La via portoghese e il vicolo italiano

portogallodi Luca Onesti

[Articolo apparso sulla rivista Il Ponte  numero 8-9 2016  Populismo, democrazia, insorgenze. Forme contemporanee del politico]

In copertina, «L’Espresso» del 30 marzo 1975 titolava: La via italiana e il vicolo portoghese. Nell’Italia in cui si apriva la via del “compromesso storico”, si guardava alla Rivoluzione portoghese del 25 aprile 1974 e agli sviluppi del Prec («Processo rivoluzionario in corso») del dopo-rivoluzione militare, con il timore che il Partito comunista portoghese, con il suo leader Álvaro Cunhal, potesse muovere, insieme al Mfa (il Movimento delle Forze Armate) i fili di una rivoluzione che, dopo la nazionalizzazione delle banche e delle compagnie di assicurazione, sembrava avviata, in maniera tumultuosa, verso l’occupazione delle terre e l’autogestione delle fabbriche, dunque verso la creazione di uno Stato socialista in Europa occidentale. Un vicolo cieco, faceva notare giustamente, per amore di «chiarezza e non per un invito alla moderazione», Massimo L. Salvadori sempre su quel numero dell’«Espresso»: era improbabile un sostegno dell’Urss (che, ricordiamo, aveva rinunciato a sostenere il Cile di Allende meno di due anni prima), e l’influenza degli Stati Uniti nell’area geografica atlantica era difficile da mettere in discussione. Si sarebbe andati incontro quindi con ogni probabilità, secondo Salvadori, soltanto a un rinnovamento democratico borghese. Così fu, ma si sarebbe dovuti passare attraverso un’altra data significativa, quella del golpe del 25 novembre 1975, che con la caduta del capo del governo del militare Vasco Gonçalves e con l’ascesa al potere del cosiddetto «Gruppo dei Nove», significò una svolta a destra della rivoluzione, la fine del Prec, l’inizio della fase costituente e poi della fase della democrazia portoghese che dura fino a oggi, caratterizzata dalla conventio ad excludendum del Partito comunista, che non sarebbe mai più andato al potere nel governo nazionale né tantomeno avrebbe più appoggiato, seppur dall’esterno, alcun governo.

Oggi questa prassi della politica portoghese, nella ricorrenza dei quarant’anni da quella data, si può dire finalmente superata, visto l’accordo stretto tra Partito comunista, Blocco di Sinistra (Bloco de Esquerda), Partito ecologista I Verdi da una parte, e Partito socialista dall’altra, che ha portato, dopo la lunga fase di crisi istituzionale che è seguita alle elezioni del 4 ottobre 2015, al governo socialista di António Costa, insediatosi il 26 successivo novembre con l’appoggio esterno dei due partiti della sinistra cosiddetta “radicale”.

A rileggere oggi quel titolo dell’«Espresso», e a voler forzare un parallelo con l’oggi, nonostante la batosta delle recenti elezioni amministrative, c’è pur sempre chi scriverebbe che la via maestra è quella tracciata da Renzi in Italia, e che quello portoghese, che riporta un partito anacronistico, il Pcp, a sostegno di un governo “frentista” dopo quattro anni di centro-destra e di austerità selvaggia, è di nuovo soltanto un vicolo cieco. Ma a guardare le cose dal Portogallo si ha un’altra percezione.

Sfide e difficoltà del nuovo governo

Prima ancora che il nuovo governo vedesse la luce, i deputati dei tre partiti di sinistra avevano già prodotto in parlamento il primo risultato importante, approvando la legge sulle adozioni per le coppie dello stesso sesso. L’iter parlamentare si è poi prolungato per l’opposizione del presidente della Repubblica, Cavaco Silva, che si è infine trovato costretto a promulgare, dopo un primo veto, il progetto di legge.

