Autogoverno e automalgoverno

Tucodi Luca Baiada

Il peggiore attacco alla magistratura è quello che trova sponda al suo interno.

Sull’onda di un caso giudiziario che coinvolge un ex presidente dell’Associazione magistrati, e che vede altri giudici impegnati in frequentazioni furbe, trapela un sistema di spartizione degli incarichi e degli uffici direttivi importanti. Gli approfondimenti processuali diranno se c’è materia penale, ma quel che è emerso basta a segnare una vicenda epocale e un problema enorme. Le intercettazioni che sono state diffuse hanno il linguaggio di chiacchiere fra posteggiatori e la sostanza di una corsa all’accaparramento del potere, con acredini personali da ossessione mentale.

Inevitabilmente, nelle polemiche si affacciano il paradigma della P2, i cascami di scelte prese da questa consiliatura o da quelle precedenti, i contatti con ambienti politici spregiudicati. Osservatori molto parziali ne approfittano per riproporre un’avversione antica all’autogoverno, all’indipendenza, all’impegno politico dei magistrati, alla libertà di espressione.

C’è chi propone direttamente l’abolizione delle correnti, proprio mentre in sede governativa ci si attiva per conoscere l’orientamento politico dei giudici, in vista di iniziative. Si notano letture Ancien Régime della libertà di pensiero, e l’idea ministeriale su un dispositivo di segnalazione anonima, magistrati contro magistrati, che legalizzerebbe la delazione e i colpi bassi.

Tira un’aria di ubbidienza, si spargono sospetti, incombe una voglia di padrone che non si sentiva neppure al tempo dei peggiori attacchi di Berlusconi. Anni di assuefazione a manovre spericolate, ansie securitarie, crisi economica e indebolimento della rappresentanza popolare sembrano avere sbloccato vecchie ambizioni, compresa quella di mettere le briglie ai magistrati.

Non c’è una sola forza politica che assuma una posizione davvero efficace per la tutela dell’indipendenza, e la stessa Associazione è stata a lungo ripiegata su una linea difensiva insufficiente. Il punto è che gli ultimi anni hanno visto l’indipendenza, la propositività, la stessa democrazia come senso profondo del diritto, arretrare di fronte a modifiche procedurali convulse, novelle ordinamentali sciagurate, interpretazioni miopi, costume notabilare.

Le voci più accorte denunciano da tempo un aspetto profondo del malessere: la lenta creazione di un doppio binario di carriera nella magistratura. Per alcuni lo svolgimento del lavoro ordinario degli uffici; altri, forti di legami col mondo politico, di vincoli familiari, di scaltrezza nelle frequentazioni d’assemblea, di corridoio, di chiacchiera social, seguono carriere oblique, in cui agli uffici giudiziari, preferibilmente apicali, si alternano posti elettivi, nomine politiche, incarichi fiduciari di alta amministrazione, chiamate dirette avallate dall’autogoverno, distacchi in uffici nazionali e internazionali prestigiosi e remunerati. Normative arruffate permettono cambi d’abito disinvolti, toghe a scomparsa, percorsi governo-autogoverno e ritorno. La proposta, che si sente ripetere, di vietare comunque ai magistrati eletti in Parlamento di tornare in servizio (un’idea eccessiva e lesiva di diritti fondamentali), stranamente non viene estesa a quelli che le forze politiche chiamano ad alti uffici senza alcun passaggio elettorale; come se il mandato popolare sporcasse la toga, compromettesse la giurisdizione, e la chiamata diretta fosse più pulita. Non c’è voglia di scelte democratiche, in questo, ma di condizionamento e di ricatto. Non ti piace l’ufficio di appartenenza? Se ti candidi alle elezioni, ti si chiude dietro un portone; se righi dritto, ti chiamiamo a qualcosa noi, e hai il biglietto di ritorno. C’è bisogno di continuità del potere diffuso, non di smanie arriviste e di sgambetti. Il divismo, nei poteri pubblici, porta con sé troppi rischi, e a pagare il conto sono la giustizia e la libertà. Il formidabile Tuco, in Il buono, il brutto, il cattivo, al guardiano manesco: «I tipi grossi come te mi piacciono, perché quando cascano fanno tanto rumore».

Eppure questa crisi, fatta di carrierismo e di compromessi da retrobottega fra magistrati e personaggi politici, ha visto finalmente una reazione dell’Associazione, faticosa e sofferta; ma solo con la sostituzione del presidente, i vertici hanno fatto uno scatto in avanti, ancora tutto da leggere nei risultati.

