contrariamente alle sue abitudini, evita i microfoni e comparsate varie e non sapendo che dire (si tratta, dichiara, di una «non notizia»!), non si presenta alle Camere, né risponde al presidente del Consiglio, che compare in aula in sua vece, rimarcando il fatto. In compenso, per sviare l’attenzione grazie ai media compiacenti, convoca per quei giorni le parti sociali al Viminale (!) per presentare la Flat tax al 15%, cioè la proposta elettorale ideata dall’ex sottosegretario Siri; e questi, da poco dimessosi dall’incarico per via di un’accusa di corruzione, si siede prontamente al tavolo coi convenuti per illustrare la brillante iniziativa.

Ovviamente né la vicenda moscovita, né la nuova inchiesta penale a carico del fido collaboratore incidono sulla popolarità dell’uomo forte, che continua anzi ad aumentare i consensi (da noi va così); ma se per raccontare agli italiani la favola dei porti chiusi, il Capitano aveva assunto, di fatto, poteri propri dei ministeri dei Trasporti e della Difesa, ora, convocando le parti sociali al Viminale, giunge a occupare i ruoli propri del presidente del Consiglio e dei ministri economici, Di Maio e Tria in particolare.

I diretti interessati inizialmente reagiscono con cautela, “interpretando” quei comportamenti e cercando di minimizzarne la portata, malgrado gli stessi stravolgano basilari principi costituzionali; il «Corriere», che abitualmente si indigna per gli strappi allo Stato di diritto quando avvengono in Ungheria o in Russia, questa volta registra l’anomalia e passa oltre; i rappresentanti delle «40 parti sociali» convocate, sindacati compresi, vanno invece a sentire le proposte elettorali al Viminale, legittimando così l’ennesimo abuso.

Vista la mancanza di reazioni dirette, Salvini non si ferma più: dapprima incassa il decreto di sicurezza bis, che gli consente, tra l’altro, di acquisire, giuridicamente, quelle competenze dei ministri dei Trasporti e della Difesa di cui già si era impossessato in via di fatto; poi si scontra con Tria («Nel governo o io o lui»), quando il ministro dell’Economia, sotto lo scudo di Mattarella, gli spiega che non vi sono spazi per realizzare la trumpiana riforma delle tasse; infine, con un colpo di teatro, chiede in piazza i pieni poteri («per fare quello che abbiamo promesso senza palle al piede») e presenta in Parlamento la mozione di sfiducia a Conte, pretendendo di votarla il 14 luglio, per poter andare a elezioni a fine settembre o all’inizio di ottobre.

La richiesta dei pieni poteri sembra eccessiva anche ai paludati commentatori del «Corriere» e del «Sole-24 ore»; il messaggio lanciato da un ministro che ama farsi fotografare con un mitra, un fucile e una pistola elettrica evoca anche tra i “moderati” sgradevoli ricordi; né il contesto vacanziero – la spiaggia, i selfie, le cubiste e gli svaghi del figlio che gioca sulla moto d’acqua della polizia – attenua l’impatto del proclama, tanto più che il mese di agosto è quello tradizionalmente adatto ai “colpi di mano”.

Senonché qualcosa deve essere sfuggito al Capitano decisionista, che diventa improvvisamente confuso e incerto. Doveva indicare il proprio candidato a commissario europeo, ma se ne dimentica (o non sa chi scegliere o teme una clamorosa bocciatura), per cui il posto toccherà all’inviso Gentiloni; prefigura inoltre un percorso rapido e rettilineo verso le elezioni, ma finge di ignorare che lo scioglimento delle Camere è prerogativa presidenziale e che Mattarella non è Toninelli; non considera infine che, al di là delle chiacchiere o delle speranze, in Parlamento vi è una maggioranza di nominati – tra i 5 Stelle e il Pd, soprattutto – che in caso di elezioni mai tornerebbero alle Camere, per cui contrastare il voto è per loro una necessità.

Su questi interessi materiali si sviluppano rapidamente quei trasformismi che consentono al presidente della Repubblica di raggiungere l’obiettivo politico di impedire una traumatica fine della legislatura. Quando Salvini si accorge che una maggioranza numerica si sta formando contro di lui è troppo tardi: si precipita allora a ritirare la mozione di sfiducia, offre a Di Maio un profondo “rimpasto”, promuovendolo a presidente del Consiglio, archiviando precipitosamente la perentoria richiesta di elezioni (salvo poi rinnovarla rumorosamente una volta persa la partita); ma il processo ormai si è messo in moto e Conte, ispirato da Mattarella, abbandonata la veste di esecutore del contratto e indossata quella propria di presidente del Consiglio, presenta il conto al suo vice e solo dopo va a rassegnare le dimissioni al capo dello Stato.

L’operazione si definisce poi ulteriormente con l’alleanza a termine stabilitasi tra Renzi (e i suoi gruppi parlamentari) e Zingaretti (che non potendo andare alle elezioni se li deve di conseguenza tenere), con l’approvazione dell’improvviso abbraccio tra M5S e Pd da parte della piattaforma Rousseau (e la rimozione, almeno nell’immediato, delle accuse e degli insulti registrati in tutti questi anni) e con la presentazione, infine, di un nuovo governo, sempre a guida Conte, incaricato di elaborare una perigliosa manovra di bilancio, di cui non si vede peraltro traccia concreta nell’ecumenico discorso di investitura.

In tal modo si è evitato che Salvini come ministro dell’Interno portasse il paese alle elezioni e probabilmente le vincesse, ponendo una seria ipoteca sui futuri sviluppi istituzionali, elezione del presidente della Repubblica compresa; se poi da questa maggioranza numerica uscirà un governo in grado di affrontare i problemi del paese e di reggere alla “guerriglia” che una destra rabbiosa e turbolenta ha promesso nel Parlamento e nelle piazze, si vedrà subito, con il varo della prossima legge di bilancio. Ma già si sa che, in caso negativo, non sarà concessa una prova di appello.

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