Appena insediatosi, il governo Costa si è proposto, pur non mettendo in discussione gli impegni assunti in sede europea, di mettere fine all’austerità e di riorientare le politiche economiche in direzione della domanda e della riduzione della disoccupazione. Tra le altre misure, è stato aumentato il salario minimo da 505 a 530 euro mensili, con la prospettiva di arrivare a 600 euro a fine legislatura, si è proceduto all’aggiornamento delle pensioni al valore dell’inflazione, alla riduzione della sovrattassa sull’Irs (l’equivalente portoghese dell’Irpef) e sono stati “restituiti” ai portoghesi i giorni festivi che erano stati soppressi. Il tema delle privatizzazioni è tornato centrale: se il governo uscente, a elezioni già avvenute, aveva tentato un irresponsabile colpo di coda, approvando in fretta e furia la privatizzazione del Tap, la compagnia aerea nazionale, il governo Costa è tornato indietro, per quanto possibile, riservando allo Stato la proprietà del 50%. I contratti di subconcessione delle varie aziende di trasporti, per esempio quelli della metropolitana di Lisbona e di Porto, sono stati annullati, anche se bisognerà affrontare le pur legittime rivendicazioni delle società interessate.

A pochi mesi della sua nascita, però, il nuovo governo portoghese si è trovato più di una volta ad affrontare delle questioni spinose. La crisi della Banca Banif a inizio anno ha avuto una soluzione di tipo conservatore: la banca è stata infatti salvata con denaro dello Stato, per essere poi prontamente svenduta a dei privati, gli spagnoli del Santander Totta. E questa volta Costa, vista l’opposizione del Partito comunista e del Bloco de Esquerda, ha dovuto chiedere l’appoggio parlamentare del centro-destra. A giugno è stata invece la difficile situazione economica della banca pubblica Caixa Geral dos Depositos a destare preoccupazione: in questo caso la strada che probabilmente si intraprenderà, da parte dello Stato, che è azionista, sarà quella della ricapitalizzazione.

L’approvazione del bilancio 2016, a seguito della complessa trattativa condotta in Europa, è stata il segno che alcuni equilibri a Bruxelles stanno forse cambiando e che si vanno delineando alleanze fino a poco tempo fa difficili da immaginare: si è guardato per esempio con molto interesse, da Lisbona, proprio alle posizioni assunte da Matteo Renzi in sede europea e si è attesa, invano, una soluzione “alla portoghese” della crisi spagnola, con un fronte delle sinistre a sostegno di un governo socialista. Sul piano politico interno, a ogni modo, l’approvazione del bilancio è stata una dimostrazione di stabilità dell’accordo raggiunto dai partiti di sinistra: quella che l’ex vicepremier Paulo Portas aveva definito una «geringonça» (termine caratteristico per designare, in portoghese, un progetto campato in aria, frutto di un assemblaggio di cose diverse tra loro) ha dimostrato di poter funzionare.

Arriviamo così alla cronaca recente: entro luglio la Commissione europea deciderà se comminare o meno a Spagna e Portogallo le sanzioni per l’eccesso del deficit dell’anno 2015. Sanzioni che, quando si è trattato dello sforamento di Francia e Germania, non sono state adottate e che sarebbero, secondo la coordinatrice del Bloco de Esquerda Catarina Martins, una vera «dichiarazione di guerra al Portogallo»: tali sanzioni potrebbero anche aprire alla possibilità di un referendum contro questo «ricatto» che, se portato a termine, si ripercuoterà sul bilancio del 2017.

La strategia di concedere al Partito socialista il solo appoggio esterno senza assumere direttamente incarichi di governo, garantisce i due maggiori partiti radicali dallo spettro di dover cedere su tutta la linea, così com’è successo in Grecia a Syriza. È vero che Costa ha dimostrato di avere la capacità di trovare un “accordo” con Bruxelles, ma il problema con cui questo governo sostenuto dalle sinistre si accinge a fare i conti si ripropone intatto: è possibile anche solo una timida attenuazione dell’austerità senza affrontare la questione della rinegoziazione del debito? L’Europa non reagirà con la stessa durezza con cui ha piegato la Grecia? E, pur cautelandosi con l’appoggio esterno, non temono i partiti di sinistra portoghesi, nel caso le cose vadano male, di scivolare nello stesso vicolo cieco e senza ritorno in cui è finita la sinistra italiana, dopo l’uscita di Rifondazione comunista dal governo Prodi?