Si rivedono disegni pericolosi, non sempre respinti con la fermezza necessaria. Fra i più indecenti c’è il sorteggio dei magistrati per il Consiglio superiore. Una reazione demolitoria, una sbrigativa amputazione dell’arto curabile. È come se per reazione al voto di scambio e alle corruttele, parlamentari o locali, si abolissero le elezioni e si sorteggiassero i componenti delle Camere e delle assemblee degli enti territoriali. C’è da star certi che i parlamentari disposti ad approvare una scelta dei togati, al Consiglio, fatta per sorteggio, non accetterebbero mai la stessa soluzione per le poltrone che occupano. Soprattutto, la proposta tradisce un che di grigiore, di burocrazia automatica e di dichiarata sfiducia nei confronti della condivisione del potere.

In un quadro difficile per la democrazia, per la partecipazione e per il semplice senno civile, l’appiattimento e la mancanza di prospettive e di garanzie assumono forme simili, persino tra giustizia e fiscalità.

I magistrati si vuole appiattirli sulla gestione automatica del processo: non devono interpretare, ma applicare cioè ubbidire. Una volta uniformati, non ha senso che si dividano per orientamenti, quindi possono essere sorteggiati, per far parte di un debole organo di autoamministrazione. Una roulette ha pochi colori, è veloce e moralmente neutra. Davanti a lei si può fare uno scongiuro, ridere, piangere; ragionare non serve. A decidere è la sorte, la stessa dea che una folla di derubati depressi insegue tutti i giorni, in Italia, con le scommesse al bar o in tabaccheria.

Il processo si automatizza, schiacciando le parti in regole che appiattiscono gli avvenimenti, sfumando il senso del tempo: la prescrizione si ridimensiona, i fatti si staccano dai giorni e dai contesti diventando amorfi; ne esce svuotata anche la categoria dei crimini contro l’umanità: se tutto è imprescrittibile, perché distinguere fra delitti da processo di Norimberga e cronaca nera? Si parla di attacchi al divieto di reformatio in peius: la modifica di una decisione di primo grado, perché distinguerla fra un esito migliore e uno peggiore per l’imputato? Una sentenza è una sentenza, condanna o assoluzione, è uguale, è tutto piatto e quindi ribaltabile. L’esito che ne uscirebbe sa di forcaiolo, ma si può star certi che sarebbe forte coi deboli e debole coi forti.

Insieme, la partecipazione del cittadino medio alla spesa pubblica si livella: l’ambizione è la Flat Tax, tassa piatta, ma non per tutti. Più le aliquote si somigliano, più sbiadisce la progressività. Il contribuente livellato nasconderebbe la sperequazione del prelievo dietro un’uguaglianza falsa, come quella fra crimini contro l’umanità e furti al supermercato, o come quella fra un condannato e un assolto.

Intanto, approfittando del momento favorevole, hanno nuovo impulso tentativi di manomissione della giustizia, in particolare con la riduzione della componente togata nel Consiglio superiore, lo sdoppiamento dell’organo di autogoverno in funzione della separazione delle carriere e lo svuotamento dell’obbligatorietà dell’azione penale. Sono manovre di cui Domenico Gallo, Alfiero Grandi e Massimo Villone hanno denunciato le insidie.

Siamo di fronte a un paradosso e a un boccone avvelenato: collusioni illegali, fra alcuni magistrati e la politica di mestiere, sono usate come pretesto per legalizzare una politicizzazione stabile della giustizia e una riduzione dell’indipendenza. Con la modifica del Consiglio, i politici manovrieri non avrebbero più bisogno di riunioni segrete: sarebbero eletti direttamente nella compagine consiliare. A un automalgoverno si può rimediare, se si difende l’autogoverno. E benché una componente associativa, Magistratura indipendente, abbia sottovalutato lo scandalo, va ricordato che l’emersione della vicenda si deve a magistrati, quelli di Perugia, e non alla politica. Sarebbe il colmo, se la questione morale fosse la scusa per una risposta immorale.

È chiaro che la migliore difesa della magistratura è semplicemente l’attacco per l’attuazione della Costituzione. Ed è chiaro che dentro le mura di questa città ci sono cavalli di Troia, pieni di tutt’altro che giustizia.

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