Una crisi politica durata 51 giorni

Più che fare pronostici disillusi preferiamo però fare un passo indietro e raccontare la nascita, niente affatto scontata fino al giorno prima, di questo governo e di come gli accordi stretti a sinistra tra il Ps da una parte e il Be e il Pcp dall’altra, abbiano praticamente dato scacco matto al riluttante presidente della Repubblica Cavaco Silva, che tutto avrebbe voluto meno che chiudere la sua lunga carriera istituzionale dando l’incarico a un governo di sinistra.

Le elezioni del 4 ottobre hanno restituito in un quadro complicato le contraddizioni ma anche e soprattutto la disillusione del paese dopo il precedente governo di centro-destra: l’astensione al 43,1% era ai massimi storici, i due partiti di governo, il Partito Social Democratico (Psd) dell’ex premier Pedro Passos Coelho e il Partito del Centro Democratico SocialePartito Popolare (Cds-Pp) dell’ex vicepremier Paulo Portas, riuniti nella coalizione dal nome giovanilistico Portugal à Frente (PàF), insieme hanno preso meno voti di quelli che aveva preso il solo Psd alle precedenti elezioni, raggiungendo comunque la maggioranza relativa con il 38,5%. Il Partito Socialista, dato per vincente fino a meno di un anno fa, raggiungeva solo il 32,4% mentre il Bloco de Esquerda arrivava al buon risultato del 10,2%. Stabile invece la Cdu, la coalizione che riunisce il Partito Comunista portoghese e il Partito Ecologista dei Verdi, con l’8,3% dei voti. Tra i piccoli si distingueva unicamente il Pan (PessoasAnimaisNatura) con l’1,4%.

Chi aveva vinto le elezioni? Per rispondere a questa domanda si sono dovuti attendere 51 giorni. La traduzione di questo risultato elettorale nella composizione dell’arco parlamentare, secondo il sistema elettorale di tipo proporzionale vigente in Portogallo, dava un quadro frammentato, nessuna maggioranza assoluta e quindi una grande difficoltà nel formare un governo stabile. Gli avvicinamenti tra la coalizione di centro-destra e il Partito Socialista, nel tentativo di formare un governo di larghe intese (in Portogallo chiamato «blocco centrale») non sono andati a buon fine, mentre, subito dopo le elezioni, sia il leader del Partito Comunista Jerónimo de Sousa che la portavoce del Bloco de Esquerda Catarina Martins hanno avviato una serie di incontri con la dirigenza del Partito Socialista, per giungere infine a un accordo programmatico che, pur lasciando intatte le differenze, molto grandi, tra i tre partiti, giungeva a una ben definita piattaforma minima comune.

Eppure, nonostante il fatto che a poca distanza dalle elezioni queste forze politiche, sulla base della loro rappresentanza parlamentare, avessero aperto alla possibilità di appoggiare un possibile governo socialista guidado da António Costa, il presidente della Repubblica Cavaco Silva, già primo ministro di centro-destra dal 1985 al 1995, incarica di formare un governo il premier uscente Pedro Passos Coelho. Il discorso con cui il 22 ottobre il presidente ha annunciato alla nazione la sua decisione era un atto di aperta ostilità nei confronti della prospettiva di un governo di sinistra e della maggioranza parlamentare che si era andata formando in parlamento:

In 40 anni di democrazia, nessun governo in Portogallo è mai dipeso dall’appoggio di forze politiche anti-europeiste, di forze politiche che chiedono di abrogare il Trattato di Lisbona, il Fiscal Compact, il Patto di crescita e di stabilità, lo smantellamento dell’unione monetaria e di portare il Portogallo fuori dall’Euro, oltre che fuori dalla Nato, di cui il Portogallo è membro fondatore. Dopo aver affrontato il programma di assistenza finanziaria, con pesanti sacrifici, è mio dovere, e rientra nei miei poteri costituzionali, fare tutto ciò che è possibile per prevenire l’invio di falsi segnali alle istituzioni finanziarie, agli investitori e ai mercati.

Si giungeva ai limiti dell’eversione dei principi costituzionali e ai limiti del golpe, come alcuni hanno fatto notare da sinistra. I deputati del Ps, per di più, venivano invitati alla dissidenza per sostenere il nuovo governo. Eppure questo non accade: il governo, il più breve della storia repubblicana, dura soltanto 11 giorni. A questo punto, visto anche che il presidente della Repubblica era giunto alla fine del suo mandato, entrando nel cosiddetto “semestre bianco”, il periodo in cui cioé al presidente non è più consentito di sciogliere il parlamento per indire nuove elezioni, la prospettiva di un governo socialista guidato da Costa diventa l’unica praticabile. Ma più l’alleanza a sinistra si fortificava, più si rafforzavano le resistenze interne al paese, da parte della Confindustria, di parte dei media, soprattutto quelli televisivi, persino da parte della stessa Chiesa, ed esterne, da parte delle istituzioni europee e di singoli Stati (la Spagna di Rajoy in particolare). In questo frangente, il presidente della Repubblica continua a temporeggiare, arrivando a dichiarare che non ci sarebbe stato nulla di strano se si fosse deciso di nominare un governo di gestione per alcuni mesi. Finché, il 24 novembre, il presidente Cavaco Silva è costretto a cedere e a dare così l’incarico a Costa, non senza però presentargli, proprio il giorno precedente, un documento scritto con sei condizioni. Tra le altre: l’approvazione del bilancio per il 2016, il rispetto degli impegni internazionali del Portogallo nell’ambito delle organizzazioni di difesa collettiva, il ruolo del Consiglio permanente di concertazione sociale, la stabilità del sistema finanziario.

Una iniziativa, quest’ultima, che alcuni commentatori riconducono al ruolo istituzionale del presidente. Tra gli altri, Marina Costa Lobo, ricercatrice all’Università di Lisbona ed esperta di Istituzioni politiche e comportamenti elettorali in una prospettiva comparatista, ha sostenuto che il ruolo del presidente in un regime semipresidenziale, in occasione di governi minoritari, è quello di contribuire alla loro stabilità. Chiedendo a Costa di chiarire gli accordi relativi al bilancio 2016 e agli impegni europei, Cavaco si sarebbe proposto in realtà di facilitare il prossimo primo ministro nell’imporre la propria volontà dentro la sua coalizione di incidenza parlamentare.

Quello che ci preme sottolineare, però, è che questa crisi istituzionale ha mostrato quanto l’architettura costituzionale della Repubblica portoghese sia stata sotto pressione, e dunque quanto sia fragile e al tempo stesso resistente (ricordiamo che il limite ultimo all’interventismo di Cavaco Silva è stato l’istituto del “semestre bianco”): già esautorata dai trattati europei e dalle pressioni esterne, essa è stata fortemente messa in discussione anche da alcune delle forze politiche interne, e dallo stesso presidente della Repubblica, che si è fatto garante della limitazione della sovranità dello Stato portoghese, in contrasto con l’organo parlamentare, pur sempre collocato al centro del sistema di equilibri repubblicano.

Non a caso, subito dopo il suo fallimentare tentativo di dare vita a un nuovo governo, Passos Coelho ha proposto al Ps di approvare rapidamente in parlamento proprio la revisione della norma costituzionale che prevede il “semestre bianco”, al fine di andare verso nuove elezioni. Una proposta prontamente respinta al mittente da parte dei socialisti.

In modo surreale, in occasione della formazione del governo Costa, si è arrivati a gridare al golpe anche da destra. Ma si può definire un golpe quello in cui le forze parlamentari, in un sistema dove vige il proporzionale, hanno trovato un accordo e assicurano la stabilità al governo?

Le elezioni presidenziali del 23 gennaio

Dopo un governo di centro-sinistra, un presidente della Repubblica di centro-destra. Probabilmente, quando a febbraio 2015 molti sguardi europei e non solo si sono indirizzati su Lisbona per l’approvazione del bilancio dello Stato, la situazione di equilibrio complessivo che era uscita dalle due tornate elettorali portoghesi degli ultimi mesi finisce con l’essere valutata in maniera positiva: il ruolo del presidente della Repubblica viene visto cioé come un contrappeso rispetto a un governo con baricentro a sinistra.

D’altra parte, il Partito socialista sembra aver fatto tutto il possibile per perdere le elezioni presidenziali del 23 gennaio 2016.

Mentre la candidatura di Marcelo Rebelo de Sousa ha visto la convergenza (un po’ distaccata solo per calcolo) delle due forze di centro-destra, la sinistra ha visto un disordinato fiorire di candidature di varia natura. L’unico sfidante che avrebbe potuto disputare per la vittoria (e forse anche vincere, se si fosse andati al secondo turno) era António Sampaio da Nóvoa, professore universitario e rettore onorario dell’Università di Lisbona, il quale, oltre al sostegno di diverse personalità importanti della politica portoghese (uno su tutti, l’anziano leader socialista Mario Soares), aveva l’appoggio di una parte del Partito socialista. Il suo risultato è stato in effetti superiore alle aspettative, con il 22,8% dei consensi ottenuti grazie a un’ottima campagna elettorale. La candidatura della socialista Maria de Belém è invece da leggere come una sfida da parte dell’ala destra del Partito socialista, quella di António José Seguro, ad António Costa. Il misero 4,2% ottenuto dalla candidata, che si è distinta per le alte spese di propaganda e per diversi attacchi agli avversari, parla da sé: Costa vince così un’altra importante partita, quella interna al Ps.

Il Partito comunista portoghese, dal suo lato, con la candidatura di Edgar Silva, ha riportato un risultato negativo, con il 3,95% dei voti. Una figura degnissima quella di questo ex parroco nell’isola di Madeira che ha dedicato larga parte della sua vita all’impegno sociale, ma poco televisiva.

Il Bloco de Esquerda riporta invece un ottimo 10,1% con la candidatura di Marisa Matias, già riconosciuta europarlamentare, particolarmente vicina ai movimenti di sinistra, e in particolare allo spagnolo Podemos.

L’estrema frammentazione a sinistra si è accompagnata all’altissima astensione (oltre il 50%) e ne è stata in parte la causa. Non sarebbe stato infatti difficile, con una strategia più coerente, rosicchiare i pochi voti che hanno permesso a Marcelo Rebelo de Sousa di arrivare al 52%, evitando il secondo turno.

Due parole, infine, sul nuovo presidente della Repubblica. Nato nel 1948, professore di diritto all’Università di Lisbona, Marcelo Rebelo de Sousa ha militato e ricoperto diverse cariche nel Psd, fino a diventarne presidente, dal 1996 al 1999. È stato anche Segretario di Stato alla presidenza del Consiglio nel 1981 e poi ministro agli Affari presidenziali nel 1982. La sua carriera giornalistica lo ha visto direttore di alcuni giornali e poi notissimo commentatore televisivo, prima per la Tvi e poi la televisione di Stato Rtp. Il padre di Marcelo, Baltasar Rebelo de Sousa, politico e più volte ministro durante il regime dello Estado Novo, era amico intimo di Marcelo Caetano, successore di Salazar, ultimo primo ministro del regime. Fu proprio Caetano ad accompagnare all’ospedale la madre dell’attuale presidente della Repubblica il giorno in cui venne dato alla luce, e il nome di Marcelo fu scelto appunto in onore di quell’amicizia.

Quando nella notte elettorale Marcelo Rebelo de Sousa ha annunciato la vittoria dalla location inusuale (e di certo non casuale) della Facoltà di diritto dell’Università di Lisbona si sono capite due cose. La prima è che in Portogallo questa volta aveva vinto una destra dalle radici tenaci, salde, che sono andate al di là del cambiamento di regime e che a maggior ragione permangono immutate nonostante l’avvicendarsi dei governi. La seconda è che anche in Portogallo è arrivata e si è compiuta quella che in Italia non è da tempo una novità, e cioé la preponderanza del ruolo dei media nelle campagne elettorali. Di certo aiutato dall’astensione altissima e dalla pessima strategia del centro-sinistra, Marcelo Rebelo de Sousa, con una campagna low cost, senza manifesti né comizi, senza mettere sul piatto della bilancia null’altro che la propria notorietà televisiva, è riuscito a vincere al primo turno. Il passo verso una “mediocrazia” può dirsi pertanto compiuto anche in Portogallo: come ha scritto il commentatore Daniel Oliveira, da ora in poi «non sarà più in seno alla società civile o all’interno delle macchine partitiche che saranno scelti i candidati, bensì nella classe politico-mediatica che ha una presenza assidua nel mezzi di comunicazione sociale».

Partito Comunista Portoghese e Bloco de Esquerda: due modi diversi di essere sinistra

Non c’è spazio in quest’articolo per considerare nella loro complessità quelle che, nella presentazione di questo numero vengono definite «insorgenze democratiche». Sarebbe necessario quanto meno percorrere la storia recente dei movimenti portoghesi che si sono opposti alla Troika, in alcuni momenti in maniera decisa, in altri più affievolita, nei quattro lunghi anni in cui essa ha controllato i conti dello Stato portoghese. Ma anche questo non basterebbe: il discorso richiederebbe anche in quel caso di essere ampliato, per parlare del movimento per l’abitazione, per esempio, oppure del movimento Lgbt, fino ad arrivare a riconsiderare, ancora una volta, il periodo rivoluzionario immediatamente successivo al 25 aprile 1974.

Quello che riteniamo utile, in questa sede, è soffermarci sui due partiti di sinistra protagonisti dell’accordo, inedito per la democrazia portoghese, che ha portato al governo António Costa, al fine di sottolineare la loro specificità rispetto ad altre esperienze della sinistra europea (in Portogallo il sistema politico rimane molto più “conservatore” che altrove), ma allo stesso tempo per individuare degli elementi utili per un confronto con la tematica “populismo-democrazia-insorgenze”.

Il Partito comunista portoghese, fondato nel 1921 come quello italiano, è stato il maggiore e più organizzato oppositore del regime salazarista fino alla Rivoluzione del ’74. Lontano dal governo negli anni della democrazia, ha una base di 60.000 iscritti ed è molto radicato nei luoghi di lavoro, insieme al sindacato Cgpt, il maggiore del paese. Da anni si presenta alle elezioni insieme al Partito ecologista I Verdi nella coalizione denominata Cdu (Coligação Democrática Unitária). I risultati elettorali per il Pcp negli ultimi anni sono variati di poco: se si va a guardare collegio per collegio, si può notare una differenza di poche migliaia di voti tra una tornata elettorale e l’altra.

Il Bloco de Esquerda è invece un soggetto politico nato di recente, nel 1999, che si può definire come appartenente alla famiglia dei partiti della sinistra libertaria: esso mescola infatti il tradizionale orientamento verso politiche socialiste e di implementazione del Welfare State con i temi cosiddetti post-materialisti incentrati sui diritti di cittadinanza, i diritti civili e individuali così come sull’importanza delle questioni di genere, dell’ecologia, della lotta alla discrimazione razziale, del pacifismo e delle politiche progressiste sulle droghe. Se i legami con il sindacato non sono così forti come nel caso del Pcp, il Bloco attrae sicuramente i voti e le simpatie dei precari, e in generale delle fasce giovani delle aree urbane. Da notare anche che il Bloco nasce prima di Syriza e di Podemos, e ha in qualche modo anticipato queste formazioni nei programmi e nello stesso approccio alla politica.

Secondo il ricercatore italiano Marco Lisi, dell’Universidade Nova di Lisbona, «malgrado la rete strutturale informale adottata dal partito appena creato, il Be ha mostrato un alto livello di coesione e centralizzazione», per cui «l’esecutivo del partito può disporre di un potere considerevole, per lo più concentrato nelle mani dei leaders»1.

E se le campagne elettorali, in un sistema semi-presidenziale come quello portoghese, sono già altamente personalizzate e incentrate sui candidati piuttosto che sui partiti, il Be ha fatto della esposizione dei leaders nei mass media una strategia esplicitamente perseguita. Avvalendosi spesso anche della capacità di riuscire ad assumere, pur non avendo incarichi di governo, un ruolo decisivo attraverso tutta una serie di proposte parlamentari su importanti temi progressisti, che spesso hanno visto la convergenza del Partito socialista e del Partito comunista. Una su tutte, la legge sull’aborto del 2007.

Se negli anni i risultati sono stati altalenanti, e ultimamente il Bloco è stato considerato in crisi, il successo dell’ultima tornata elettorale si deve tutto, probabilmente, alla dirigenza uscita dal IX Congresso, e riconfermata dal recente X Congresso del giugno 2016, che ha visto l’elezione a coordinatrice unica di Catarina Martins. Oltre alla competenza, fondamentale è stata la capacità di veicolare verso il pubblico le critiche al precedente governo di centro-destra, accompagnandole, in maniera chiara, con proprie proposte alternative.

Un esempio su tutti è stata la grande esposizione mediatica che ha avuto l’economista ventottenne Mariana Mortágua nella Commissione di inchiesta parlamentare sul Banco Espirito Santo, il maggior gruppo bancario del paese che, nell’estate del 2014, ha trascinato nel maggior collasso della storia portoghese tutto il relativo gruppo finanziario, di cui è a capo una delle famiglie più influenti del Portogallo (sempre su quel numero dell’«Espresso» di quarant’anni fa citato in apertura, è visionabile l’elenco delle sei famiglie portoghesi in mano alle quali si concentrava allora il potere economico: prima tra queste proprio la famiglia Espirito Santo). Anche qui, non si è trattato solo di un lavoro attento e puntiglioso in sede parlamentare: a fare la differenza è stata la capacità di mettere insieme i moltissimi tasselli di una vicenda complessa, di individuare le responsabilità, di incalzare il governo e gli organismi di controllo e, al contempo, di comunicare tutto ciò alla gente, spiegando e ponendo degli interrogativi pubblici.

Si può dunque parlare di populismo di sinistra in Portogallo? In qualche modo sì, anche se con aspetti ben delimitati. Bisogna sottolineare però soprattutto il fatto che il governo Costa è probabilmente il governo più “parlamentare” della storia della democrazia portoghese. L’istituzione parlamentare che, come abbiamo raccontato, durante la crisi politica è stata oggetto di spinte volte a esautorarla dei suoi poteri costituzionali, nei primi mesi di questo governo ha riacquistato infatti un’importanza centrale come luogo di negoziazione tra i tre partiti di sinistra sulle singole proposte. E anche questa è una novità su cui la situazione portoghese ci invita a riflettere2.

1 M. Lisi, New politics in Portugal: the rise and success of the left bloc, «Pôle Sud», 2009/1 (n. 30). L’articolo è consultabile al seguente indirizzo internet: www.cairn.info/revue-pole-sud-2009-1-page-127.htm

2 Si ringrazia Isabella Razzuoli per i suggerimenti riguardo ai documenti consultati per la realizzazione dell’articolo. Trattando di eventi ancora in corso, è importante ricordare che questo articolo è stato aggiornato e definitivamente chiuso per la stampa il 14 luglio 2016.

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